Varie, 12 febbraio 2002
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Avedon Richard
• New York (Stati Uniti) 15 maggio 1923, San Antonio (Stati Uniti) 1 ottobre 2004. Fotografo • «Michael Moore che guarda una lillipuziana bandierina a stelle e strisce, triste e burlesca icona della fine dell’american dream l’ha fotografato lui, Richard Avedon. Così come l’altra faccia del mitico west: non solo cowboy nelle praterie ma braccianti, minatori, disoccupati e immigrati. Colpendo l’immaginario Usa più amato, Avedon aveva decostruito qualsiasi quadretto idillico del suo paese e aveva riportato la realtà in primo piano. Anche quella invisibile, fedele al principio che ”un ritratto non è mai somigliante, non esprime solo un fatto ma cogliendo un’emozione diventa subito un’opinione”. Gli costò molto quell’impolverare il sacro tempio dei pionieri dell’Ovest: l’artista fu travolto dalle polemiche ma continuò a andare avanti per la sua strada. Nato nel 1923 a New York, Avedon arrivò alla fotografia quasi per caso. Studiava filosofia alla Columbia University ma coltivava l’hobby che in seguito muterà il corso della sua vita: scattava foto amatoriali, piccoli reportage. E quando nel 1944 incontrò il leggendario art director di ”Harper’s Bazar”, Alex Brodovitch, quella passione si trasformò in un lavoro, anzi in un’esperienza totale, coinvolgente che durerà fino al 1965 quando scelse ”Vogue”. Avedon realizzava foto di moda in una maniera inedita, concependo la fotografia come ”un teatro silente”. Aveva il dono di piacere, di entrare nelle grazie dello star system hollywoodiano e in quelle degli intellettuali come Truman Capote, suo amico, o del poeta Ezra Pound. Una sola la regola da rispettare per non mancare l’obiettivo: conoscere il soggetto, abbattendo le distanze, culturali, di classe, di comportamento: ”Quando preparo un set per fotografare decido dove piazzare la macchina, quanto lontano dal soggetto, quale lente utilizzare... ma allo stesso tempo osservo cosa accade alla persona, come reagisce, quali gesti compie, quale espressione si disegna sul suo volto. Entro in relazione con chi ho davanti, mi diventa famigliare... è come un ritmo che viene immortalato da un click”. La pubblicità e la moda gli dettero immediata fama ma Richard Avedon - pur divertendosi a far uscire le sue modelle per le strade delle città, a condurle nei varietà e nei bar, in mezzo alla gente - non mise da parte l’altro suo interesse, quell’indagare acuto tra le pieghe della realtà. Le sue foto erano fiction, immagini apparecchiate con gusto in un patinato bianco e nero, netto, pulito ma c’erano anche i servizi che raccontavano altro, per esempio i malati di mente rinchiusi negli ospedali, oppure le vittime del napalm durante la guerra del Vietnam. Queste ultime foto rappresentarono il più efficace manifesto contro la guerra, fecero il giro del mondo e portarono l’orrore in tutte le case. Così come sconvolsero le sue foto che testimoniavano, giorno dopo giorno, la la lenta agonia di suo padre, Jacob Israel Avedon. Era il 1974 e l’incedere della morte era al centro di una sua mostra. ”Sono d’accordo con Barthes - era solito affermare - La fotografia è prigioniera di due intollerabili alibi: da un lato, viene nobilitata come arte, dall’altro è un reportage e il suo prestigio deriva direttamente dal soggetto ritratto. Nessuna di queste due definizioni è corretta. Essa è un testo, un insieme di significati”. E il senso più profondo che Richard Avedon cercò di sviscerare in ogni suo scatto fu quello della decadenza di un secolo, quasi a fare da contraltare al luccichìo delle foto su ”Vogue” e altri magazine di moda. Tra le icone del Novecento che ormai appartiene al passato c’è Marilyn Monroe ma anche un folletto come Charlie Chaplin, ripreso in una posa buffonesca mentre ”incorna” l’America che non lo vuole più a causa delle sue idee politiche. Gli anni Sessanta sono stati immortalati in un libro che lo ha impegnato per trent’anni. The Sixties è infatti il frutto di quella lunghissima collaborazione tra Richard Avedon e lo scrittore e giornalista Don Arbus (’Rolling Stone”, ”The Nation”) che hanno raccolto nelle pagine del volume la loro visione riguardo ad una delle più effervescenti decadi del XX secolo. Come in un album della memoria, scorrono i ritratti (e le interviste) di ragazzi yippies, le Black Panthers, gli artisti della Factory