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 2002  febbraio 11 Lunedì calendario

AMATO3

AMATO Giuliano Torino 13 maggio 1938. Politico. Laureato in Giurisprudenza, docente universitario, militante del Psi, dal 1989 ne è diventato vicesegretario. Eletto deputato nel 1983, 1987, 1992 per il Psi, è stato sottosegratario alla presidenza del Consiglio nel Craxi I e II, vicepresidente del Consiglio e ministro del Tesoro nel Goria, ministro del Tesoro nel governo De Mita. Presidente del Consiglio dal 28 giugno 1992 al 22 aprile 1993 è stato poi presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ministro per le Riforme istituzionali nel D’Alema I e del Tesoro nel D’Alema II, di nuovo presidente del Consiglio dal 25 aprile 2000 fino alla fine della XIII legislatura. Nella XIV e XV legislatura (2001) è stato eletto deputato per l’Ulivo. Ministro dell’Interni nel Prodi II (2006-2008) • «Professore universitario, già presidente del Consiglio e ministro, è considerato una delle menti più lucide del nostro panorama politico e, insieme, uno dei suoi analisti migliori» (Marco Guidi, ”Il Messaggero” 14/4/2006). «Uno dei politici italiani più razionali e apparentemente freddi, professore di diritto costituzionale comparato, addirittura noto come ”il dottor sottile”» (Luigi La Spina, ”La Stampa” 14/4/2006). «Ha l’aria di un anglosassone finito per errore in Italia, e non troppo contento di esserci. Serio, austero, rapido nel prendere le decisioni» (da un rapporto Cia; Filippo Ceccarelli, ”la Repubblica” 15/9/2005). «Era il 1963, avevo appena conseguito il master in diritto costituzionale comparato alla Columbia University ed era tempo di tornare a casa. Non mi ero reso conto, fino a quel momento, che il sogno americano aveva attecchito così profondamente nel mio animo di studente poco più che ventenne. E mi bruciava dentro, mentre sentivo forte l’odore del sigaro toscano che generazioni di migranti italiani avevano fumato in quella terza classe che era quella che ci pagava la Fulbright. Era il mito dell’Oltreoceano, che rappresentava un richiamo fortissimo per un giovane come me, pieno di aspettative, curioso e sempre pronto a muoversi per scoprire nuove realtà. La Beat Generation aveva aperto le menti e i cuori all’improvvisazione, al vivere on the road - dal titolo del famoso libro di Jack Kerouac - andando incontro al domani facendo le esperienze più diverse. Di certo io non mi identificavo con quel modo istintivo e perfino selvaggio di stare nel mondo. E tuttavia l’America era diventata un mio sogno, un sogno rafforzato dal fatto di averlo per un po’ di tempo vissuto davvero. Questo ideale del vivere sempre in luoghi diversi mi spinse a prendere la patente ”D”, quella che un tempo serviva per guidare i camion e gli autobus. Ho dovuto studiare e assumere dimestichezza con i motori, facendo anche una certa fatica. E sebbene la vita mi abbia portato da tutt’altra parte, forse il sogno che mi ha accompagnato di più è stato proprio quello di fare il camionista. Ero già adulto e inserito nella carriera universitaria quando mi decisi ad affrontare l’esame e lo feci con la consapevolezza di tenermi aperta una strada che probabilmente non avrei mai percorso, ma che mi piaceva sapere essere un’occasione possibile. Per vedere il mondo, e le automobili, da lassù. E per vivere fra luoghi diversi. A tanto spingono i sogni. Non quelli che fanno parlare il nostro inconscio la notte, bensì quelli che facciamo a occhi aperti durante il giorno» (’La Stampa” 14/4/2006). «Hanno costruito un’immagine che non corrisponde a me. Chi non mi conosce potrebbe pensare che sono freddo e calcolatore e che passo il tempo a tessere trame intellettuali, cose non vere. In