Varie, 12 febbraio 2002
BAGGIO Roberto
BAGGIO Roberto Caldogno (Vicenza) 18 febbraio 1967. Ex calciatore. Ha giocato con Vicenza, Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter, Brescia. Con la nazionale è stato vicecampione del mondo nel 1994, bronzo nel 1990. Unico calciatore italiano ad aver segnato in tre diverse fasi finali dei campionati mondiali: un gol contro Cecoslovacchia e Inghilterra nel 1990; due gol contro Nigeria e Bulgaria e uno contro la Spagna nel 1994; un gol contro Cile e Austria nel 1998. Ha vinto lo scudetto con la Juventus nel 1994/1995 e con il Milan nel 1995/1996, la Coppa Uefa con la Juventus nel 1992/1993, la Coppa Italia nel 1994/1995 sempre con i bianconeri. Pallone d’oro nel 1993 (terzo italiano dopo Gianni Rivera e Paolo Rossi ad aver conquistato il riconoscimento di miglior calciatore europeo), secondo nel 1994. Dall’agosto 2010 presidente del settore tecnico della Figc • «Lo straordinario amore della gente per Baggio [...] è sicuramente legato a svariati fattori. L’esser stato nella prima fase degli anni Novanta il miglior calciatore del mondo, un interprete quasi unico di questo sport per qualità artistica, efficacia, leadership. Un capo mite, ma un match-winner nato. Fra i rari campioni capaci di caricarsi la squadra sulle spalle e risolvere la gara. L’aver saputo durare a lungo, nonostante infortuni spaventosi ai legamenti dei ginocchi. Essersi ripreso da incidenti che più volte ne avrebbero dovuto stroncare la carriera con una forza morale (da lui attribuita al buddhismo) ed una grinta, non sospettabile per chi si fermi al sorriso timido e al codino. Una lunga serie di persecuzioni da parte di allenatori o invidiosi della sua popolarità, o a disagio nel gestirlo, o seccati che il suo talento mettesse un po’ in ridicolo le loro tesi su schemi e collettivo. Ma su tutto, credo, c’è il ricordo di quei tre Mondiali in cui Baggio e la nazionale andarono vicini al successo e caddero quasi sul traguardo per i calci di rigore. Certo è incredibile come fortuna e sfortuna si siano contese la vita calcistica di Roberto. Già da ragazzino è un fenomeno, tanto da venir comprato a 18 anni da Pontello nell’85 per una cifra record: 2 miliardi e 700 milioni. Due giorni dopo l’accordo gioca ancora nel Vicenza ed affronta il Rimini di Sacchi. Entra in scivolata: saltano il crociato anteriore, la capsula, il menisco ed il collaterale del ginocchio destro. Pontello è un signore: non denuncia il contratto. Ha ragione: Roberto dopo un paio d’anni torna al calcio. Diventa subito il re di Firenze: quando Pontello lo cede alla Juve, la gente scende in piazza per giorni. Vicini lo porta ai Mondiali: lui e Schillaci, sembrano chiusi da Vialli e Carnevale. Ma sono più freschi e veloci, il c.t. punta su di loro e l’Italia infila vittorie su vittorie. La vigilia della gara con l’Argentina di Maradona, porta Vicini sulla cattiva strada: preferisce un Vialli svuotato a Baggio (entrerà solo nel finale come regista). Il primo dei tradimenti azzurri. Si va ai rigori. Sbagliano Donadoni e Serena, Roberto segna il suo. Si consola contribuendo al successo sull’Inghilterra e al terzo posto. Nella Juve, andato via Maifredi, si trova in difficoltà con Trapattoni. Il quale considera Baggio un centrocampista, non un attaccante. Ricordo una dura intervista in cui l’allenatore - dopo una sconfitta - rimprovera a Baggio di non essersi abbastanza sacrificato nel lavoro di contenimento. In suo soccorso arriva Sacchi. Quando diventa c.t. lo porta in nazionale come punta. Roberto segna e Trap deve adeguarsi. Poi insieme faranno bene, tanto da far diventare la Juve un po’ baggiodipendente. Il rapporto fra Sacchi e Roberto è idilliaco. Ma il giocatore ha una valutazione eccessiva di sé. Così quando nella seconda partita del Mondiale ’94 viene espulso Pagliuca (al 21’) s’imbizzarrisce, vedendosi sostituito. Dà del matto ad Arrigo, la cui scelta è vincente. Tutto cancellato dalla doppietta sulla Nigeria, riacciuffata negli ultimi secondi e battuta nei supplementari. Poi tocca alla Spagna, poi alla Bulgaria. Roberto è l’eroe non solo italiano dei Mondiali Usa. Arriva esausto e lievemente infortunato alla finale col Brasile. Ci sono Signori e Zola freschissimi. Sacchi è combattuto fra gratitudine e magie di Roberto e la paura che non regga. Gli domanda se ce la fa. Può dire di no, uno che sogna questo giorno da quando ha dato il primo calcio al pallone? Me è spento. Sacchi sbaglia a non rimpiazzarlo. Lui fallisce il rigore conclusivo, dopo quelli già sbagliati da Baresi e Massaro. Ancora si domanda come il pallone sia andato sopra la traversa: non gli era mai accaduto di tirare alto. Pallone d’oro, secondo ai Mondiali, giocatore più famoso del pianeta. Basta un anno nella Juve di Lippi per trovarsi emarginato. Galliani lo porta al Milan dove Capello riesce a far coesistere lui e Savicevic vincendo anche lo scudetto: eppure nessuno dei due gli è grato. Si divertirà assai meno con Tabarez e Sacchi l’anno dopo. Ulivieri gli farà la guerra a Bologna, poi troveranno un’intesa e Roberto si presenterà brillante come un ragazzino al suo terzo Mondiale. Lui e Vieri formano un tandem irresistibile, ma Cesare Maldini non crede fino in fondo a Roberto, punta su un Del Piero fresco d’infortunio cui fa giocare gran parte della gara decisiva con la Francia. Ancora fuori ai rigori, Baggio fa il suo dovere [...] nella sua autobiografia scrive: “Ho giocato tutta la mia carriera con una gamba e mezzo. Migliaia di ore per tener viva una gamba che si rimpicciolirebbe di giorno in giorno. L’ho giocata senza mai stare bene del tutto. Se giocassi solo quando mi sento al cento per cento giocherei tre partite l’anno. L’ho giocata con la speranza, assurda per un giocatore di talento, di trovare terreni un po’ fangosi, così che quel ginocchio destro soffrisse di meno, potesse appoggiarsi su una superficie più morbida”» (Giorgio Tosatti, “Corriere della Sera” 28/4/2004) • «[...] era un ragazzino della Fiorentina. Settembre ’86. Era arrivato da Vicenza un anno prima, ma si era frantumato quasi subito ginocchio e sogni. In quel settembre era pronto a ripartire. Segnò due gol all’Empoli in coppa Italia e li dedicò a Giancarlo Antognoni, la bandiera della città, il mito che teneva in pugno i cuori viola. Baggino era arrivato per prenderne l’eredità, anche se il buon Bersellini si affannava a spiegare: “Sono diversi, posso giocare insieme”. Roby lisciava: “Non ho la classe di Antognoni” . Giancarlo ricambiava: ’Roby ricorda Maradona e batte le punizione come Bertoni”. Gentili, ma il conflitto generazionale era palese. Il campione e il ragazzino: la storia del calcio è fatta di questi duelli. Bersellini, forse senza accorgersene, risolse la sfida il 10 maggio ’87, giorno del primo scudetto del Napoli, nel momento in cui urlò: “Baggio! La punizione la batte Baggio, non Antognoni!”. E Baggio segnò, sotto gli occhi di Maradona. Il ragazzino aveva appena preso il posto di un campione e già ne sfidava un altro: l’immenso Diego. Inimitabili le serpentine di Maradona a Messico ’ 86? Vediamo. Baggio ne piazzò una del genere al Milan di Sacchi (20- 9- 87) e un’altra, che valeva come un guanto sbattuto sul prato, proprio al Napoli del Pibe de Oro. Il Mondiale del ’90 sarebbe stato il loro mezzogiorno di fuoco. Maradona lo finì in lacrime, Baggio in dribbling, tra difensori inglesi. Aveva ragione il vecchio Valcareggi, che alla prima occhiata, aveva sentenziato in riva all’Arno: “Questo ragazzino ci regalerà spettacolo e gol bellissimi”. A forza di spettacolo e gol bellissimi, Baggio si ritrovò