Varie, 11 febbraio 2002
ARCHIBUGI
ARCHIBUGI Francesca Roma 16 maggio 1960. Regista. Film: Il grande Cocomero, Mignon è partita, L’albero delle pere, Verso sera • «In tutti i miei film ho cercato di inserire un sogno, l’ho girato, ma poi mi sono sempre tirata indietro, salvo ne L’albero delle pere, ma era appena un frammento. Quando sono al montaggio e li rivedo, puntualmente mi sembrano malfatti, li trovo deludenti. Forse per muoversi nel mondo onirico è necessario un talento visionario che io non possiedo. […] Sono una lavoratrice metodica: leggo, studio, approfondisco e mi avvicino alle cose con approssimazione. Poi a un certo punto queste eruttano da sole. Magari per molto tempo raccolgo materiale, che si stratifica internamente finché non trova una via d’uscita. Anche i miei personaggi mi si presentano da soli. Per esempio il protagonista de L’albero delle pere, è arrivato e ha detto: ”Sono Siddharta, ho 14 anni, vivo a Roma e sono il padre di mia madre” e così ho cominciato a sbozzare Pinocchio dal pezzo di legno. […] Durante le riprese di un film, sogno i miei attori. Quello è il momento più difficile e delicato della lavorazione. Quando mi stacco dai miei personaggi e non sono soddisfatta di come gli attori li prendono in consegna. Soffro perché non aderiscono perfettamente al mio immaginario. Sarà il dolore della separazione, ma ingaggio con loro una colluttazione, nella quale non riesco sempre a impormi. Durante quel conflitto li sogno e loro mi indicano la strada per trovare un punto d’incontro. […] Ho sognato il mio direttore della fotografia che si arrabbiava terribilmente con uno della troupe, colpevole di avere messo in scena due gatti tutti sporchi. ”Sono dei gattacci”, protestava e io cercavo di calmarlo, ”Luca non ti arrabbiare, sono stata io a sporcarli, perché volevo che sembrassero dei gatti abbandonati”, ma lui insisteva. […] Sono come i miei film, sempre attraversati dal dolore, perché la sofferenza purtroppo mi tallona, ma non credo di essere una buonista, soltanto una persona non pacificata con la vita» (Brunella Schisa, ”Il Venerdì” 21/1/2000). «Mignon è partita, l´unica copia decente reperibile è sottotitolata in giapponese, le altre sono tutte deteriorate. sempre un problema trovare le copie dei film, bisogna diventare vecchi per avere i propri film restaurati. Ma non ho fretta [...]» (Maria Pia Fusco, ”la Repubblica” 28/11/2003). «[...] Suo padre Francesco, docente di economia, ha insegnato in Italia e negli Stati Uniti, ”e il suo migliore amico era ed è Giorgio Ruffolo. Papà mi portava a undici anni alle veglie per il Vietnam, era un socialista convinto e appassionato. Mamma, che è morta quando io avevo 19 anni, si era separata da lui e aveva sposato un secondo marito molto comunista e molto per bene. Insomma, sono cresciuta in una famiglia laica, che ritenne giusto tenermi lontano da Dio e dal sacro, una scelta che oggi penso sia stata una mancanza, credo che nella mia vita ci sia un vuoto da colmare. A metà degli anni Settanta, era impensabile che una famiglia così mandasse i figli in un istituto normale, era ovvio che finissi al liceo unitario sperimentale di Roma, una scuola incasinata che all’epoca si disse che fu creata per un desiderio di Eleonora Moro, la moglie del presidente Dc molto in linea con le teorie sull’insegnamento libero e non convenzionale di Maria Montessori. Riccardo Barenghi, che è stato direttore del manifesto ed ora scrive sulla Stampa, ha tracciato una mappa dei reduci dal Lus: oltre a Giovanni Moro, figlio di Aldo, c’erano Valerio Magrelli, Fabio Ferzetti, Benedetta Loy, allora eravamo un gruppo di ragazzotti, aspiranti intellettuali, figli di un’utopia poi chiusa in fretta e furia. [...] per mia figlia, ho scelto il Visconti, il liceo più classico e tradizionale possibile”. Appena arrivata ai tredici anni, Francesca si iscrive alla Fgci, la Federazione giovanile comunista, allora guidata da Walter Veltroni: ”Ma io non lo conoscevo, era il capo inarrivabile. L’ho incontrato molti anni dopo, attraverso il cinema. No, io ero una del genere suorina che amava Berlinguer e per lui, per amore suo e del partito, vendevo tutte le domeniche l’Unità. Andavo alle sei di mattina dal segretario di sezione a prendere i pacchi del quotidiano e poi, via ai semafori a venderle. Per la mia scuola, era quasi uno scandalo: tutti i miei compagni, allora, leggevano manifesto e Lotta continua”. Quando poi Moro viene sequestrato e ucciso, ”ricordo lo choc, il pianto, lo strazio di tutti noi. Ma anche la scoperta, liberatoria, dell’uomo, del prigioniero che si era raccontato nelle lettere, svelando di non essere stato il solito democristiano che noi potevamo immaginare”. [...] La generazione della Archibugi, un tempo conosciuta come ”il nuovo cinema italiano”, ha dovuto reggere il confronto con i grandi autori del dopoguerra: ”A parte delle rare eccezioni, come Gianni Amelio, Marco Bellocchio e Nanni Moretti, noi ci sentiamo delle puzzette se ci paragoniamo con il neorealismo. come se fossimo dei pittori venuti dopo il Rinascimento. Non solo: a produrre film sono le due televisioni, Rai e Mediaset, preoccupatissime della libertà assoluta di cui dovrebbe godere il racconto cinematografico e, diciamolo, anche dei possibili incassi. La verità è che i talenti, alla fine, vengono fuori lo stesso: i Virzì, i Mazzacurati, i Martone, ce l’hanno fatta. Ma che fatica...”. I politici di professione, la Archibugi non li conosce e non li frequenta. Né loro amano troppo il cinema, ”a parte il solito Veltroni. Una volta, a una festa di studenti, mi ricordo che si disse: è arrivato Claudio Martelli, che sembrava una star... Lo guardammo come fosse un animale allo zoo”. [...]» (Barbara Palombelli, ”Corriere della Sera” 13/8/2005).