Varie, 12 febbraio 2002
ARMANI
ARMANI Giorgio Piacenza 11 luglio 1934. Stilista. Tra i più celebri al mondo. Inizia a lavorare per La Rinascente dove rimane fino al ”64, anno in cui viene assunto da Nino Cerruti. Il suo nome compare per la prima volta nell’universo della moda nel ”74 con il marchio di abbigliamento «Armani by Sicons» e l’esperienza lo convince a creare un marchio personale. La sua prima collezione risale al ”75, anno in cui fonda la «Giorgio Armani Spa» e crea la sua etichetta di prêt-à-porter uomo e donna. Rivoluziona il design delle giacche, assolute protagoniste dei tailleur di taglio maschile disegnati per le donne. Nell’82 il settimanale Time gli dedica la copertina e nel 2000 il Guggenheim Museum di New York gli tributa una retrospettiva • «Negli Anni ”70, rivoluzionò il modo di vestire di uomini e donne, in parte vestendoli gli uni come gli altri. Negli Anni ”80, ridefinì il look di Hollywood con un fascino più sottile e negli Anni ”90 ha costruito un impero vendendo jeans e abiti eleganti. Oggi, nonostante le incertezze dell’economia e la sua età, punta centinaia di milioni di dollari sull’espansione. Progetta di aprire fiorai e caffè Armani. […] Non ha problemi a ricordare la sua infanzia durante la Seconda Guerra Mondiale. Piacenza, dove abitava, era un frequente obiettivo dei raid aerei degli alleati. ”Se c’era il sole, avevo paura, perché il sole portava i bombardieri”, ricorda. Sua sorella, Rosanna, che ora s’è ritirata dall’impresa Armani, ricorda un giorno quando lei aveva 4 anni e Giorgio 9. Nell’uscire da un rifugio antiaereo, alcuni compagni chiamarono Giorgio. Lui attraversò la strada per vedere che succedeva. I suoi amici avevano trovato una bomba fumogena. Uno di loro la accese, dando fuoco a una polvere infiammabile che aveva nella tasca della giacca. L’esplosione uccise l’amico di Giorgio e bruciò Giorgio dalla testa ai piedi. ”Rimase 40 giorni all’ospedale - dice Rosanna - lo mettevano tutte le mattine nell’alcool e gli tiravano via la pelle”. L’unica cicatrice fisica rimasta, racconta, è quella lasciata dalla fibbia del sandalo che gli marchiò il piede. Quando gli chiedono come si sia sviluppato il suo senso dello stile, Armani ricorda un Natale subito dopo la guerra, quando sua madre servì un pollo per la prima volta in tanti mesi: ”Ricordo ancora il profumo”. Ma il piccolo Giorgio pensò che avesse decorato la tavola con troppi fiori. Le disse che avrebbe dovuto togliere alcune decorazioni. E sorride: ”Cominciò tutto così”. La famiglia si trasferì nel ”49 a Milano, dove Armani studiò medicina, poi trovò un lavoro alla Rinascente nel reparto allestimento vetrine. Aveva quasi trent’anni quando giunse la prima occasione: un lavoro con il designer Nino Cerruti. Armani non era sicuro di voler accettare. ”Guadagnavo abbastanza da poter dare dei soldi ai miei genitori. Lasciare quella sicurezza non era facile”. Poi, un entusiasta di moda, ricco e carismatico, Sergio Galeotti, cambiò per sempre la vita di Armani. ”Giorgio era tranquillo - ricorda Rosanna - Sergio era pazzesco nelle pubbliche relazioni”. Presto diventarono amici nella vita e soci d’affari. ”Mi diede molta fiducia in me stesso”, dice Armani. ”Aveva molto più coraggio di me. Io avevo dieci anni più di lui. Avevo vissuto l’esperienza della guerra. Lui era un uomo giovane, ricco e senza problemi. Aprirono, racconta Armani ”un piccolo ufficio, ma con tanto entusiasmo. E funzionò”. Come ricorda la modella Lauren Hutton ”Prima di Giorgio, non c’era un’industria di moda italiana. C’era un’industria di fabbriche italiane”. Il tessuto veniva mandato ai disegnatori di Parigi o di Roma. Nessuno pensava a fare sfilate a Milano. Armani ”diventò il simbolo del successo in Italia”, dice il suo ex datore di lavoro, Cerruti. ”Dal ”74 in poi, lui e Gianni Versace furono i simboli della straordinaria crescita della moda italiana. Lui era più vicino alla gente normale. Versace aveva un pubblico più estremo”. Nei venti anni successivi, Armani diventò un nome familiare a tutti, il Museo Guggenheim allestì una retrospettiva su di lui, poi esposta a Bilbao, in Spagna. Verso la metà degli Anni ”80, Armani aveva davanti a sé un futuro con tanti miliardi di dollari. Poi, nell’85, Sergio Galeotti morì di Aids. Più di qualsiasi altro evento, è questa tragica perdita a spiegare perché Armani rimanga testardamente solitario nella moda. ”Quando persi Galeotti fui