in pugno i cuori di Firenze, come era capitato ad Antognoni. E quei cuori sanguinarono, quando arrivò la Juve a portarselo via. Estate ’90. Baggio aveva già 23 anni, ma davanti al fantasma numero 10 di Michel Platini, rimasto vivo nell’immaginario bianconero, si sentiva ancora piccolo. Il ragazzo cominciò ad attaccare anche quel campione, che lo tenne a distanza con una battuta storica: “Baggio? Per me è un 9 e mezzo”. Dietro all’inconfutabile verità tattica, si nascondeva una perfida stilettata: per quanto corri, ragazzo, ti terrò sempre a mezza lunghezza di distanza. Correva forte Roberto Baggio, anche se, sotto Maifredi, non capiva bene dove; correva forte dietro ai fischi del Trap e a quattro zampe, sotto la pioggia, quando si trovò trasformato in un “coniglio bagnato” dall’Avvocato, che però gli voleva bene e lo sovrapponeva al ricordo di Sivori; correva così forte, per rendersi degno di Platini, che non si accorse del cambiamento di ruolo: ora era lui il campione, col Pallone d’Oro in braccio, mentre all’orizzonte si profilava il ragazzino arrivato dal Veneto per sfidarlo: Alessandro Del Piero. Anche in questo caso c’è una punizione che segnala l’avvicendamento. La calciò Alex nella rete del Bologna con una delle sue prime parabole pubbliche. Dicembre ’93: un’amichevole di fine anno al Dall’Ara. “Punizione alla Baggio”, scrissero i giornali. La stagione dopo, complice un infortunio di Baggio, Del Piero ne prendeva il posto in squadra; due stagioni dopo, ne ereditava il numero 10. Pinturicchio con la tavolozza di Raffaello. Il ragazzino restava alla Juve, il campione se ne andava al Milan, dove il 10 lo teneva stretto Savicevic, un dio zingaro col diamante incastonato nei denti. Ma non era il solo dualismo. La classe di Roby, vestita di rossonero, al centro di San Siro, evocava il grande Gianni Rivera. Manco a farlo apposta, il Baggio milanista esordì in una notte di zanzare al Moccagatta, sul campo dove il Golden Boy aveva recitato in grigio. Anche Rivera, come Platini, si affrettò a tenere le distanze: “Stilista perfetto, ma non sarà mai un grande leader”. Tutta la vita passata così, da ragazzino senza età all’attacco dei miti. Quando arrivò all’Inter nel ’98, i paragoni li avevano già fatti da una decina di anni. Brera (’89): “Ho avuto la fortuna di vedere Meazza e ho pensato a lui quando ho visto Baggio”; Allodi (’89): “Baggio è un po’Meazza e un po’ Mazzola”; Mazzola (’89): “Baggio? Più agile e meno potente di me”. Tutta la vita così. E, in fondo, non è cambiato nulla. Ieri portava braccialetti al polso che indisponevano Agroppi, oggi conserva l’eterno codino e ha la pelle tatuata. Più vicino Baggio al look di Cassano che il collegiale Kakà, contenuto e saggio come un veterano» (Luigi Garlando, “La Gazzetta dello Sport” 17/1/2004) • «Era appena un ragazzino, aveva un talento così eccezionale da venir già acquistato come fosse un fuoriclasse. Un futuro in discesa, pieno di miele e di fiori. Invece due infortuni tremendi sembravano averne chiuso la carriera, prima che cominciasse. Ci vollero un paio d’anni per venirne fuori, condannato però a convivere con strumenti di lavoro perfetti e fragili, come per una feroce legge del contrappasso. Un tenore cui ogni tanto manchi la voce, un pianista con le mani artritiche. Pochi sanno quanto coraggio abbia avuto nel portarsi dietro questi tormenti. Ma in ciò non c’è nulla di eroico: ogni lavoro comporta sacrifici e sofferenze. La grandezza umana e sportiva di Baggio non sta negli ostacoli superati, nelle cadute e nelle resurrezioni, in quei gol così nitidi e seducenti, nei dribbling irresistibili, nelle emozioni accese fra i calciofili di tutto il mondo. No, sta in quel suo sogno di giocare un ultimo Mondiale nonostante ricchezza, acciacchi e un’età da pensione. Un sogno