Varie, 12 febbraio 2002
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Aznavour Charles
• (Shahnour Varenagh Aznavurjian) Parigi (Francia) 22 maggio 1924. Attore. Cantante. Musicista. Famiglia di origine armena, esordì come chitarrista, divenendo nel dopoguerra, grazie ad Edith Piaf, acclamato chansonnier e autore di canzoni fra le più note delle quali Oh, toi, la vie, La bohème, Mourir d’ameir, Je veux te dire adieux, L’amour et la guerre, Tu te laisses aller, Com’è triste Venezia e un’operetta, Monsieur Carnaval (1965). « l´ultimo dei crooner, l´ultimo rappresentante della specie oramai in estinzione degli autori che raccontano la vita e l´amore con garbo, eleganza e delicatezza. Nel suo lungo percorso umano Charles Aznavour ha frequentato la strada e il palazzo, ha incontrato i protagonisti degli anni d´oro della canzone francese: Piaf, Brel, Brassens, Montand, Trenet, Becaud. andato ai loro funerali. [...] Aznavour ha scritto circa settecento canzoni, due operette, due commedie musicali [...] e ha venduto cento milioni di dischi. stato attore 59 volte (l´ultimo film è Ararat, 2001, di Atom Egoyan sull´olocausto degli armeni); è stato marito (due volte) e padre (quattro). Ha vissuto gli anni intensi della musica francese, scoperto dalla Piaf nei 40 quando si esibiva in duo con il pianista Pierre Roche. Fu la Piaf (della quale rimase, tra i pochi, amico vero e non passeggero amante) che lo convinse a mettersi artisticamente in proprio, ma anche a liberarsi dal complesso di un naso troppo grande: fu lei che a New York gli pagò l´operazione. Con il titolo Nel mestiere bisogna avere naso, il racconto della liberazione dal ”naso armeno” è uno dei capitoli più divertenti della sua autobiografia. [...] Figlio di Knar Bagdassarian, attrice, armena di Turchia (con tutta la famiglia sterminata durante il genocidio del suo popolo), e di Mischa Aznavourian, baritono, armeno di Georgia. Emigrarono in Francia nel ´24, lei era incinta di Charles che infatti nacque a Parigi. Neanche per un attimo Aznavour ha dimenticato le sue origini. Nell´89, dopo il terremoto, ha creato l´associazione ”Aznavour pour l´Armenie”» (Laura Putti, ”la Repubblica’ 16/4/2004). «Sono nato alla fine del viaggio dall’inferno, là dove ha inizio quel paradiso che chiamano emigrazione. La sciagura aveva avuto tanta parte nella vita di quanti, come i miei genitori, erano scampati al genocidio, i più evitavano di parlare degli antenati, o ne parlavano così poco che la mia complice, mia sorella Aida, e io, nel corso della nostra vita siamo riusciti a ricostruire il passato della famiglia soltanto in modo frammentario: poca cosa, per la verità. ”Guarda da dove veniamo e dove siamo oggic”. Per un eccessivo senso di pudore o per non rivangare ricordi dolorosi, solo assai raramente i nostri genitori hanno evocato la storia delle centinaia di migliaia di armeni dispersi per il mondo, dalla fuga di fronte all’orrore fino al loro insediamento in un Paese d’accoglienza. Pochi frammenti rubati alle conversazioni di quanti sono sopravvissuti agli stessi avvenimenti ci hanno fornito soltanto una vaga idea di cosa sia stato il loro esodo. Certo è che non hanno viaggiato in prima classe con valigie piene di poco necessario e di molto superfluo e con le indispensabili carte di credito nei portafogli. Oggi, quando vedo poveri fagotti di emigrati venuti da ogni dove, legati alla bell’e meglio con lo spago e con dentro tutti i loro averi - misere cianfrusaglie, beni senza valore, benché per loro così preziosi, che l’ultimo dei rigattieri rifiuterebbe con disprezzo - quando ho di fronte questa vista deprimente, pur non avendo parte nelle loro disgrazie, provo un sentimento di vergogna e colpevolezza. E quando vedo miserabili clandestini, venuti da chissà dove in cerca di una vita migliore nel nostro Paese, che ai loro occhi è il Paese della cuccagna, avverto sempre una piccola fitta al cuore, immaginando l’odissea dei miei zii, zie e nonni... Oggi la Francia ha riconosciuto il genocidio