warholiana, pop-star, musicisti rock, astronauti, pacifisti, politici... Considerato uno dei più grandi fotografi al mondo, Avedon è stato consacrato da retrospettive in musei come il Metropolitan. Come visitatore delle sue mostre, Avedon ha conservato sepre un atteggiamento particolare che ha descritto così: ”Quando vedo le mie foto in un museo e c’è gente che le sta guardando, capisco che l’immagine ha una vita propria. Come gli attori di Pirandello o Woody Allen nella Rosa purpurea del Cairo quando scende dallo schermo e va tra il pubblico. Certamente non posso ricordarmi quando ero dietro a Henry Kissinger per fotografarlo né lui ricorderà in modo preciso quel giorno. Ma resta l’immagine a raccontare qualcosa: ciò che Kissingeer voleva che quello scatto significasse e insieme è un ricordo dello stupore e del terrore che può scatenare una fotografia”» (Arianna Di Genova, ”il manifesto” 2/10/2004). « L’occhio crudele di Richard Avedon prende di contropiede la realtà. La trasforma in un altro reale che esiste solo nel suo sguardo e si risolve tutto in visione. Più di ogni altro fotografo punta sulla vicinanza e sulla lontananza per reinventare un mondo parallelo in cui gioca a suo agio. Ma il paradosso sta proprio nell’applicare la sua poetica al ritratto, nel quale di solito si va a cercare la somiglianza con il referente. I suoi scatti preparati nei minimi particolari, mai improvvisati, insieme alla impostazione della luce - chiara, nervosa, incisiva, senza ombre, come metallizzata tanto da far assomigliare le fotografie a bassorilievi -, riproducono delle vibranti effigi che trasmettono malessere. Perché cercano sempre la chiave di lettura più nascosta, portano in superficie il lato oscuro di cui non si è neppure consapevoli oppure che si cerca di dissimulare assumendo la maschera del sociale. Come ogni artista, Richard Avedon esprime la sua particolare intuizione nell’entrare in sintonia con il soggetto che ha davanti, sia in consonanza sia in dissonanza, elaborando in entrambi i casi icone indimenticabili. Non riescono a sfuggire al suo impietoso obiettivo neanche gli uomini politici più abili, quelli che nella stanza dei bottoni sanno recitare con più naturalezza. In un portfolio del 1976 il maestro newyorkese raccoglie sessantanove ritratti eseguiti durante la campagna presidenziale di quell’anno. Allineati in un’unica pagina, assumono un’aria sepolcrale come i loculi delle mille amanti di Katzone nel film La città delle donne di Federico Fellini. I volti di Ted Kennedy, Eugene McCarthy, George Bush padre, allora direttore della Cia, Rose Fitzgerald Kennedy, Ronald Reagan, Jimmy Carter potrebbero anche rappresentare il diagramma della popolazione americana con le sue differenze sociali, i diversi mestieri, i differenti colori di pelle. Ma dietro l’artificio di rughe sapientemente tirate, di capigliature e parrucchini ben lisciati si intravedono tracotanze e difetti che unificano la classe dirigente in un unico clan restituito dall’approccio del fotografo senza reticenze. Nel volume Observations del 1959 i commenti di Truman Capote fanno da controcanto alle fotografie dei personaggi famosi. In Cesare Zavattini, con gli occhi immobili che non vedono deformati dai grossi occhiali, la bocca stretta a imbuto, sottolinea la sensuale oralità dell’intellettuale. Marella Agnelli, il corpo magrissimo di profilo, il viso girato verso l’obiettivo sull’esile collo come una aristocratica giraffa. Anna Magnani ride, la bocca spalancata mentre la macchina affonda nel seno prosperoso. Coco Chanel guarda verso l’alto, la bocca piegata in giù, il collo con i tendini in rilievo come quelli di una gallina. Avedon ama spesso proporre le sequenze della stessa fotografia, contatti tra cui non si è ancora scelta l’immagine migliore. O utilizzandoli come esercitazioni, o, forse, forme di espressione altra. Polittici che tendono a comporre un continuum e nello stesso tempo a ridefinire la fotografia, una rosa è una rosa è una rosa. Aperture del suo atélier permanente verso l’esterno. Come le sei pose della vecchia signora che è venuta a consegnargli un telegramma. Con un lungo cappotto, un piccolo cappello in testa, seduta o in piedi, vuole mettere in risalto ciò che l’ha colpito. Le sue grosse scarpe da uomo, il fiore che ha infilato nell’occhiello del maglioncino, i delicati braccialetti intorno al polso. Raffinati esercizi di stile sono pure i volti