genere provo gioia nello stare con le persone con cui vivo, lavoro e mi trovo bene. Gli studenti, ai quali in parti diverse del mondo ho insegnato anche solo per quindici giorni, hanno mantenuto un buon rapporto con me. Mi scrivono spesso. Tempo fa ho confessato che il mio rapporto con i figli è diventato difficile quando sono cresciuti. Anche questo mio problema è stato utilizzato per costruire il personaggio del raggelante ”dottor sottile”. La difficoltà che ho incontrato è quella di milioni di genitori che, travolti dal lavoro e impegnati nella carriera, perdono la quotidianità del rapporto con i figli. […] Fin da quando sono ragazzo il lavoro è la parte essenziale della mia vita. Se passo una giornata senza aver studiato o lavorato, soffro un po’. Nella mia vita c’è sempre spazio per il lavoro. […] A volte penso che mi piacerebbe avere ancora la barchetta che avevo negli anni Settanta, un Boston di tredici metri. Partivo con mia figlia per un’isoletta vicino Ansedonia dove facevamo il bagno.. Lei era un’eccellente tuffatrice e riusciva ad immergersi quando bisognava disincagliare l’ancora. […] Vado a giocare a tennis tre-quattro volte la settimana. A parte i mesi affollatissimi dell’estate, quando è difficile riuscire a giocare la sera, mi piace andare al tennis a fine giornata, poi magari al cinema e concludere con una bella pizza con gli amici […] Ho cominicato a giocare per strada, a Lucca, quando avevo dodici anni con un compagno di scuola; poi cominciai a frequentare i campi da tennis che affiancavano lo stadio di calcio. Mi sono inserito nella squadra della città: lo sport mi ha insegnato ad accettare dure umiliazioni. Ricordo quando andai la prima volta a Firenze alle Cascine e mi trovai davanti un ragazzo, un po’ più grande di me e un po’ più bravo che mi batté 6-0 6-0 […] Sono figlio di una famiglia piccolo-borghese. Mio padre era direttore di un ufficio postale in provincia. Era diplomato, non laureato. Era il tredicesimo figlio di una famiglia di Agrigento. Decise di lasciare la Sicilia e cercare fortuna sul continente. A Viareggio incontrò e sposò mia madre, poi andò a Torino dove siamo nati io e mia sorella. Durante la guerra sfollammo nell’astigiano, a Canelli, dove rimanemmo per tutto il periodo dell’occupazione tedesca e della lotta partigiana. Dopo la Liberazione andammo a Lucca. In quarta ginnasio conobbi mia moglie. Dopo il diploma, frequentai il collegio giuridico di Pisa, che era un po’ una dépendance della Normale. Al quarto anno di università decisi con mia moglie di trasferirmi negli Stati Uniti dove avevo vinto una borsa di studio. Arrivai a New York che parlavo malissimo l’inglese. I primi giorni eravamo ospiti di una famiglia, ma non ci siamo trovati bene, ci parlavano, noi non rispondevamo perché non capivamo e loro si offendevano. Tornai in Italia un anno dopo. In terza classe, sulla nave Vulcania intrisa di odori di sigaro toscano […] Ancora oggi vado molto spesso a New York e la considero, in un certo senso, la mia città […] Ero un socialista di area, mi ero iscritto nel ”57-58 dopo i fatti di Ungheria. Per un breve periodo a Lucca passai al Psiup, però qualche mese dopo tornai al Psi. Negli anni Settanta ero tra gli intellettuali che si occuparono della rivista ”Mondo Operaio”, una grande pubblicazione di revisione critica dell’ideologia di sinistra […] Quando fu eletto Craxi, io facevo parte del gruppo di Giolitti contrario a lui, ma, in seguito, cambiai idea. Nel 1982 dissi che aveva difetti ma che era ”meglio prendere il Craxi per le corna”, accettarne qualità e difetti […] Se i fumatori incalliti facessero come me, forse se la caverebbero bene. Io a quattordici anni fumavo un pacchetto e mezzo