degli armeni. Ci sono voluti ottantacinque anni per giungere a questo risultato: la ragion di Stato, si diceva. Insomma, ci siamo arrivati ma, per quanto mi riguarda, anche se sono fiero e soddisfatto della decisione del mio Paese, eviterò qualunque trionfalismo. D’altra parte non mi sono mai mostrato virulento sulla questione. Per i miei genitori contava solo il riconoscimento; i risarcimenti, la restituzione dei territori o delle case non erano problemi essenziali: non avevano affatto intenzione di tornare in quel Paese, terra di troppi ricordi, alcuni bellissimi, altri davvero molto dolorosi. Certo, questo riconoscimento rappresenta un primo grande passo ma, finché la Turchia non avrà riconosciuto a sua volta il genocidio, resterà un risultato claudicante. Queste poche parole sul passato tragico degli armeni mi sembrano indispensabili per spiegare chi siamo e da dove veniamo. Eppure, qualunque cosa abbiano potuto dire o scrivere in passato certi giornalisti turchi o azeri, non ho mai sfilato a Parigi o altrove, il 24 aprile, per commemorare il massacro, né ho inviato armi nel Karabakh od organizzato raccolte di fondi per comperare armi durante la guerra tra azeri e armeni del Karabakh. Ho troppo rispetto per l’umanità per restare coinvolto in un processo che mira a ferire o uccidere donne e bambini. Preferisco credere, forse ingenuamente, nella diplomazia, nella bontà, nell’intelligenza e nell’onestà degli uomini, anche se finora la diplomazia, intrisa di petrolio, ha dato solo cattivi risultati. Mia madre, Knar Bagdassarian, aveva il dono di trovarsi delle parentele, probabilmente per colmare un vuoto e la nostalgia della famiglia che non aveva avuto. Quando incontrava persone originarie della sua città natale, subito, dai cognomi, identificava nella memoria il nonno o la nonna. E anche se quelli erano soltanto dei vicini, immediatamente diventavano quasi parenti. Mio padre, Mischa Aznavourian, georgiano d’origine armena, era nato ad Akhaltzakha. Gli armeni di Georgia non hanno subito il genocidio. Erano entrambi artisti: attrice mia madre, mio padre cantante dotato di una voce che fece dire a Louiguy - compositore di successo di Cerisier rose et pomier blanc , tra le altre - quando, un giorno, lo sentì cantare: ”Ho l’impressione che, a casa sua, la voce abbia saltato una generazione!”. Ignoro come i miei genitori si incontrarono, dove e quando si siano sposati. A quei tempi era la Chiesa a conservare i registri di matrimonio che fungevano da stato civile. Ma le nostre Chiese, ahimè, sono state saccheggiate, distrutte... Una cosa è certa: non ho mai sorpreso i miei a insultare la Turchia moderna, mai hanno alimentato in noi l’odio verso questo popolo. Al contrario, li ho sempre sentiti dire che la Turchia era un bel Paese, che le donne erano incantevoli, che la loro cucina era la migliore di tutto il Medio Oriente e che, in fondo, con questo popolo noi avevamo molte affinità. Se il genocidio non avesse avuto luogo o se almeno fosse stato riconosciuto, oggi non vi sarebbe uno spirito di contrapposizione così profondamente radicato nella memoria della seconda e terza generazione dei nostri. Perseguitati, malgrado il passaporto georgiano di mio padre, i miei genitori riuscirono a partire da Istanbul, imbarcandosi su una nave italiana. Una ricca americana di origine armena si era offerta di pagare il viaggio a tutti gli scampati che avevano avuto la fortuna di issarsi a bordo. La nave prese il mare e sbarcò gli armeni e i greci a Salonicco, dove venne alla luce mia sorella. Passò un anno, il tempo di imparare il greco e, con il miraggio dell’America in testa, i miei genitori e mia sorella arrivarono a Parigi, suppongo passando per Marsiglia, dove fu loro concesso un passaporto Nansen, una sorta di permesso di soggiorno che occorreva rinnovare di frequente. Un anno di speranze in un piccolo alloggio del boulevard Brune, un anno di speranze e di privazioni, di code davanti alla questura, un anno di difficoltà di comunicazione: