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 2002  febbraio 11 Lunedì calendario

Angelillo Antonio

• Valentin Buenos Aires (Argentina) 5 settembre 1937. Ex calciatore. Ha iniziato nel Racing nel ”55 segnando subito due reti. L’anno dopo fu Moratti a portarlo in Italia e con l’Inter rimase quattro campionati, stabilendo il record assoluto di gol segnati (33) in una stagione nei campionati a 18 squadre. Poi è passato alla Roma dov’è rimasto dal ”61 al ”65, segnando 31 gol e giocando 138 partite con la maglia giallorossa. Ha poi giocato due campionati nel Milan, prima di chiudere la carriera al Lecco prima e al Genoa poi. In nazionale ha giocato due sole volte, segnando una rete nel 6-0 su Israele. Il debutto in azzurro nel dicembre del ”60 a Napoli contro l’Austria (1-2). Ha tentato senza fortuna la carriera di allenatore: ha iniziato ad allenare in Umbria, tra i dilettanti, con il S.Maria del Angeli ad Assisi. Poi si è seduto sulle panchine del Montevarchi, del Chieti, del Campobasso, del Rimini, del Brescia, a Reggio Calabria, del Pescara (A e B), dell’Arezzo, dell’Avellino, del Palermo e del Mantova, prima di tentare un’avventura all’estero. Per due stagioni ha allenato in Marocco, poi è tornato in Italia, in C2 per allenare la Torres. «[...] ”Sono nato nel quartiere del Parque Patricio, vicino al campo dell’Huracán, a Buenos Aires. Figlio unico di Soledad e Antonio, un ”carnicero”, un macellaio. Era la città di Borges e di Gardel, il dio del tango. Immensa. Viva. Bellissima. Lì il calcio era arte, secondo solo al tango. C’erano Di Stefano nel River e Pedernera, Martini e Pontoni nel San Lorenzo de Almagro. Assomigliavo molto a Pontoni, centravanti del San Lorenzo. Tecnica e movimento [...] Studiavo e suonavo. Per quattro anni ho suonato il bandoneón, una fisarmonica per il tango, che si teneva sulle ginocchia. Ma quando El Gordo Diaz mi vide, incominciai a giocare nell’Arsenal. A 17 anni ho debuttato in A in Huracàn-Racing. Presto ho esordito in nazionale. Il trio d’attacco era Maschio- Angelillo-Sivori. Quando vincemmo il Sudamericano di Lima del ”57, siamo diventati ”los angeles da la cara sucia’, gli angeli dalla faccia sporca. Maschio segnò 9 gol, io 8. Sivori ne realizzò pochi: lui si divertiva. C’era anche il Brasile che l’anno dopo avrebbe vinto il titolo mondiale. Maschio fu ingaggiato dal Bologna, Sivori dalla Juve. Il dottor Cappelli, venuto a vedere per conto del Milan Cucchiaroni, che giocava con me nel Boca, quando tornò in Italia, disse a Moratti: ”Ho il centravanti per voi”. Fui ceduto la sera di Argentina-Uruguay, 1-1, sul campo dell’Huracán. L’ultima mia partita e l’ultimo gol per l’Argentina. Arrivai a Milano a fine giugno ”57 per 80 milioni di pesos. Avevo 19 anni ed ero un disertore. Dovevo partire militare: non sarei potuto andare all’estero. Così, per vent’anni, non sono più potuto tornare in Argentina”. L’inizio non fu senza difficoltà. Angelillo scoprì la marcatura a uomo e il libero, la nebbia e la solitudine. Ma, a fine stagione, aveva segnato 16 gol. L’anno dopo, al posto di Carver, arrivò Bigogno. Accanto a lui giocarono Firmani, un centravanti di peso, e un mancino nuovo, Mariolino Corso. Angelillo, 175 cm per 72 chili, era un attaccante leggero. Si giovò di quel Panzer e dialogò di