coltivato con cuore di ragazzo e l’orgoglio di un campione ancora in credito di qualcosa con la professione e la vita. Quel titolo sfuggitogli nel ’94, quel rigore fallito da cancellare. I ferri del chirurgo possono fermarlo, non togliergli il merito di aver tentato una scalata quasi impossibile. L’essenza dello sport è questa: non porsi limiti» (Giorgio Tosatti, “Corriere della Sera” 5/2/2002) • «Il destino massmediologico di Roberto Baggio è simile a quello di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini. A cavallo degli anni ’90, a parte qualche sacca (Firenze e rari estimatori) Baggio era considerato un giocatore non molto intelligente e non molto brillante. Come Jovanotti era deriso se non addirittura schifato. Come Jovanotti è diventato, un decennio dopo, una specie di guru, un simbolo di libertà, fantasia, ribellismo pacifista contro le dittature (tattiche). Quasi un santo no global. Ovviamente ci si dimentica di quando Baggio giocava mediano nella Juve o non giocava affatto nella medesima, mentre trovava posto nella nazionale sacchiana. Ci si dimentica di molte cose da quando Baggio è diventato un’icona. Durante una trasferta in Svizzera dell’autunno 1987 con l’Under 21 di Cesare Maldini (una delle sue prime convocazioni in azzurro) se ne stava da solo, con le cuffie di un walkman eternamente infilate nelle orecchie. I suoi compagni, alcuni dei quali non hanno poi raggiunto la sua bravura e la sua fama, lo guardavano con sufficienza. E la stampa, che ora lo esalta unita e partecipe, lo trattava con identico distacco, felice di riprendere e negativizzare le battute di Platini (“non 10 è 9,5”) e quelle dell’Avvocato (“un coniglio bagnato”). Paradossalmente, come spesso accade in questo strano Paese in cui viviamo, Baggio è diventato il calciatore italiano più amato in Italia quando ha imboccato la strada in discesa che porta a fine carriera. Più che all’inizio degli anni ’90 nella Juve di Maifredi (con cui andava d’accordissimo) e in quella di Trapattoni (meno); più che nei suoi anni d’oro, il 1993 quando conquistò la Coppa Uefa con la Juve (il suo primo trofeo: rileggiamo, per favore, quando di Baggio scrivevano che aveva vinto solo i tornei estivi dei bar) e venne proclamato miglior giocatore europeo (Pallone d’oro) e mondiale (Fifa World Player) o il 1994, quando attraversò gli Stati Uniti coast to coast con i suoi gol e la sua sfortuna (e nessuno s’indignò con Vialli che prese in giro lui e gli altri azzurri); più che nei giorni degli scudetti, con la Juve e con il Milan; più che per i suoi successi, insomma, Baggio è diventato veramente popolare il giorno in cui è diventato il simbolo del catenaccio al destino, rappresentato da allenatori senza cuore. […] Respinto da Milano (Sacchi prima e Capello poi), chiuse le porte di Parma (Ancelotti), costretto a proseguire lungo la via Emilia, Baggio arrivò a Bologna. Lì si è trasformato dal grande campione misconosciuto che era nel campione non più giovane che sa strappare al declino momenti di splendida rivalsa tecnica: 30 presenze e 22 gol nella stagione 1997-98 e via, al Mondiale francese a contendere al ragazzo Del Piero, colui che l’aveva spinto via dalla Juve, il ruolo dell’alchimista di palloni. È proprio in quel Mondiale, il terzo e ultimo della sua carriera, c’è la foto che immortala e sintetizza l’esistenza sportiva di Baggio. Quel tiro al volo, in perfetta coordinazione, nel secondo tempo supplementare con la Francia che passa vicino al palo alla destra di Barthez. E lui, Roberto, che fa segno con le mani: tanto così. Già, tanto così: a Baggio è mancato, per pochi centimetri, qualcosa. Non si tratta di classe, ma di compiutezza. In quei centimetri c’è tutto, sfortuna, infortuni, incomprensioni con gli allenatori, un rigore troppo alto e una parola