costretto a occuparmi di tutte le cose di cui prima s’occupava lui”, dice. ”Le relazioni finanziarie, gli avvocati, i contratti”, erano in pochi a pensare che avrei avuto successo come amministratore. Così cominciai a imparare il linguaggio degli avvocati. Volevo continuare una storia che avevo cominciato con Sergio e il secondo motivo, più personale, era una conferma di me stesso, per rispetto verso me stesso”» (Dana Thomas, ”la Repubblica” 27/8/2001). «Dicono sempre di me che sono freddo, che sono scostante. Non è affatto vero! Io vorrei divertirmi, ed essere una persona divertente, più di ogni altra cosa! Vorrei essere trasgressivo, frequentare gente, magari un po’ pericolosa. Invece sono sempre qui a lavorare. Lascio sempre che il senso del dovere prenda il sopravvento sui sentimenti e vivo in un limbo. Forse vent’anni fa ho fatto qualche follia, ho avuto avventure un po’ trasgressive, ma poi… Da me la gente si aspetta che sia infallibile, mentre certe volte vorrei poter fallire!! […] Mia madre mi dice spesso che dovrei ritirarmi in tempo, godermi i soldi guadagnati e le mie tre case: una nell’Oltrepò pavese, una a Forte dei Marmi e l’altra a Pantelleria. Forse un giorno lo farò. Non voglio diventare un vecchietto ridicolo […] Il mio primo ricordo sono gli orecchini a palla, d’oro rsso, di mia zia Anna quando avevo quattro anni e mia madre mi portava a casa sua. Era il 1938, vivevamo a Piacenza. Mio padre era impiegato, mia madre casalinga […] Ricordo le gite in bicicletta. Si partiva di giorno, si cenava da amici in campagna e poi, a volte, al ritorno, di notte, c’erano i bombardamenti. Prima della guerra ricordò il fascismo, le adunate, le divise di ”figlio della lupa”. Da bambini il fascismo ci stimolava, ma poi venne la guerra […] Ero molto ragionevole, ordinato. Mio fratello maggiore era più scapestrato. In casa la figura forte, chi faceva un po’ paura, era mia madre. Mio padre invece era una figura tranquillizzante. Per me fu uno shock, a sedici anni, lasciare Piacenza e venire a studiare a Milano. Intanto non vivevamo in centro ma a Porta Ticinese. E poi Piacenza, la provincia, significava un piccolo mondo nel quale noi vivevamo tranquilli e protetti. Belle case marrone, scure sotto la neve. Reminiscenze ottocentesche legate ai nonni. E poi lasciare la natura, la campagna, l’odore del fieno, delle aie. L’atmosfera della provincia di allora è qualcosa che non riesco a dimenticare neanche quando vado a New York. Spesso mi dico: perché mai io che sono nato a Piacenza dovrei finire nel jet set a Montecarlo? […] A Milano mi ero fatto un piccolo gruppo di amici. La domenica andavamo al parco a scattare fotografie. Facevo molte foto anche a mia sorella Rosanna, che poi diventò una modella di successo. Sentivo già una tendenza artistica. Lo capivo dal modo in cui preparavo il presepe o l’albero di natale. Poi andavo a Foppolo, a sciare dalla mattina alla sera. Ci alzavamo alle tre per prendere la corriera. […] Ho fatto il servizio militare a ventitré anni ed è stata una grande delusione. Io pensavo fosse come nei film: bello, giusto, estetico. Pensi che partii portandomi la racchetta da tennis! Invece nei primi tempi avevo nostalgia di casa. Non ero mai uscito dalla famiglia, e quando vennero i miei a trovarmi, la prima volta, mi misi a piangere come un vitello. Non volevo crescere, avevo fatto due anni di medicina pensando di diventare uno di quei medici di campagna molto romantici, come li racconta Cronin. In quegli anni ero timido, fragile, goffo. Ero un ragazzo carino, molto civile, e piacevo alla gente. Lavorai alla Rinascente dove fui molto apprezzato e poi, a trent’anni, da Cerruti. Lì cominciai davvero a lavorare con impegno per cercare di capire come funzionava un’azienda dalla A alla Z. In quegli anni entrò Sergio nella mia vita e mi disse: ”Penso che tu sappia fare di più”. Io avevo fatto solo moda maschile e desideravo innovare la moda femminile. Così a 38 anni, in corso Venezia, a Milano, in due stanze, che ammobiliammo con i soldi ricavati dalla vendita delle nostre Volkswagen, iniziammo. Volevo che le donne portassero giacche, cravatte e smoking come gli uomini, ma che restassero il più femminili possibile. I miei maestri furono i creatori di vestiti del cinema americano anni Trenta, e Coco Chanel, poi Kenzo, Emmanuelle Kahnh, Christian Bailly… Avevo in mente quell’aria elegante e un po’ sommessa degli anni