Varie, 11 febbraio 2002
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Amado Jorge
• (Jorge Amado de Faria) Ferradas (Brasile) 10 agosto 1912, Salvador (Brasile) 6 agosto 2001. Scrittore. Ha raccontato le condizioni di vita dei contadini e dei ”proletari”. «Il più celebre degli scrittori brasiliani contemporanei. [...] Una vita dura e colorata, piena di svolte, sofferenze, successi. La ricordava con distacco e sorriso sornione ma anche con furore, che però durava un attimo perché trovava subito l’aspetto meno drammatico. Per esempio gli anni frenetici, turbolenti dell’adolescenza e della giovinezza. Nel ”37, a venticinque anni, fu arrestato la prima volta per la sua attività politica di sinistra. Aveva già una sua piccola fama, aveva fondato un club di letterati ribelli e aveva pubblicato i primi romanzi formicolanti di personaggi forti e infimi, pescatori, prostitute, braccianti disperati, ladri e contrabbandieri, come Sudore, tutto incentrato su un caseggiato dai 116 locali abitati da 600 dannati, bianchi e neri, indios e meticci, una bolgia che è l’emblema di una umanità degradata, malinconica e rabbiosa, tesa a sopravvivere. O come in Cacao, un inno ruvido alle piantagioni più remote e disgraziate e ai lavoratori oppressi. Ebbene, lo presero e lo portarono in carcere a Manaus e di lì a Rio. Un orrore? Tutt’altro: ”Fu una pacchia”, raccontava lui. Era in uno stanzone immenso con altri due prigionieri politici, aveva una doccia mentre fuori faceva quaranta gradi all’ombra, e in più godeva ”di roba buonissima da mangiare e di bottiglie su bottiglie di birra che arrivavano a un prigioniero portoghese ricchissimo”. Era diventato comunista frequentando legge a Rio, andava d’accordo con altri scrittori e intellettuali che gli fecero scoprire Brecht e quel che si chiamava lo zdanovismo, da Zdanov, il pontefice dell’ortodossia estetica made in Urss, un realismo spesso piatto, angusto, niente affatto epico come lo si sarebbe voluto, dove la vita era violentata, soggiogata dal buonismo ideologico, dall’eroismo premeditato dei personaggi positivi. E viaggia negli Stati Uniti e in Europa, e ammira lo statunitense Steinbeck, i francesi Sartre e Aragon e Eluard, e Neruda, gli scrittori e artisti di casa nostra, da Carlo Levi a Guttuso. Amado si riconosce in questa ”Internazionale”. Per questo è arrestato almeno una decina di volte e peregrina in esilio. Finché nel dopoguerra è eletto deputato, nel partito comunista brasiliano, e nel ”46 vince persino il Premio Stalin. qui che cambia la penna, lascia dietro di sé il realismo semplice e ideologico, diretto, per volgersi a uno stile più complesso, variegato, e decisamente divertito. Ma il suo sguardo è sempre rivolto ai poveri cristi, al tipo di persone che ha frequentato e fiancheggiato dall’infanzia, da quel ”buco” dov’era nato nel ”12, a Ferradas, neanche un paese, una fazenda piuttosto, dei gran campi di cacao, della gran polvere, e un caldo ossessivo, sfibrante, da cui si riemerge ballando e cantando nelle feste: oh, le feste, quelle sì che lo commuovevano sempre. ”Con la festa, con il carnevale, la gente dimostra di essere viva. La festa è speranza. E l’amore è la sola cosa che di solito non costa niente”. L’amore, la donna, è un argomento che quasi fa vibrare il suo baffo bianco. Cominciò presto a conoscere quel turbamento. Da bambino. Gli operai e gli impiegati della fazenda paterna se lo portavano con loro quando andavano in città e bivaccavano nelle case di prostituzione. Non dimenticherà mai il tepore soffice di certe immani cosce femminili, quegli umori e odori. Stava ore sulle ginocchia di ragazze scure e polpute. Si irritava quando qualcuno gli rimproverava il suo cambiamento di penna, di stile, così acclamato in tutto il mondo, da Gabriella, garofano e cannella (1958) a Donna Flor e i suoi due mariti (’66), a Teresa Batista stanca di guerra (’72) e a Tocaia Grande (’84). ”L’impegno mio non è cambiato - sosteneva -. Anche nei miei libri d’oggi c’è un atteggiamento politico. Oggi sciolgo nell’azione le cose che voglio dire perché i romanzi devono riflettere soprattutto la vita. Ho abbandonato i discorsi. E oggi c’è in me l’ironia, che prima non c’era, un’arma terribile”. Gli importa soprattutto stare dalla parte degli ultimi, dei diseredati, raccontare le loro storie, perché sono loro i protagonisti di quella cosa pomposa che si chiama storia. Alla fine diceva di avere orrore dell’ideologia, ”malattia dei nostri