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 2002  febbraio 11 Lunedì calendario

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AMENDOLA Ferruccio Torino 22 luglio 1930, Roma 3 settembre 2001. Attore. Ma soprattutto, doppiatore. «Non è sempre stata una voce senza volto, quella di Ferruccio Amendola, che da anni, dopo il passaggio di testimone da parte della generazione di grandi doppiatori italiani da Gualtiero De Angelis a Emilio Cigoli, era il leader, la star della categoria. Prima ancora, assai prima che a cinquant’anni passati diventasse una figura televisiva molto popolare come protagonista di sceneggiati e testimonial pubblicitario, aveva interpretato tanti piccoli ruoli. E, lo ricorderete in mezzo a quel cast meraviglioso, era stato il soldato De Concini de La Grande Guerra di Mario Monicelli. Portando proprio il nome del famoso sceneggiatore, Ennio De Concini appunto, che all’inizio degli anni Ottanta e assieme al regista Franco Rossi lo avrebbe guidato per mano - Ferruccio, ma anche il figlio debuttante Claudio, e con loro Rita Savagnone rispettivamente moglie e mamma nonché altra celeberrima voce: di Glenda Jackson, Liza Minnelli, Jacqueline Bisset - attraverso i personaggi di Storia d’amore e di amicizia, del portinaio di Quei trentasei gradini, del barbiere inurbato di Little Roma, del dottor Aiace di Pronto Soccorso. I quali, entrando in tutte le case italiane, avrebbero ricongiunto a una presenza fisica la già notissima e inconfondibile voce: quella voce caratteristicamente pastosa, che il pubblico aveva innumerevoli volte incontrato al cinema e riconosciuto a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. La voce di Dustin Hoffman (da Un uomo da marciapiede e Piccolo grande uomo, poi in Tootsie) e di Robert De Niro (da Taxi Driver, in Toro scatenato e Il cacciatore) ma anche di Sylvester Stallone in Rambo e (quando non è di Giancarlo Giannini) di Al Pacino, per esempio in Serpico, e perfino di Mickey Rourke. Questo ”marchio” - o, secondo una versione più malevola, questa monotonia - ha dato anche luogo a riserve e obiezioni. Che dall’eterna, generale disputa sulla consuetudine italiana del doppiaggio si concentravano sull’omologazione determinata, ”unificando” importanti attori in realtà molto diversi tra loro, dall’onnipresenza di Amendola: non solo appiattimento rispetto alla personalità di provenienza, in quel parlare sempre e tutti uguale, ma anche imposizione di una lingua artificiale. Che nel tentativo di restituire e tradurre specialmente i dialoghi più violenti, quelli pieni di ”fuck” per intenderci, ha finito con il contaminare la nostra lingua come i McDonald’s la nostra alimentazione. Ma così come c’è un rovescio della medaglia sulle virtù creative altrettanto appassionatamente sostenute a proposito della scuola del nostro doppiaggio, anche il caso specifico è rivelatore di una ricerca che ha lasciato il segno. Se nessuno può negare quanto alla ”interpretazione” italiana di Woody Allen abbia dato la voce di Oreste Lionello, altrettanto non può sfuggire l’opera di modernizzazione, la ricerca di sintonia con il ”parlato” della vita e con la lingua dei suoi ”doppiati” fatta da Ferruccio Amendola. Questione sempre aperta, sulla quale egli stesso, molto impegnato sul fronte dello stile, si è più volte pronunciato: ”Fino ad allora”, fine anni Sessanta, ”per fare questo mestiere bisognava essere toscani, avere una dizione perfetta, senza inflessioni, se no al massimo ti facevano dire buongiorno e buonasera. L’esempio classico è quello di Emilio Cigoli, grandissimo doppiatore che dando però la voce a Marlon Brando in Fronte del porto faceva ricorso a una recitazione arcaica, di maniera”. Amendola rivendicava, nel citare lo stratagemma dialettale usato per i personaggi di Un uomo da marciapiede, di Serpico e di Toro scatenato ”una sporcatura necessaria a rendere affine la faccia dell’attore che doppio al mio parlato”. Qualche anno fa, era il ”96, era sceso in campo parlando con indignazione di furto intorno all’inattesa scelta della compagnia di distribuzione di affidare il De Niro di Casino a Gigi Proietti (che peraltro rivendicava la primogenitura avendolo doppiato in Mean Street). ”Sono stupito” dichiarò Ferruccio Amendola ”il pubblico italiano mi identifica ormai con De Niro e lo stesso attore si è sempre detto entusiasta della mia voce”» (Paolo D’Agostini, ”la Repubblica” 4/9/2001). «Suo padre era il regista Mario, professionista di un cinema distensivo e domenicale, ma anche regista di teatro che lo fece debuttare a 4 anni con Armando Falconi. E la nonna fu la sua prima insegnante di dizione che lo preparò al primo doppiaggio, quello del bambino di Roma città aperta, nel ”45. A questo lavoro si dedicò quando compì 27 anni, dopo esperienze di teatro serio con Visconti e di rivista con Walter Chiari, alternando con la partecipazione a qualche film musicarello anni ”60, Cuore matto o Riderà e a un’avventura con Bud Spencer, anche se la sua prova migliore resta nella Grande guerra» (Maurizio Porro, ”Corriere della Sera” 4/9/2001).