Trentacinque, Quaranta […] Penso che nel mio mestiere, in certi momenti, mi abbia attraversato un po’ di genialità […] Ho trasgredito i costumi. Gonna e camicia d’organza e una cravatta da uomo regimental. Una giacca di pelle e una camicia di chiffon […] La donna americana ha un atteggiamento maschile e vuole imporsi nel business. I miei vestiti rispondono a questa esigenza […] Guardo la gente per strada , nei luoghi pubblici, al cinema. Prima di tutto tengo conto di quello che vorrei che un uomo e una donna portassero. Giorgio Armani designer magari ha pensato a una donna scrittrice degli anni Trenta a casa di certi amici intellettuali a New York e il Giorgio Armani manager dice: ”Ma quante ce ne sono di queste donne?”. Dieci. E allora non va bene […] Sono in ufficio alle nove, non smetto fino all’una. Tra l’una e le due pranzo a casa mia con amici, poi ricomincio fino alle otto, alle nove. Il tempo vola, mi occupo di tutto e ho sempre meno tempo per il lavoro creativo […] Il difficile sono le prime due settimane, quando si cercano le idee e ci si sente un po’ come lo scrittore davanti alla pagina bianca. Poi l’idea viene e si comincia la nuova collezione fino al momento della sfilata […] Io ho un buon patrimonio, ma essere veramente ricco è un altro mestiere. Bisogna imparare a essere ricchi perché la gente si aspetta che il ricco sia diverso. Io non ho ancora avuto tempo per essere ricco […] Do molta importanza all’Emporio Armani. Un luogo dove si può comperare il gusto Armani a prezzi giusti per il mondo di oggi. Vorrei essere ricordato come quello che ha fatto l’Emporio. Questa è la mia missione» (Alain Elkann, ”Amica” 10/2/1992). «La vita di Giorgio Armani è frenetica: ogni giorno un’ora e mezza di ginnastica con il suo allenatore, nella palestra personale, due volte la settimana nuoto nella piscina di casa, il risultato è quello di uno scattante giovanotto dai capelli bianchi sodo come il marmo: ”Ho scoperto il mio corpo a 55 anni, e mi sono messo d’impegno a curarlo”. Si è anche impegnato a concedersi ogni possibile agio, cui prima, già miliardario, per prudenza piacentina, non osava accedere: un grande attico a New York, un appartamento a Parigi, ville a Saint Tropez, Forte dei Marmi, Broni, Pantelleria, una magnifica barca di 50 metri arredata dall’architetto Ortelli in costruzione nei cantieri di Viareggio. E poi, massimo regalo, naso dappertutto nella sua azienda, dagli uffici creativi a quelli finanziari, al design dei negozi di cui non è mai sazio: nel mondo sono 277 divisi secondo sette etichette, dalla casa agli accessori, dalla moda lusso a quella jeans. Tra i più recenti, la boutique di Mosca, nel palazzo che prima ospitava gli uffici del KGB, dove si vendono più abiti ricamati e quindi costosi che nelle altre capitali del mondo, e quasi quotidianamente frequentata dalla signora Ludmilla Putin, particolarmente avida di lustrini. E poi, non bastandogli il ristorante Nobu, ha lanciato il catering di prelibatezze, per chi non le rifugge, giapponesi, e persino panettoni e cioccolatini in confezione quanto mai Armani. Senza soci, senza quotarsi in borsa, con uno staff prezioso ma fidandosi alla fine solo di se stesso. Si sa che le giornaliste, soprattutto quelle giovani che adorano la moda orribile che riesce a rendere bruttissime anche le creature più paradisiache, snobbano un po’ le sfilate Armani, pur correndo a baciargli la pantofola con gli occhi pieni di lacrime di meraviglia causa la sua generosità pubblicitaria. E lui non si arrabbia più: ”C´è stata nella moda, ormai da anni, una rivoluzione che ha scardinato le regole, per cui oggi, se una cosa ingoffa o rende ridicoli, è stupendamente moderna. Ci sono in questo senso creatori di immenso talento come Galliano, che trasformano le sfilate in spettacoli meravigliosi, altri invece che imitano male e fanno solo malinconia. Io ho scelto un’altra strada, non stupire ma vendere prodotti che entrano nella quotidianità”. […] Indulgente, Giorgio Armani ammette che quando crea una collezione femminile, pensa soprattutto agli uomini, ”che si spaventano a vedere una donna conciata dalle insensatezze della moda e non la porterebbero mai fuori. Gli uomini sono tradizionalisti, e le donne intelligenti ne tengono conto: io le aiuto ad abbellirsi, a piacere, senza strafare, con quella discrezione che le rende affascinanti”» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 27/2/2003).