di troppo. Baggio è diventato popolare nella fase finale della sua carriera perché è diventato l’uomo dei sogni. Come tutti ne inseguiva uno e questo l’ha fatto avvicinare alla gente, anche a quelli che lo prendevano in giro quando era veramente grandissimo. Per questo si può dire che è un “9,5” non per altro» (Roberto Perrone, “Corriere della Sera” 5/2/2002) • «“Divino Codino” ( tradizione popolare); “Budhino” (detrattore anonimo); “Coniglio Bagnato” (avvocato Agnelli); “Nove e Mezzo” (Michel Platini). Certo, non è da questi particolari che si giudica un giocatore, ma se la fama di un personaggio si vede anche dai soprannomi che colleziona, Roberto Baggio detto Robi (appunto) non è secondo a nessuno. Il primo glielo affibbiò tale Gian Piero Zenere, fornaio a Caldogno, allenatore della squadretta locale: lo chiamò “Caccia e pesca” perché una domenica il piccolo Roberto preferì saltare una partita e andare per fagiani con papà Fiorindo. Due abitudini che Baggino, per problemi fisici l’una, per passione l’altra, non ha mai perso. Nei soprannomi, una carriera. Genio incompreso, appena sopportato, quando avrebbe potuto (e dovuto) diventare l’uomo guida del calcio italiano, malgrado un ginocchio ricostruito dai chirurghi a diciott’anni appena compiuti; icona del pallone, fantasia al potere e simbolo della ribellione al sacchismo imperante dopo aver doppiato la boa dei trent’anni. Anche se poi, con Sacchi, quello di cui Baggio disse in mondovisione “questo è pazzo” dopo una sostituzione, il Codino sfiorò il traguardo più alto, quello mondiale. Conquistato virtualmente e artificialmente anni dopo per colpa di uno spot in tv, ma questo è un altro discorso. Tipo discretamente riservato, ma capace di ballare il tip tap in smoking in coppia con Signori per compiacere lo sponsor tecnico, di fare smorfie davanti a un telefonino dell’ultima generazione, di firmare profumi, di fare da testimonial per Soprani. Oggi ancora più che in passato gli sponsor fanno la coda davanti al cancello della sua villetta di Caldogno. [...] Tipo di poche parole, eppure ha trovato il tempo e la voglia di raccontare la propria carriera e i propri litigi (con Lippi, soprattutto) in un’autobiografia che, caso raro in Italia per un libro di sport, è diventata un best seller. Perché Robibaggio è piaciuto prima ai tifosi (quelli di Firenze, innanzitutto, che minacciarono la sollevazione popolare quando il genietto venne ceduto alla Juventus) e poi, solo poi, alla gente che piace. Che l’ha nominato santo (buddista) dopo averlo considerato per lungo tempo un mediocre peccatore del pallone. E che non ha mai smesso di guardare a questo anomalo “nove e mezzo”, né attaccante né mezza punta, con una punta di sospetto. Anche quando a trent’anni suonati venne scartato dal Milan come un paio di scarpe vecchie, dovette incassare il no sdegnato di Ancelotti (“al mio Parma non serve”) e si presentò al Bologna, dove peraltro Ulivieri disse “o lui o io”. Poi capì che “lui” avrebbe potuto dare una mano consistente anche all’ “io”, così cambiò rapidamente idea. Risultato: 22 gol in 30 partite in rossoblù e convocazione per il Mondiale di Francia ’98. Là dove la sua presenza mise in crisi l’erede, quel Del Piero che avrebbe dovuto essere protagonista e che invece, già fiaccato da un infortunio, non sopportò la pressione: guardava verso la panchina e vedeva quel tizio con il Codino a cui aveva tolto il numero 10 ma non il seguito mediatico. Perché fu nel primo anno di Bologna che sul carro di Baggio salì l’esercito della salvezza del Divino Codino: dopo averlo trattato per anni con sdegnoso distacco, stampa e addetti ai lavori cominciarono la crociata per portare in azzurro l’unico e ultimo simbolo rimasto della fantasia nel pallone. In Francia ci riuscirono, poi ritentarono