prima con quel talento puro. Ne uscì una stagione indimenticabile. Angelillo stabilì il record di gol in un campionato a 18 squadre: 33. ”Bastava che toccassi la palla ed era gol. Ne feci 31 in 27 giornate. Poi la porta diventò stregata. Il record di Felice Borel, 32 reti, era lì, ma per sei giornate non segnai. Solo pali, salvataggi, errori clamorosi. Con l’Alessandria, alla penultima giornata, quando esordì Rivera, ebbi 5 palle- gol e non segnai: alla fine mi misi a piangere. Solo nell’ultima partita, a San Siro contro la Lazio, spezzai il tabù con una doppietta. Poi nessuno riuscì a fare meglio. E quello, ormai, resta il record del secolo” [...] ”Appartiene all’aristocrazia del calcio: richiama Meazza e Di Stefano. un prestipedatore completo”, sentenziò Brera. Poi Angelillo fu sorpreso dal tramonto. Era bello, il baffo sottile alla Clark Gable. Una bionda che cantava e ballava alla Porta d’Oro di Piazza Diaz lo avvolse in spire di velluto. Ilya Lopez era il nome d’arte, ma era bresciana: si chiamava Attilia Tironi. Una storia da rotocalco. Quando all’Inter arrivò Helenio Herrera, profeta del ”taca la bala”, il suo occhio inquisitore si posò sulla coppia. La invitò a pranzo. Poi emise la sentenza: ”La situazione è irrimediabile. Angelillo è finito. Ho deciso di liquidarlo e di sostituirlo con Suarez”. Così Angelillo, nel 1961, passò alla Roma. ”Non voglio parlare di quella persona lì. Che non fossi finito lo prova il fatto che con la Roma ho vinto coppa Italia e coppa delle Fiere”, replica, a 44 anni di distanza Angelillo, con asprezza armata. [...] Ama la Roma. ”Una grande, bellissima esperienza”, ricorda e parla di ”Piedone” Manfredini e di Lojacono, di Orlando e di Losi. ”Ma il primo amore è l’Inter. Ero un figlio per i Moratti. Massimo, nel ”95, a distanza di 34 anni, mi ha chiamato come osservatore dell’Inter. Una grande prova di amicizia. Giocavamo a calcetto insieme [...]. Massimo era un ragazzo...”. [...]» (Claudio Gregori, ”La Gazzetta dello Sport” 12/2/2005). «Dice che oggi si chiamerebbe Totti e c’è del vero. Non era un centravanti classico, alla Vieri per intenderci. ”Giravo al largo, se stavo fermo non la prendevo mai. […] Centravanti era Manfredini, ma quante polemiche. Se prendevo il nove e facevo gol, ecco che per tutti ero io e non Pedro il vero centravanti della Roma. Poi la domenica dopo, magari, finiva zero a zero in casa e cascava il mondo: viva Manfredini e abbasso quella schiappa di Angelillo che non segna mai. C’era anche Lojacono. Noi due a Carniglia chiedevamo sempre il numero dieci, guai a chi toccava il numero nove. Ma non c’entrava Pedro, che era ed è un amico, anzi lo saluto e me lo immagino a far caffè al bar, c’entrava la stampa, sa com’è Roma […] Ho ricordi splendidi. Peccato non ci fosse una lira. Qualche tempo fa a Trigoria ho incontrato Sensi, che quando giocavo era il vice di Marini Dettina. Caro Angelillo, come stai? Mi fa lui. E io: presidente, adesso bene, ma allora ci fosse stato almeno un assegno coperto. Venni pagato 250 milioni, non so quanti sarebbero adesso, certo molti miliardi. Avessi guadagnato quanto guadagnano adesso, avrei giocato cinque anni e mi sarei sistemato. E non dico un miliardo al mese, mi sarebbe bastato molto meno […]» (Roberto Renga, ”Il Messaggero” 13/11/2001).