varie, 11 febbraio 2002
ANTONELLI
ANTONELLI Laura Pola (Croazia) 28 novembre 1941. Attrice. «L’angelo in guepiere che ha fatto sognare una generazione di italiani e che è passata attraverso un calvario di cocaina, arresti, assoluzioni a rilento e dolore psichico» (Massimo Lugli, ”la Repubblica” 15/2/2002). «Trent’anni fa, in vestaglia e reggicalze, salì la scala nel tinello di Malizia ed entrò nella storia del cinema italiano. Bella e finalmente raggiungibile. Vestale della commedia erotica, simbolo di amore ancillare, sesso casalingo e soprassalto peccaminoso […] Roma anni ”70 e ”80, ricca, eccitata, rumorosa, infelice, la incoronò regina di cuori e degli incassi: il produttore Silvio Clementelli e il vecchio Rizzoli, i registi Samperi, Festa Campanile, Dino Risi, gli attori Lando Buzzanca, Alberto Sordi, Enrico Maria Salerno. Gli industriali e gli avvocati di Cinecittà. Robert Altman e Michelangelo Antonioni che la volevano a tutti i costi. Lei più divina delle bellissime emergenti (Edwige Fenech, Barbara Bouchet, Gloria Guida), unica erede (sembrava) di Sofia Loren e di Gina Lollobrigida, della Mangano e della Cardinale. ”Un volto d’angelo su un corpo da peccatrice” come scrivevano i cronisti estasiati. Lei che veniva ”da una infanzia dispersa e infelice”, famiglia di sfollati slavi, profuga a Venezia, poi a Napoli, poi a Camaldoli, insegnante di ginnastica approdata a Roma nel 1963, primi Caroselli, poi i fotoromanzi con qualche velo svelato, le primissime commediole osées tipo La rivoluzione sessuale, anno 1965, dove, scandalosamente, faceva il bagno nuda. Corpo perfetto: 55 chili, 1 metro e 66 d’altezza. Poi lei moglie di un marito voyeur (Lando Buzzanca: ”Era magica, bastava che si slacciasse un mezzo bottone…”), che la esibisce per tornare ad amarla. Infine il successo. Racconta Sandro Parenzo, oggi produttore, che sceneggiò Malizia con il regista Salvatore Samperi: ”L’idea della servetta che eccita tutti i maschi di casa la pescammo un po’ da Brancati. Calze velate, buco della serratura, silenzi d’appartamento, rumore della doccia. Fu un miracolo”. Storaro ci mise la luce dei film di Bertolucci. Fred Bongusto la musica della penombra. Laura Antonelli, tutto il resto. Fu il più grosso incasso dell’anno 1973, 6 miliardi di lire di allora. Il suo cachet passò da 4 a 100 milioni a film. Scrisse il critico Buttafava: ”Assurta a simbolo del sesso italico: piccole porcherie esplosive fissate in un catalogo da variare all’infinito”. Scrisse il grande Rodolfo Sonego, sceneggiatore: ”Lei era di una bellezza estremamente desiderabile e ingannevole. Poteva far perdere la testa a qualsiasi uomo l’avesse incontrata”. Sbocciò infine - dopo un matrimonio sbagliato con l’antiquario Piacentini e innumerevoli flirt veri o presunti - la sua storia d’amore, più emozionante e spettacolare, con Jean-Paul Belmondo strappato alla più gelida e perfetta e bikinata delle Bond-girl, Ursula Andress. Rapito dal set de La trappola e il lupo, in fuga prima a Roma, poi nei Caraibi, isola di Antigua, poi su tutti i rotocalchi del mondo per le botte e i baci, i tradimenti, i litigi e l’amore ad alta quota, come raccontavano (oltre a Laura) le scandalizzate hostess del Concorde di linea Parigi-New York. Amore che durò 9 anni, senza matrimonio, senza figli (’la sola idea di averli mi terrorizza”), senza una casa in comune, lei a Roma, terrazza a pochi passi da Montecitorio, lui appartamento a Saint-Germain-des-Prés, pendolari d’amore, incastonati nella collana di luce del jet-set che luccica a puntate: ”Ogni mattina, se