per Giappone e Corea quattro anni dopo (qualcuno, con malizia, aggiunse: con la compiacenza dello sponsor). Sarà un caso, ma quando quattro mesi prima del calcio d’inizio il ginocchio di Baggio fece crac in una fredda sera di Coppa Italia a Parma, più di uno tiro un respiro di sollievo: perché bravo è bravo, ma quanto ingombrante... [...] Lo strano destino di un campione che ha scoperto di essere il più amato dagli italiani quando la sua carriera si è avviata verso la fine. Quando il soprannome non serve più. Per tutti, è semplicemente Baggio» (Roberto De Ponti, “Corriere della Sera” 30/12/2003) • «Diciotto anni della nostra vita. E lui era lì. Lì quando ti strabiliava coi suoi dribbling e i suoi gol. Ma lì anche quando non c’era. Fuori per i suoi guai fisici, fuori perché gli allenatori non osavano. Per paura, gelosia o chissà cos’altro passava nelle loro teste. [...] Un gran testardo. Lo era stato da ragazzo, quando il ginocchio destro si disintegrò in mille pezzi e in tanti videro solo il buio oltre quel dolore. “Durante l’intervento mi hanno bucato la testa della tibia col trapano, poi hanno tagliato il tendine e passato dentro il buco, lo hanno tirato su e fissato con duecentoventi punti interni... la gamba destra era diventata così piccola che pareva un braccio” ricorda Baggio, allora già della Fiorentina e di Firenze, la città che lo fece crescere, dove scoprì la fede nel buddismo diventando un seguace della Soka Gakkai, la città da cui scappò verso la Juve lasciando dietro una rabbia che si tramutò in rivolta. Da quella notte [...] è accaduto di tutto. La Juve che lo ha amato e abbandonato, il Milan con gli esperimenti di Capello, le strane idee di Tabarez (con Baggio che fa il tornante) e quel tormento chiamato Sacchi. “Mi ha fatto male, ma credo che fosse in buona fede” disse di lui il codino, rivalutando il suo tecnico e ct dopo aver incontrato di nuovo Lippi, il suo “nemico giurato”. Nella sua autobiografia Baggio racconta che Lippi gli chiese di scoprire quali giocatori gli remavano contro. Lui rispose: “Mister, la aiuterò, ma non mi chieda di fare nomi”. Il campionato del codino finì prima di cominciare. Spiega Gianni Rivera: “Roberto è stato uno dei più grandi calciatori italiani di sempre ma per carattere non è mai riuscito a diventare un leader”. Una verità. Come il fatto che il vero palcoscenico di Baggio sia stato quello azzurro. Non privo di delusioni, però. L’ultima, la più devastante, la mancata convocazione al mondiale in Giappone. “Pur di giocare ai mondiali con lui vado anche in porta” dichiarò speranzoso il fantasista. Che cercò un miracolo per recuperare da un infortunio. “Stiamo pregando e lavorando duramente per farcela” disse allora il suo procuratore Vittorio Petrone. Baggio recuperò, ma Trap non cambiò idea. Già allora, finito il contratto col Brescia, il codino volò in Argentina lasciando a tutti un dubbio in testa. Baggio mollerà? Baggio alla fine accetterà le offerte del mercato giapponese? No, Baggio è tornato a Brescia, ha firmato un altro biennale da tre milioni di euro all’anno con Corioni e si è ributtato dentro con la solita voglia di stupire. Il mondo lo ama ancora. [...]» (Benedetto Ferrara, “la Repubblica” 30/12/2003) • Ha detto Giampiero Boniperti: «Gli strascichi degli infortuni lo anno condizionato, gli hanno tolto qualcosa. Lui, come Paolo Rossi, quando si piegava sulle ginocchia doveva poi farsi il segno della croce per rialzarsi: il calcio per loro è stato sicuramente una grande gioia ma anche una grande sofferenza. Penso che Roberto si diverta di più con la caccia. Ha l’occhio, il senso della posizione. Per lui, come per me, il calcio era un’attività naturale, fatta con le doti fornite da madre natura, la caccia invece richiedeva un vero impegno» (“La Stampa” 30/12/2003).