l’armeno non lo parla nessuno negli arrondissement parigini. Il tanto sospirato visto, infine, arrivò, ma i miei genitori non avevano più voglia di partire. Mia madre era prossima al parto, e poi ormai, in questo Paese, ci stavano bene. Mio padre si guadagnava da vivere cantando ai balli e alle serate di emigranti di tutte le nazionalità: cantava bene, in russo e in armeno. Poi, si dovette trovare dove far partorire mia madre a un prezzo modico, in un ospedale per indigenti. Clinique Tarnier, rue d’Assas: con qualche settimana di ritardo, il 22 maggio 1924 feci il mio ingresso sul pianeta Terra. Ingrandita dal mio arrivo, la famiglia era dunque composta da mio padre e mia madre, da mia sorella, dalla nonna di mia madre, unica sopravvissuta di quel ramo della famiglia, e da me. Ci installammo in una camera di circa 20 metri quadrati, al secondo piano in un appartamento ammobiliato, 36 rue Monsieur-Le-Prince, nel cuore del Quartiere Latino, in uno stabile che apparteneva al signor e alla signora Mathieu. Un locale buio, nell’angolo una sorta di comò sbilenco su cui poggiavano un catino e una brocca per l’acqua fungeva da sanitario; accanto, una specie di alcova dove si trovava il letto dei miei genitori, con una tenda che tiravano all’ora di coricarsi ”come a teatro”. La mia bisnonna dormiva su un divano sfondato, mia sorella Aida e io testa-piedi in un letto pieghevole di ferro che, la sera, aprivamo. La camera era ornata da una stufa Godin che fungeva da riscaldamento e da cucina. Prendevamo l’acqua sul pianerottolo e il wc era al piano di sotto. A quest’epoca giunse a Parigi anche il nostro nonno paterno, che mia sorella Aida aveva soprannominato ”Aznavour baba”, un nomignolo che conservò fino alla fine dei suoi giorni... Il nonno aveva un carattere irascibile. La sua teutonica amante ne faceva le spese: forse, in cuor suo, gliene voleva per averlo spinto ad abbandonare la famiglia in un’epoca in cui la storia si compiva dolorosamente in quell’angolo di mondo. Era nata in Russia da una di quelle famiglie prussiane giunte al seguito della grande Caterina; masticava un po’ di armeno, se la sbrigava in russo, ma parlava un tedesco impeccabile. In famiglia ero l’unico che le piacesse e mi rivolgeva sempre la parola in tedesco. Mia madre lavorava, cucendo e ricamando per alcune maisons del quartiere o per quelle del Faubourg Saint-Honoré. I miei genitori riuscirono così a raccogliere la somma che permise a mio padre di aprire a sua volta un Restaurant Caucase in rue de la Huchette, dove oggi si trova il teatro omonimo. Curioso il destino: i miei, entrambi artisti, si videro costretti, non padroneggiando ancora abbastanza bene la lingua del Paese d’adozione, a fare della ristorazione e del cucito per sbarcare il lunario. E anni più tardi, dopo che era stato chiuso, il ristorante fu trasformato in teatro, mentre Aida e io intraprendevamo la professione che avrebbe dovuto essere dei nostri genitori. Fu così che il cerchio si chiuse. L’Armenia è stato un crocevia percorso dalle coorti di numerosi eserciti, da carovane sulla via della seta, da genti di etnia, religione, lingue e colore diverso. Si è andata gradualmente occidentalizzando in seguito all’adozione del Cristianesimo come religione di Stato, nel Terzo secolo dopo Cristo, e dopo aver insediato sul trono un principe francese. Divenne una nazione divisa tra due modi di vivere, quello dei suoi vicini e quello dei suoi alleati, all’epoca delle Crociate. Così, io sono il figlio di queste due culture. Proprio come il mio giovane Paese sono stato invaso, attraversato e conquistato, ancora giovanissimo, da vari stili di vita, subendo tutti gli influssi della mia terra d’origine, in ambito sia musicale sia poetico, sia classico sia popolare: russo, ebreo, gitano, arabo, armeno e poi francese, spagnolo, americano... Quando mi chiedono se mi sento più armeno o più francese, c’è una sola risposta possibile: cento per cento francese e cento per cento armeno» (’Corriere della Sera” 19/6/2004).