Varie, 11 febbraio 2002
ANCELOTTI Carlo
ANCELOTTI Carlo Reggiolo (Reggio Emilia) 10 giugno 1959. Allenatore. Dal gennaio 2012 al Paris Saint Germain. Col Milan vinse lo scudetto del 2004 e le Champions League del 2003 e 2007 (finalista nel 2005), il Mondiale per Club 2007 ecc., col Chelsea Premier League e Coppa d’Inghilterra 2010 (primo nella storia del club a fare il “double”). Ha allenato anche Reggiana, Parma e Juventus, vice di Arrigo Sacchi ai Mondiali del 1994. Ex calciatore. Con la Roma vinse lo scudetto del 1983, con il Milan quelli del 1988 e 1992, la Coppa dei Campioni 1989 e 1990, le coppe Intercontinentali 1989 e 1990. Con la nazionale fu terzo agli Europei del 1988 e ai mondiali del 1990 • «Uno dei centrocampisti più completi (e più sfortunati) degli anni 80 [...] Esordisce in nazionale il 6 gennaio dell’81, a Montevideo, in una gara del Mundialito contro l’Olanda. Bagna l’esordio con un gol dopo appena sette minuti, ma la maglia azzurra gli darà meno di quanto merita. In quel periodo è la mezzala più promettente del calcio italiano. Ma nel campionato 1981/82 un gravissimo infortunio lo mette fuorigioco e gli fa saltare i mondiali [...] Altro brusco stop nel 1983/84 [...] Passa al Milan nel 1987: diventerà il fulcro del gioco di Sacchi. A ventinove anni è un mediano formidabile, uno stantuffo inesauribile, ottimo distributore di palloni. In una magica serata di coppa a San Siro contro il Real Madrid (aperta da una sua rete) disputa una partita pressoché perfetta» (Dizionario del calcio italiano) • «I dirigenti della Juve lo hanno esonerato (aveva un altro anno di contratto) perché, come dice Cocciante, lo consideravano “troppo buono e qui ci vuole un uomo”. Il fatto è che [...] non è affatto buono nella comune accezione calcistica, cioè “pirla”. È una persona perbene, educata e disponibile, tanto da invitare, il giorno dopo il suo licenziamento dalla Juve i giornalisti a casa sua e offrire loro un posto dove raccontare il suo addio e pure generi di conforto. I suoi colleghi avrebbero sciolto i cani [...] A far la guardia a lui e alla casa pensa la signora Luisa con la sua grinta e con un brevetto da elicotterista. Si sono conosciuti perché anche lei giocava a pallone, hanno fatto due bei figli, Katia e Davide, si sono fatti una casa a Sharm el Sheikh sul Mar Rosso, dove vanno appena possono. Lei lo ha seguito prima a Roma, che è rimasta nel loro cuore e attaccata nella pronuncia di lui che spesso scivola nel dialetto romano, poi a Milano dove l’ha voluto fortemente Arrigo Sacchi, il mentore. Con lui, Carlo è diventato il puntello di quella squadra grande ed eversiva, malgrado le sue giunture fragili. Con Arrigo ha cominciato anche la sua carriera di allenatore, dal 1992 al 1995 in azzurro, prima di sedersi sulla panchina della Reggiana che ha portato in serie A. Quindi il Parma, dove, oltre al secondo posto e all’unica partecipazione in Champions League della creatura dei Tanzi, ha difeso Crespo che i tifosi fischiavano e qualcuno tra i dirigenti voleva rispedire a casa. L’argentino, dura lex sed lex, ha contribuito a scucirgli lo scudetto dal petto con quel gol all’ultimo minuto di Parma-Juve del gennaio 2000. Infine a Torino dove ha protetto Del Piero, che poi ha impedito il tracollo della Juve di Lippi. Ringraziamenti nada. Luisa è la prima tifosa di Carlo, lo segue ovunque e, dei due, è quella che si occupa della gestione del rancore. Lei non perdona, infatti sarebbe stato curioso vederla di nuovo nella tribuna del Tardini, poco lontano dai Tanzi, che, ne siamo certi, avrà pensato più di una volta di bombardare, mentre svolazzava col suo elicottero sopra Collecchio e dintorni. Carlo è un grande incassatore. Difficile che trascenda, eppure ne avrebbe motivo. Malgrado gli ottimi risultati, a Parma non l’hanno trattato bene e neanche a Torino. I tifosi della Juve sono stati particolarmente feroci con lui, lo hanno bersagliato fin dall’esordio di Piacenza, quando subentrò a Lippi che se n’era andato di notte dopo il tracollo col Parma. Lo hanno paragonato al maiale, come se fosse un insulto: non lo è in generale e sicuramente non lo è per lui cresciuto in una terra dove quell’animale è oro. Carlo incassa, ma soffre. Così, sebbene sia giovane, ha già detto che non allenerà ancora per molto. Dietro quel “faccione” (soprannome datogli dalla Luisa) si agita, ogni domenica (o quando si gioca) una feroce tensione. Carlo, infatti, ha fatto sua la filosofia di Nils Liedholm: “L’allenatore di calcio è il più bel mestiere del mondo, peccato che ci siano le partite”» (Roberto Perrone). Ha esordito in serie A contro il Milan. «Me la facevo sotto. Il Milan era campione d’Italia, io un ragazzo. A un certo punto Bruno Conti fa un cross perfetto, Albertosi esce e tocca e mette il pallone proprio davanti ai miei piedi. In quel momento ho pensato tutto. Al gol, al giro sotto la curva, ai miei amici al paese. Chiudo gli occhi e tiro la bomba: il pallone sbatte contro la faccia di Albertosi. Finisce zero a zero. Capello non c’era, forse pensava già al suo futuro di tecnico. Non avrei mai pensato di averlo come allenatore. [...] Sì, andavo d’accordo, io ero giocatore, lui tecnico. Non ci sono state polemiche e scontri. Però mi mandava spesso in panchina e non potevo essere contento. Anzi, se proprio vuole che lo dica: mi faceva girare le palle in un modo... [...] Sono nato con la camicia. Mio padre Giuseppe era mezzadro. Ha lavorato una vita, si è spaccato la schiena in campagna. Io ero piccolissimo, ma ricordo quando veniva il padrone a dividere il raccolto. ’Questo è mio, questo è tuo’. E divideva come piaceva a lui. Anche con le galline: entrava nel pollaio e si prendeva le più belle, le più grasse. ’Voglio questa, quella e quella’. E se le portava via. Io ho fatto un’altra vita. [...] Papà non mi ha mai sgridato e non mi ha mai picchiato. È la verità, nemmeno una volta. E io ero vivace... [...] Non sapeva dove picchiarmi, per lui ero tutto buono. Ero un balocco di carne. Delegava mia madre e diceva: ’Picchialo tu, dove prendi prendi’. [...] Io non mi ’sento’, io sono contadino. O, se volete, uomo di campagna. Ho la casa sulla collina di Felegara, gli animali, le galline, il cavallo. [...] Arrigo è stato un grande maestro, ci si capiva, si parlava la stessa lingua, la stessa idea di calcio» (Germano Bovolenta, “La Gazzetta dello Sport” 29/12/2003).