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 2002  febbraio 12 Martedì calendario

AVATI Pupi (Giuseppe Avati) Bologna 3 novembre 1938. Regista. Ex presidente di Cinecittà Holding (2002-2004) • «Regista dei piccoli sentimenti, delle storie familiari» (Emilia Costantini) • «Ho iniziato a fare cinema quando i miei colleghi si chiamavano Rossellini e Antonioni

AVATI Pupi (Giuseppe Avati) Bologna 3 novembre 1938. Regista. Ex presidente di Cinecittà Holding (2002-2004) • «Regista dei piccoli sentimenti, delle storie familiari» (Emilia Costantini) • «Ho iniziato a fare cinema quando i miei colleghi si chiamavano Rossellini e Antonioni. Negli anni mi sono trovato accanto varie generazioni: ho sempre sentito l’urgenza di raccontare, e ho avuto la fortuna di mantenere una mia calligrafia. […] Cos’è, oggi, il cinema italiano. il cinema degli autori che guardano schizzinosi al pubblico? No. il cinema che cerca lo scontro con cinematografie tecnologicamente più avanzate della nostra? No, sarebbe solo cinema all’americana di serie B. Oggi su 100 pellicole italiane, 30 escono nelle sale, 5 vanno avanti, 70 non sono nemmeno distribuite. Non negare a nessuno un’opera prima, ferisce la dignità del cinema. Credo che dobbiamo definire un’identità, senza falsi pudori, senza retorica, senza demagogia. Il cinema è uno strumento ibrido, si corrompe con il denaro. un prodotto popolare che esige di piacere, e deve incontrare il suo pubblico. […] Il problema del cinema in Italia è stato la sua autoreferenzialità, mentre il paese di fuori continuava a vivere ignaro» (Brunella Torresin, ”la Repubblica” 22/1/2003) • «Finalmente c’è un po’ meno supponenza da parte dei nostri autori, sta sparendo quell’atteggiamento che aveva allontanato il pubblico dalle sale in cui si proiettava il cinema italiano. I registi, oggi, sono più umani e pragmatici di noi che abbiamo iniziato nel ’68 e che, quando dal fondo delle platee, vedevamo andar via gli spettatori ci guardavamo soddisfatti, convinti di aver colpito nel segno. [...] Esiste una grande differenza tra la passione e il talento. Ho trascorso gran parte della giovinezza confondendo le due cose e credo che questo equivoco incida fortemente sulla formazione della nostra società. Ci sono un sacco di persone che svolgono attività lontane anni luce dalle loro vere inclinazioni» (’La Stampa” 27/10/2003) • «Da bambino ho vissuto in campagna leggendo i libri del ciclo di re Artù. Penso che nella circolarità di un’esistenza si ritorna (e forse è una sorta di rimbambimento) a amare le cose che ci piacevano nell’infanzia. [...] La maggior parte dei miei film ha come punto di partenza un fatto accaduto nel passato perché ho molta più curiosità verso le cose già trascorse piuttosto che verso il futuro. Questo forse deriva dalla mia cultura contadina. I contadini avevano il culto della memoria, ripetevano le cose del loro passato perché, se non erano loro a farlo, non c’era nessuno che le ricordasse» (’la Repubblica” 19/1/2001) • «’Prima di ogni sceneggiatura io scrivo sempre un romanzo breve o racconto lungo, che è una sorta di incipit di tutto, di esposizione esaustiva del film. La letteratura ti consente delle pause, delle riflessioni; apri delle parentesi, pensiamo a Proust: incomincia la descrizione di un evento, divaga per tre pagine, poi conclude la descrizione”. La letteratura lo intriga molto. ”Sempre di più. Mi accompagna ogni giorno e voglio crescere al suo interno. Ho deciso da anni che la scrittura è la forma d’espressione attraverso la quale e nella quale maggiormente mi riconosco. Credo che ti dia l’opportunità di dire meglio e di più di tutti gli altri mezzi espressivi. Alcuni hanno un potere evocativo enorme. La musica, probabilmente, ha il potere evocativo più alto: il musicista propone; tu, attraverso la tua sensibilità, metabolizzi quello che ricevi e ne fai una cosa tua. Ma la precisione cartesiana della scrittura, attraverso la padronanza e il controllo del lessico, ti consente di dire esattamente ciò che vuoi dire. La bellezza del libro è nel rapporto ”uno a uno’, che trovo assolutamente straordinario. La sera, nella mia camera, nel mio letto, trascorro le ore più belle della mia vita perché siamo io e Montaigne, io e Mann: siamo soli; parlano a