Varie, 12 febbraio 2002
BAGNOLI
BAGNOLI Osvaldo Milano 3 luglio 1935. Ex calciatore. Di Milan e Spal. Ex allenatore di Verona (campione d’Italia 1984/85), Inter e Genova. «Di lui non si può dire che sia stato un innovatore tattico o un roboante condottiero di uomini. Eppure pochi come lui hanno saputo sottolineare con gli esiti del proprio lavoro l’importanza dell’allenatore. Smentire l’assioma che vorrebbe ininfluente il tecnico, senza la presenza di adeguati fuoriclasse. Il Verona 1984/85, ultimo intruso della storia dell’esclusivo desco metropolitano dello scudetto, non conteneva fuoriclasse, ma un gruppo di buoni giocatori, nessuno dei quali, oltre quella parentesi, ha annoverato in carriera grandi conquiste da primattore. Eppure lui, con quel suo fare ammiccante e riservato, riuscì a portarlo allo scudetto, superando rivali che invece i fuoriclasse li avevano ben esposti in vetrina. E si trattava dei più grandi del mondo: Maradona, Platini, Rummenigge, Zico. stato un tecnico ruspante, ma nel senso migliore del termine. Niente a che vedere con certi abborracciati saperi calcistici di provincia. Piuttosto, la fedeltà alle umili origini portata come una medaglia al pari dell’etichetta vagamente ironica applicatagli all’epoca dei primi successi in serie A: ”il mago della Bovisa”. Alla Bovisa, quartiere proletario di Milano, doveva i natali […] Figlio di operai, venne notato nell’Ausonia dal talent scout Malatesta, che lo portò al Milan. Era una mezzala di buona tecnica e dal tiro schioccante, ma il Milan dei Liedholm, dei Nordahl e Schiaffino non poteva riservagli che uno spazio ridotto, sufficiente tuttavia per la firma sotto lo scudetto del 1956/57. Il suo giro d’Italia lo portò tre stagioni a Verona, una all’Udinese, tre al Catanzaro, tre alla Spal, una ancora all’Udinese prima della chiusura da libero, cinque stagioni di fila nel Verbania, in C, a far da chioccia a numerosi talenti. Fu il direttore sportivo Carlo Pedroli, deus ex machina di quella formazione, a intuire in lui le qualità di allenatore. Lo consigliò alla Solbiatese, stessa categoria, sicché non appena smessi i panni di giocatore si trovò addosso quelli di tecnico. L’avventura si interruppe all’ottava di ritorno, quando mandò fuori dagli spogliatoi il presidente entrato nell’intervallo per consigliargli una mossa tattica […] In giro aveva lasciato qualche amico, come Pippo Marchioro, compagno di strada nel Milan e poi a Catanzaro, che lo chiamò come aiutante di campo nel Como, in serie B. Qui si applicò ai giovani e con tanto entusiasmo da rifiutare l’anno dopo di seguire Marchioro a Cesena. Fu la svolta della carriera, perché quando il tecnico in prima, Beniamino Cancian, venne silurato dopo dodici giornate, i dirigenti lariani pensarono proprio a lui. Il Como era ormai spacciato e il nuovo tecnico non ne cambiò il destino, tuttavia i quindici punti in diciotto partite convinsero i dirigenti ad insistere su di lui per la stagione successiva. Sesto posto in B, seguito l’anno dopo a Rimini da una salvezza col sapore della grande impresa. Quando gli arrivò la chiamata del Fano, due categorie più sotto (C2), non ritenne di dover fare troppo il difficile […] Colse il primo posto e la C1, guadagnandosi il ritorno in B, a Cesena, dove prima sfiorò e poi mise a segno il salto in A. Stava diventando uno specialista e come tale lo assunse il Verona, che puntava giusto alla promozione in A. […] Il Verona volò in A, e qui confezionò una stagione monstre, conquistando il quarto posto in classifica e mancando la coppa Italia di un soffio, dopo aver battuto la Juventus nella finale d’andata […] Nell’estate del 1983 approvò la politica del club, che non aveva soldi da spendere: cessione degli elementi pregiati, Diceu al Napoli, Penzo alla Juventus, Oddi alla Roma, e nuova infornata di elementi da riciclare. Lo stopper Silvano Fontolan, il ventenne attaccante tascabile Galderisi […] Visse una nuova stagione da guastafeste delle grandi, fnendo al sesto posto […] Nell’estate del 1984, mentre approdava in Italia Diego Maradona, il Verona si affidava a due stranieri di fascia medio bassa: Hans-Peter Briegel, gigantesca statua a rotelle […] l’attaccante danese Preben-Larsen Elkjaer […] Partito per il solito onorevole campionato di rincalzo alle grandi, il Verona restava in testa dalla prima all’ultima giornata, macinando un calcio vigoroso e spettacolare […] Altre quattro stagioni, quasi sempre di buona levatura, trascorse alla guida del Verona, prima che una grave crisi sfaldasse le basi finanziarie del club […] Lo chiamò a Genova Aldo Spinelli, avendone in cambio in pochi mesi un capolavoro. Pur senza ingaggiare grandi nomi, grazie a lui il Genoa riebbe dopo anni una fisionomia tecnico tattico solida e spettacolare […] I rossoblu si piazzarono a uno storico quarto posto, anticamera della prima storica partecipazione alla Coppa Uefa […] L’anno dopo, la cavalcata in Europa assunse toni epici, ben