nella stanza da letto non c’è Jean-Paul, ho una sua corbeille di rose rosse”. Loro che decollano verso Los Angeles per l’incontro Muhammad Alí-Ken Norton. Loro che atterrano negli ippodromi d’Inghilterra dove si gioca il polo. Loro che si inseguono da un set all’altro, fino a che la stanchezza si insinua, e poi le recriminazioni, la gelosia. ”Quando Jean-Paul è in pubblico - dirà Laura appena quarantenne e appena separata - deve sempre fare a pugni e tenere in braccio una donna vistosa”. Forse è da qui che inizia il declino di Laura Antonelli, donna (infine) di nessuna o pochissima malizia, semmai ingenua, fragile come uno specchio dentro al quale, lentamente, dilegua la giovinezza. E la bellezza, inavvertita, si incrina. Nelle interviste di allora - primi anni ”80 - la sua voce, ancora impastata d’accento giuliano, si fa via via più cupa: ”Mi sono legata a uomini sbagliati. Colpa mia. Colpa del mio dannato bisogno di affetto”. E poi: ”Ho un temperamento drammatico, un po’ russo”. E poi: ”Ho un male nell’anima. Ho sempre la voglia istintiva di chiudere gli occhi e di raggomitolarmi in un angolo”. L’angolo che sceglie è lontano da Roma. Acquista una villa immensa a Cerveteri, tre case, una piscina olimpionica, il parco, gli orti, tutto fiorito, tutto bellissimo, tutto solare, ma avvelenato dal veleno della solitudine. Dice: ”Vivo nel silenzio. Sono molto chiusa, non faccio confidenze, non ho amici. Sono angosciata da tutto: dallo squillo del telefono al mistero dell’universo”. L’universo si rompe definitivamente la notte del 27 aprile 1991 quando in camicia da notte, lo sguardo allucinato, la faccia gonfia di alcol, apre la porta d’entrata della villa al maresciallo Sollazzo e gli dice: ”Venga, dentro c’è una festa”, accompagnandolo, indifferente, fino a quel celebre vassoio pieno di coca (con puntiglio il tribunale annotò: 36 grammi di cocaina, pari a 162 dosi, valore 9 milioni di lire), che le spalancò il carcere, la condanna in primo grado a 3 anni e 6 mesi, poi il Centro di igiene mentale di Civitavecchia, poi l’assoluzione in appello (tossicomane e non spacciatrice), anno 2000. Da allora il telefono ha smesso di squillare. La villa è stata svenduta. I genitori sono morti. L’unico fratello, Claudio, è andato a vivere in Canada. Uno dei pochissimi rimasti a darle una mano è Piero Albertelli, bottega in via dei Prefetti, il più classico tra i camiciai di Roma, amico di Visconti e delle dive di allora, che ti dice: ”Lei ha bisogno di tutto, tranne che di ricordare”. Laura Antonelli ha cancellato e si sta cancellando. Per questo ha distrutto tutte le sue foto. E vive in un perpetuo, indistinto, presente. Si sveglia ogni mattina alle 7. Va in chiesa. Torna. Alle 10 arriva una badante che si occupa della spesa e della casa. Ogni tanto arriva un volontario della Charitas. Lei sta seduta in salotto. Legge i salmi della Bibbia. Non compra i giornali. Non guarda la televisione. Va a letto alle 8 di sera. Prega. Al suo amico Albertelli dice di sentire le voci. Le voci le parlano della sofferenza, della solitudine, del tempo che se ne va. Qualche volta piange. Poi (finalmente), si addormenta. […] Oggi non c’è più nulla della sua giovanile bellezza se non gli occhi che ti guardano per un attimo, occhi ancora azzurri, velati, ma perfettamente indifferenti. Più nulla del suo antico e bellissimo corpo, da anni ingrassato fino a 100 chili e deformato dalla depressione, dagli psicofarmaci, dall’alcol, dalla solitudine. Tutto sparito dentro a quegli anni della carriera e della ricchezza, delle pene