me, hanno scritto per me. Non c’è nulla che faccia da filtro, che medi: è un rapporto così assolutamente intimizzato... Forse è questa la ragione per la quale, da un po’ di anni, tendo molto alla narrativa. Per arrivare, alla fine di tutte le fini, alla poesia: che è la forma più alta, più nobile; l’urgenza più autentica. E non si vende”. Custodisce dei versi nel cassetto. ”Da 40 anni. Col pudore di chi sa di non essere ancora pronto. […] I compagni delle mie serate sono un’infinità. C’è tutta la letteratura latina... Sto studiando il latino, cosa che non feci ai tempi della scuola media e del liceo: era la materia che più odiavo. Ora sul mio tavolo c’è il famoso vocabolario Castiglioni-Mariotti, e, a 64 anni, traduco Svetonio, con una fatica terribile, non perché serva una mia traduzione di Svetonio, sarebbe di una modestia totale, ma per mettermi alla prova... col greco non potrò mai farlo, col latino penso di sì... per ritrovare la possibilità di accedere direttamente a quel mondo culturale remoto”» (Luigi Vaccari, ”Il Messaggero” 15/12/2002). «Mi sono accorto che tutte le volte che ho raccontato me stesso, i miei limiti, le mie incertezze, le mie ambizioni, improvvisamente ho trovato un consenso che ha dato forza alla mia carriera. […] Il film che si ama di più non è quello che si è fatto, ma quello che si vorrebbe aver saputo fare» (Alain Elkann, ”La Stampa” 9/2/2003) • «A Fellini devo la carriera! Se non avessi visto 8 e mezzo non avrei capito il potenziale autentico del cinema né chi è un regista, ruolo che a noi provinciali sfuggiva. E credo di essere stato una delle persone a lui davvero vicine negli ultimi anni. [...] Andai ad abitare in via del Babuino e me lo sono trovato vicino di casa, lui stava in via Margutta. Quando al mattino passava, si palesava spandendo profumi sacrali sul marciapiede, fumi e incensi. Io lo vedevo così, anzi lo prevedevo. Senza che lo conoscessi, guardandolo dall’altro lato del marciapiede, lo accompagnavo fino a piazza del Popolo dove Federico si fermava a rendere omaggio a una bella impiegata somala di un’agenzia di viaggi, poi partiva in auto per Cinecittà. Mi guardava con un certo sospetto, anche perché portavo un cappotto lungo di cuoio nero, modello KGB. Attraversai finalmente la strada e gli dissi: Maestro, sono Pupi Avati... ”Pupino”, mi disse, e mi abbracciò a lungo, come mi aspettasse da anni, in modo struggente, dolce e sorprendente per uno sconosciuto: Fellini era capace di affetto particolare, amava il contatto fisico. Tirò fuori agendina e matitina e prese il mio numero. Dopo anni di attesa, in cinque minuti era successo tutto. C’era un’altra concomitanza. Mia madre, molto devota, andava a messa a san Giacomo in via del Corso, dove trovava Giulietta e io le andavo a prendere e magari arrivava anche Federico. Così si faceva la strada insieme. Fellini non somigliava al Fellini leggendario, era disponibile, spiritoso, in competizione con se stesso, col Fellini del passato, cui egli preferiva quello presente, stufo di sentir parlare dei suoi vecchi film. Era ogni giorno più amareggiato, pensi che alla Rai i dirigenti si facevano negare al telefono: a Fellini!. Storicamente la sua generazione era nemica dei produttori e anche Federico diceva che i suoi budget erano sempre stati ampliati apposta, che usavano presunte manie di grandezza, che era stato il pretesto di molte ricchezze. Lui, che aveva sempre avuto un rapporto difficile col fratello Riccardo e ne portava ancora i sensi di colpa, era stupito e curioso dell’intesa che c’è sempre stata tra me e Antonio, si faceva raccontare i budget del nostro cinema e non riusciva a capacitarsene. [...] Quando tornò da Los Angeles dopo l’Oscar alla carriera, a Mollica che gli chiedeva che cosa gli avesse fatto più piacere, rispose: una letterina affettuosa di Pupi. Una cosa che lo intenerì: quando lavori tu, gli scrissi, è come se lavorasse tutto il cinema italiano. [...] Oggi i ragazzi non sanno quasi chi sia ed è difficile trasmettere un certo tipo di emozione e conoscenza a un paese reale che spesso resta estraneo e refrattario. Ma diventerà un classico perché è stato un grande poeta: la sua stagione deve ancora venire, siederà tra i grandi» (Maurizio Porro, ”Corriere della Sera” 31/10/2003).