Varie, 11 febbraio 2002
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Antonioni Michelangelo
• Ferrara 29 settembre 1912, Roma 30 luglio 2007. Regista. Oscar alla carriera nel 1995. Nel 1961 Orso d’oro a Berlino per La notte. A Cannes Premio della Giuria per L’avventura (1960) e L’eclisse (1962), Palma d’oro nel 1967 per Blow-up. A Venezia, Leone d’oro nel 1964 per Deserto rosso, Leone d’oro alla carriera nel 1983. «Giovane, elegante, intellettuale, cresciuto in un raffinata città di provincia, si laurea, stranamente, in economia e commercio. Si esercita nella critica cinematografica, Prima al ”Corriere Padano”, poi a Roma nella redazione di ”Cinema”. A Parigi è assistente, nel 1942, di Marcel Carné per L’amore e il diavolo. Nel 1943 avvia un documentario (Gente del Po) che terminerà quattro anni dopo. Partecipa ad alcune sceneggiature, scrive soggetti (anche per Visconti), realizza alcuni brevi suggestivi documentari (Nu, L’amorosa menzogna), e giunge nel 1950 al lungometraggio, procedendo controcorrente rispetto al neorealismo (lui che ha scritto un saggio puntualissimo su La terra trema). Narra di due ”amanti impossibili”, a Milano, invischiati in un giallo: Cronaca di un amore. L’ambiguità è il suo terreno di regista. Fra le tappe successive da ricordare La signora senza camelie (1953), Le amiche (1955), Il Grido (1957), L’avventura (1959). Un linguaggio morbido, internamente teso e complesso, gli permette di approfondire il tema dell’ambiguità (sentimentale, morale, culturale) che sarà al cento delle sue opere migliori: La notte (1960), L’eclisse (1962), Deserto Rosso (1964), film a colori di rivoluzionaria tessitura, Blow-up (1966), indagine sulla inafferrabilità del reale che si colloca fra i capolavori del cinema europeo, Zabriskie point (1970), un ”aereo” balletto americano sulla irrealtà della realtà, Professione reporter (1975), un inganno in cui la vittima è un uomo in fuga. Sono film glaciali, impeccabili, che non facilitano la carriera di un intellettuale così intransigente. Poco, e con fatica, lavorerà in seguito» (Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del Cinema). «I suoi film indicano, a partire dal Grido, ’57 e dall’Avventura, ’60, una nuova strada, una ricerca formale continua, un possibile nuovo modello di cinema antispettacolare, nel senso di un superamento del realismo o naturalismo, com’era già avvenuto anche nella letteratura e nell’arte. Non era giunto all’improvviso su questo nuovo territorio. Alle spalle aveva una lunga carriera, prima di critico cinematografico e di documentarista, poi di regista di lungometraggi, a cominciare dal bellissimo e per molti versi innovativo Cronaca di un amore del 1950, che in pieno neorealismo si discostava dai canoni di quella scuola (alla quale anche lui era appartenuto) per inoltrarsi su un terreno in gran parte inesplorato, almeno dalla cinematografia italiana, come l’analisi dei sentimenti, la fragilità delle relazioni interpersonali, la critica della società borghese, l’ambiguità delle situazioni esistenziali. Una poetica personale che era andata maturando nel corso degli anni e aveva sorretto anche I vinti ( ’52), La signora senza camelie (’53), Le amiche (’55), sino al citato Grido. con L’avventura e con i film seguenti che quella poetica si affermò compiutamente, approfondendosi e ampliandosi, toccando via via altri tasti dell’animo umano, altri elementi della complessa psicologia contemporanea, fuori dei condizionamenti sociali più espliciti e facilmente criticabili, dentro invece un’analisi puntuale, rigorosa, persino crudele, dei comportamenti individuali. Basti pensare a quella che possiamo chiamare la tetralogia della crisi dei sentimenti e della solitudine della donna, composta dall’Avventura, dalla Notte (’61), dall’Eclisse (’62), dal Deserto rosso (’64), tre dei quali interpretati da Monica Vitti, allora sua compagna di vita. Un complesso di opere che, con un linguaggio sempre più rigoroso ed essenziale, uno stile cadenzato su ritmi lenti, lunghe inquadrature, tempi drammaturgicamente ”morti”, al limite del formalismo o dell’astrattismo, ci hanno dato, della realtà contemporanea, una rappresentazione prospettica, sfaccettata, totalmente libera dai canoni figurativi e spettacolari tradizionali. Quasi un nuovo modo di vedere il reale, di coglierne l’essenza, di mostrarne i risvolti più segreti, il lato ineffabile. Quella ineffabilità che si coglie appieno, ad esempio, nelle sequenze finali di quelli che forse sono i suoi capolavori, Blow up (’67), con la finta partita di tennis, Zabriskie Point (’70) con la reiterata esplosione della villa e lo spappolamento degli oggetti che si librano nello spazio, Professione: reporter (’75) con la morte del protagonista nello squallido alberghetto spagnolo. Tre finali che suggellano un modo personalissimo di cogliere il lato oscuro della realtà, quasi una visione del mondo, attraverso la forma perfetta di sequenze che rimangono per sempre nella memoria; e ancora si mostrano, magari un po’ sbiadite, in non poche pagine di Identificazione di una donna (’82) e in Al di là delle nuvole (’95), il suo ultimo film realizzato insieme a Wim Wenders» (Gianni Rondolino, ”La Stampa” 27/8/2002).