d’amore e della sfortuna che infine si addensarono nei mesi paranoici del 1991, l’arresto per 36 grammi di cocaina, il carcere, la vergogna. Tutto sparito in quel lifting sbagliato, durante le riprese di un grottesco Malizia 2000, remake che avrebbe dovuto sfruttare l’eco (proprio) del carcere, della vergogna, dello scandalo e che (invece) le sfigurò il viso per un anno e il cuore per sempre. Fu in quei mesi di declino e di abbandono, inseguita dai fotografi a caccia del mostro, a caccia della regina caduta, a caccia della femmina che infine risarciva, con la sua afflizione, tutti i desideri frustrati, che Laura Antonelli pronunciò la sua frase più commovente e premonitrice: ”Uso il dolore come una spugna e un po’ alla volta cancello le persone che mi hanno fatto soffrire”. Eccola dunque, perfettamente sola e perduta, ora che per altri dieci anni la sua spugna ha cancellato il mondo circostante. mattina presto, sta andando a messa. Cammina lentissima a piccoli passi. Cammina rasentando i muri. Indossa una tunica di cotone grigio. Scarpe di gomma. Ha un crocifisso al collo. I capelli raccolti. Della sua antica ricchezza le resta poco più di nulla, un bilocale arredato con le tendine bianche (cucina, salotto, camera con lettino singolo) e una pensione Enpas da 500 euro al mese. Inutile seguirla. Inutile avvicinarsi. Inutile parlarle. […] Incontrarla è una vertigine di spavento e una fatica che ti indeboliscono come una cattiva radiazione. Dice: ”Non voglio parlare. Non voglio vedere. Non voglio ricordare”. Provi a sentire chi l’ha frequentata negli anni d’oro, quelli condivisi con i play-boy, le feste, le spider rosse, la celebrità, i viaggi, quando era ”la donna più bella dell’universo” (Luchino Visconti), quando viveva nel superattico di via Campo Marzio arredato di fiori e di bambù, quando si faceva fotografare con vestaglie di raso rosa e il sorriso di velluto, ed è come risvegliare una antica malattia, un ricordo sbagliato. Attori, attrici, registi, produttori raddoppiano il vuoto, allungano la distanza della caduta: mai più sentita, mai più vista. Dove abita? ancora viva? Vieni a sapere, tra precauzioni e sospiri, che amici di amici di amici, una notte, l’hanno raccolta per strada fradicia di pioggia e alcol. L’hanno asciugata, ripulita, rivestita. E di nuovo dimenticata» (Pino Corrias, ”Corriere della sera” 28/4/2003). «Nulla è rimasto in lei dello sguardo seducente e svelto che faceva impazzire gli uomini di tutta Italia e inviperire le rispettive consorti e fidanzate. Il merlo maschio, 1970, Gli sposi dell’anno secondo, 1971, Malizia, 1975, Il malato immaginario, 1979, Mi faccio la barca, 1980, sono per lei soltanto un ricordo. Fastidioso. Perché, dice ”il passato mi ha regalato tanto, ma mi ha tolto molto di più”. Adesso è una signora triste, gonfia e confusa. Si è smarrita nei corridoi degli ospedali psichiatrici nei quali è entrata e uscita negli ultimi anni cercando di combattere il suo mal di vivere. una donna depressa e debole. ”Sto male. Non ho la forza di reagire. Non riesco a trovarla e non so capire se questo dipenda dalle medicine che sono costretta a prendere […] Forse non ero tagliata per fare l’attrice. Non ero preparata ad affrontare quella carriera, il successo, la popolarità, quell’ambiente, con le illusioni e le delusioni. Sono sempre stata una persona semplice, timida, attaccata ai valori della famiglia. Oggi, per me, esiste Gesù”. La conversione (riconversione) religiosa è successiva ai suoi drammi giudiziari» (Elvira Serra, ”Corriere della Sera” 21/11/2001).