anni che porta sempre al settarismo. Ho orrore d’una felicità collettiva ottenuta a prezzo dell’infelicità dell’individuo... Quale comunismo? In Brasile esistono ora cinque diversi partiti comunisti. C’è molta scelta. Io ho scelto i libri”. Libri che gli han dato denaro. Molti son diventati film. Aveva un bell’appartamento a Parigi, sulla Senna. Fino a qualche anno fa ci viveva sei mesi all’anno. Di là veniva spesso in Italia, dove ha ricevuto molti premi e riconoscimenti. Un premio che amava ricordare era il Nonino, nell’84. Era sempre gentile, amabile, l’occhio vivacissimo e nero affondato nelle borse e nelle palpebre dense, la pelle olivastra, i capelli lunghi sulla nuca, la mano nella mano della sua Zelia, la scrittrice Zelia Gattai, discendente di anarchici di Pieve di Cadore. La voce bassa, armoniosa, dipingeva il Brasile, Bahia, le case antiche e pericolanti, umide e macchiate, i riti del passato, e ricordava l’Africa, gli schiavi, i portoghesi eleganti e crudeli d’un tempo e concludeva stranamente in spagnolo: ” la vita nostra, hombre”» (’La Stampa”, 7/8/2001). «L’ultima volta che era venuto a Roma, era già stanco, camminava a fatica, diceva di non voler più scrivere, né leggere, solo ascoltare con gli occhi chiusi, mano nella mano, le storie che Zélia, la sua compagna di una vita, sapeva inventare per lui. Eppure nei suoi occhi nerissimi sotto le candide sopracciglia splendeva ancora una luce di amicizia, di ironia, di complicità. ”Domani, aveva detto, mi danno una nuova laurea ad honorem. Mi piace, sono grato agli amici che vogliono dimostrarmi il loro affetto e la loro stima, ma insieme mi fa ridere, come quando in Brasile, mi avevano fatto accademico e io poi, nel 1979, avevo scritto quel terribile libro che anche voi avete tradotto qui, voi traducete tutto, e lo avete tradotto col titolo Alte uniformi e camicie da notte. Proprio così, le alte uniformi non solo dell’Accademia Brasiliana di Lettere, ma anche dell’esercito, marina e aviazione e le camicie da notte dei letti dove si fa, si distrugge e si gode il potere. Tutta la mia vita io ho lottato per la libertà e contro il potere. Tutti i poteri. Perché, l’ho fatto dire a un mio personaggio, io dico no quando tutti dicono sì e lo dicono in coro. Non sono un anarchico, però, e il mio passato lo dimostra”.Questo suo passato lo aveva raccontato nel 1992 in uno dei suoi ultimi libri, quella Navigazione di cabotaggio che aveva come sottotitolo Appunti per un libro di memorie che non scriverò mai e che narrava senza alcuna cronologia, col solo ordine della concatenazione dei ricordi, una vita avventurosa come poche. Forse nel momento dell’estremo congedo gli si sarà srotolata nel ricordo interno tutta questa vita: dai primi anni a Ferradas, municipio di Itabuna, nel sud della Bahia, dove lui era nato nel 1912, figlio di un commerciante di Sergipe divenuto proprietario terriero in quella regione del cacao che il figlio avrebbe visto mutare e prosperare intorno a sé. E, nel pensiero, i fotogrammi degli accadimenti reali si saranno mescolati a quelli dell’invenzione fissata in tante pagine di Cacao, suo primo ”romanzo proletario”, di Terre del finimondo, e di quel Sao Jorge dos Ilhèus che gli italiani conoscono come Frutti d’oro.Avrà rivisto le sequenze del carcere, nel 1942, dell’effimera gloria di deputato comunista nel 1946. E poi, già con Zélia al suo fianco, l’esilio, il castello degli Scrittori in Cecoslovacchia, la Russia, l’Asia, le traduzioni moltiplicate e il suo nome conosciuto in ogni angolo dei paesi socialisti, gente che saluta, l’ombra di Stalin, il sorriso di Neruda. E poi la grande delusione, il ritorno, la pausa e il ritorno alla letteratura. Ma questa volta con una folla di personaggi complici, stregoni negri, turchi ingegnosi, immigrati italiani e tedeschi, donne di vita affettuose e ”colonnelli” spietati delle terre del cacao, ladruncoli e barattieri, marinai attaccabrighe e avventurosi. Ma soprattutto mulatte brunorosate, donne sensuali, e appetitose, indipendenti e coraggiose come Gabriela, Teresa Batista stanca di guerra, Tieta dell’Agreste e Donna Flor con i suoi due mariti: personaggi di fantasia più reali dei tre milioni di abitanti che oggi popolano questa vecchia capitale del Nord e personaggi variegati che negli anni sono venuti sovrapponendosi, ma senza cancellarli, agli eroi, tutti di un pezzo, dei primi romanzi impegnati» (Lucia Stegagno Picchio, ”la Repubblica” 7 agosto 2001).