sovrapposti del reverendo Al Sharpton fotografato a New York nel 1993 durante un sermone. Il moltiplicarsi degli occhi, della bocca, delle mani inanellate ripropone la foga di un’oratoria affabulatrice esperta nell’ottenere consenso. Avvolta come una larva in una maglia nera che prosegue nel collo alto e nel copricapo, Audrey Hepburn (ritratta da Avedon nel 1967) si presta al gioco malizioso e provocatorio che la vede come un’idra a cinque teste. Nei multipli impressionanti, degni della fantasia di Ray Bradbury, non è estranea l’idea di modello ispiratore di tante brutte copie dell’attrice di quegli anni. Richard Avedon non è mai stato un artista solitario. sempre sceso in piazza per allargare l’orizzonte delle sue ricerche, quasi per cogliere direttamente nella realtà stratificata della società contemporanea quello che è già in qualche modo presente nelle sue fotografie: matrimoni, morte di un presidente, artisti, diseredati, malati, retroscena della moda, continuando a moltiplicare i suoi prototipi. La sua fotografia destabilizza, è lo scenario di un mondo in progress a cui non ha mai smesso di lavorare. segnata dall’indignazione, dalla capacità di sorprendersi e di sorprenderci. Popolata di volti, di luoghi, di strade, sembra animare una visione aliena, popolata di occhi che ci guardano e ci rimproverano, nei quali, come in un gioco di specchi, si riflette lo sguardo di Avedon» (Matilde Hochkofler, ”il manifesto” 2/10/2004). «Per tutto il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza sognò di diventare un poeta come Thomas Eliot. Scrisse un gran numero di versi segnati da una profonda solitudine esistenziale, che colpirono i critici e lo portarono a vincere il premio come miglior autore liceale di New York. Fu il padre Jacob Israel ad incoraggiarlo a dedicarsi alla fotografia, dopo aver scoperto uno scatto che aveva effettuato a soli dieci anni al vicino di casa Serghei Rachmaninoff. In un primo momento Richard ritenne di tradire la sua ispirazione più intima, ma poi scoprì le possibili affinità di sintesi tra le due forme di espressione e cominciò ad appassionarsi al linguaggio che più di ogni altro gli consentiva ”di parlare un po’ meno di se stesso e un po’ più degli altri”.[…] Dopo aver studiato a lungo la possibilità di un volto di trasformarsi in maschera, ha focalizzato la propria attenzione sul rapporto tra immagine e interiorità, astenendosi da ogni tipo di giudizio anche nei ritratti di persone lontanissime dalle sue convinzioni liberal. All’interno di un itinerario che svela dei riferimenti figurativi evidenti soprattutto in uno sguardo d’insieme (l’influenza più significativa è certamente Egon Schiele), manifesta un approccio di tipo umanistico perfino quando immortala dei criminali, ed esalta la dignità come intima verità di ogni creatura umana» (Antonio Monda, ”la Repubblica” 27/9/2002). Diceva: «Mi sento vivo quando fotografo. Ma le mie fotografie sono sempre una sconfitta. Non posso mai metterci tutto quello che so. La mia influenza è letteraria. Non ho imparato da un altro fotografo […] Cerco la similarità tra persone che sembrano opposte. Un giorno andai a Washington per fotografare Henry Kissinger. Lui mi disse: ”Sia gentile’. Avrei voluto chiedergli cosa intendeva: farlo sembrare più giovane, più alto, più magro? […] Sono diventato una macchina di pubblicità e non più un artista. La parte di me che dà un’intervista e parla del processo creativo è l’opposto del me che fa il lavoro di fotografo. Sono diventato la mia vedova […] Alcuni fotografi vanno nelle fondazioni a supplicare per un’esposizione oppure sposano donne ricche o, peggio ancora, diventano martiri e hanno un seguito. Tutto questo perché non sanno guadagnare. Io non chiedo denaro né alle fondazioni né al governo. Mi guadagno da vivere con i giornali e le campagne pubblicitarie […] Le fotografie di mio padre, Jacob Israel Avedon, dicono molto dell’essere ebreo. La mia ebraicità si esprime attraverso i miei interessi umanitari. Non ho mai prestato attenzione, come Woody Allen, al senso di colpa. Essere ebreo è una delle glorie della mia vita, perché ho ereditato passioni per la cultura intellettuale e per i valori familiari […] Vorrei avere più tempo. Entro nel mio ultimo atto e il mio eroe in questo campo è Matisse, perché da vecchio si è completamente reinventato. Quello è il mio sogno”» (Alain Elkann, ”La Stampa” 13/1/1995).