al giorno, poi capii che era sbagliato ma non volevo rinunciare al piacere della sigaretta. Mi colpì un libro di Pavlov dove si spiegavano i condizionamenti nei comportamenti degli animali e riuscii a mettere delle regole al mio fumare. Regole che durano da più di quarantacinque anni: fumo una sigaretta dopo la prima colazione, una dopo il caffè di metà mattina, una dopo pranzo, una all’ora del tè, una all’ora dell’analcolico prima di cena e una dopo cena. Al di fuori di questo non sento più il bisogno di fumare» (Alain Elkann, ”La Stampa” 23/7/2002). «Avendo ascoltato domenica scorsa per radio il suo intervento al congresso di Pesaro dei Ds, non mi sono sorpreso del successo che ha avuto; mi sono rammaricato delle cose che ha detto. La più grave è l’analisi che egli ha fatto del capitalismo contemporaneo e della sua caratteristica propria, che è la scomparsa del lavoro fisso. Per descrivere questa condizione si è riferito al film Ladri di biciclette ed ha esplicitamente detto che, nel sistema economico contemporaneo, la bicicletta ti viene rubata ogni giorno. Ho sentito in quel momento partire l’applauso della platea, immagino guidato da Cofferati, da Salvi e da Berlinguer. Non certo da D’Alema che ebbe il coraggio di dire qualche anno fa che i giovani dovevano dimenticare la sicurezza del posto fisso. Mi sono chiesto in quel momento come può un uomo che si dice riformista avere una visione del capitalismo come quella che ispirava Brecht nell’Opera da Tre Soldi, o quella che descriveva De Sica nel suo desolato cinema del dopoguerra. All’idea che il capitalismo sia così malvagio da far franare le montagne, se non ci fossero le schiere dei socialisti e dei riformisti a tenerle su, figuriamoci gli altri. Ma la metafora del capitalismo con Ladri di biciclette è solo una delle cose che non avrei mai pensato di ascoltare, da un riformista che ha avuto importanti responsabilità di governo. Amato ha anche invocato la benedizione di Dio sui giovani del movimento antiglobalizzazione; ha detto che vorrebbe avere Bertinotti nel suo partito; ha accuratamente taciuto su tutto il problema del terrorismo e della guerra che ha segnato in queste settimane una distinzione profonda fra i Ds e nella sinistra in generale. Ha poi parlato del riformismo e della storia dei rapporti fra il Pci e il socialismo democratico, ma ha pudicamente taciuto il nome che in quel contesto non poteva non essere fatto, che non è il nome di Nenni e soprattutto del Nenni che propone l’unità della sinistra, ma è semmai quello di Craxi, di cui, oltretutto, essendo stato collaboratore, ha il dovere di difendere la memoria e con essa la propria storia personale. All’inizio del suo intervento ha detto che egli, essendo emozionato, avrebbe parlato con il cuore. Non ne sono sicuro, perché non è facile dismettere il proprio abito quotidiano. In realtà preferirei che egli avesse scelto freddamente di fare il discorso che ha fatto per un qualche obiettivo politico che non conosco e anche al costo di mettere in difficoltà Fassino. Se invece dovessi pensare che egli ha detto quello che davvero sente, allora ci sarebbe da preoccuparsi molto: se il primo degli autoproclamati riformisti è fermo all’idea del capitalismo malvagio, figuriamoci gli altri» (Giorgio La Malfa, ”Il Foglio” 23/11/2001). «Parlando con il sindaco di Shanghai gli ho detto: questa sopraelevata è splendida, ma in Italia con i Verdi non saresti mica riuscito a costruirla. Figuriamoci, una strada che attraversa una città antica. Lui mi ha risposto che anche qui hanno protestato gli architetti e la comunità intellettuale. E allora? Ho chiesto io. E lui mi ha detto: in Italia avete troppa democrazia» (’la Repubblica” 18/1/2001).