sintetizzati dalla vittoria sul Liverpool nella tana di Anfield Road, per arrestarsi solo in semifinale davanti allo strapotere dell’Ajax di Bergkamp […] Tornò nella sua Milano, ma dalla parte nerazzurra, fermamente voluto da Pellegrini nell’estate del 1992 […] Ancora una volta, a una partenza in sordina fece seguito una crescita costante e inarrestabile […] In sette giornate lo svantaggio dai rossoneri scese da undici a quattro punti (allora la vittoria ne concedeva solo due) rendendo decisivo lo scontro diretto, chiuso in un pareggio. L’Inter dovette accontentarsi della seconda piazza, un bel trampolino per la stagione successiva. […] A febbraio, con la squadra al sesto posto, venne cacciato da Pellegrini […] ”L’Inter mi ha mandato in pensione in anticipo, ma non voglio darle troppe colpe. Ero ben predisposto. I primi mesi da esonerato mi dimostrarono che stavo bene anche senza il calcio attivo: stare in campo mi piaceva, ma non sopportavo più il contorno”» (Carlo F. Chiesa, ”Calcio 2002”, n. /2001). «Mister è quasi come mistero. Lui parlava poco, sembrava sempre triste, invece era solo chiuso. [...] ”Curioso, io sono stato esonerato solo il primo anno di carriera, ma preferisco chiamarlo lavoro, perché carriera non mi piace tanto, e poi l’ultimo. Quando sono rimasto a casa per un po’, alla fine, capii che ci stavo bene, e che forse ero al capolinea. Ho tolto un sacco di tempo alla famiglia, era giusto restituirne un po’”. [...] Vinse un incredibile scudetto con la pazienza dei cercatori d’oro. Fu anche una questione di costanza. ”Io e i giocatori crescemmo insieme”. Oggi si pensa che le vittorie sportive siano una cosa da scegliere e prelevare dallo scaffale, una merce come un’altra: più paghi e più ottieni. Però non è sempre stato così. All’epoca di Bagnoli, la costruzione di una squadra richiedeva tempo e gusto artigianale: ”Bisognava stare insieme per qualche anno, conoscersi bene, poi i risultati arrivavano. Si lavorava molto sulle persone, che erano anche giocatori di calcio forti o molto forti, ma nessuno era un marziano, un fenomeno sceso da un altro pianeta. Un gioco ad incastro, funzionava così, e i pezzi giusti erano sempre persone giuste, prima che atleti giusti”. Che tempi erano, davvero, quelli di Elkjaer e Briegel, Fanna e Galderisi, Volpati e Tricella? ”Erano i tempi dei giocatori uomini. Gente che sapeva farsi la trafila e conosceva il valore della pazienza. Quello che ottieni alla svelta, è quasi sempre finto. Questi ragazzi li ho scelti, me li sono portati dietro, però è sbagliato nei loro confronti dire che io sapevo lavorare bene con l’usato. Mica erano automobili! Il fatto è che già una volta esistevano i giocatori chiusi: Fanna alla Juve era chiuso da Causio, Di Gennaro alla Fiorentina era chiuso da Antognoni e via dicendo. Noi a Verona li motivavamo. Sapeste quante squadre forti si potrebbero costruire ancora oggi andando a cercare i giocatori sprecati dai grandi club”. Osvaldo Bagnoli dice di avere smesso perché a fine percorso, ma anche per saturazione. ”C’è un momento giusto per dire basta, e non è mai un momento facile. Costa. Costa dentro. [...] Quel Verona era proprio un gruppo come le dita di una mano, aperte o chiuse ma insieme. ”Per azzeccare gli stranieri ci mettemmo un po’. Quando andammo da Briegel e gli disegnai con un cerchietto la sua posizione in campo se fosse rimasto Marangon, che era il terzino sinistro di ruolo, Briegel rispose: fare il mediano è sempre stato il mio sogno. Ecco, s’incastrò un tassello. Io credo che la vita sia tutto un magico gioco di tasselli. Anche Dirceu era grande, poverino. Me lo comprarono per due peperoncini senza però chiedere prima, io avevo già fatto la squadra e lui non era tanto funzionale. E Zmuda, se non si fosse rotto: gran persona. Stavamo per prendere pure Matthaeus, poi lui preferì il Bayern. [...] Qualche volta, alle cene di rappresentanza avevo paura di non sapere cosa dire al vicino di posto, perché io sapevo di calcio, però non ero uno con tanta cultura libresca. Sono andato a lavorare a quattordici anni in una fabbrica di water, facevo il ceramista, poi mi sono messo a disegnare fasce elastiche, e per divertimento anche le cinture dei pantaloni con i fili intrecciati. Quando sono andato ad allenare i ragazzi del Como, ero sicuro di fare quello per tutta la vita. Avevo anche vinto uno scudetto con il Milan, da giocatore, insieme a Gigi Radice, ma io non ero uno da Milan. Poi ci sono i tasselli: il Como che mi promuove e mi conferma anche se retrocediamo, io che comincio a vincere a Fano, a Cesena, a Verona. Le cose mi sono successe. E non dico mai ”ai miei tempi’ e neanche ”io facevo’, perché mi sembra patetico. [...] Nel Verona c’erano le barzellette di Guidotti, la competenza di Mascetti con cui vedevamo le cose con gli stessi occhi, l’esempio e la forza morale dei miei giocatori uomini. E c’era Chiampan che aveva l’esclusiva di importatore per la Canon ma un giorno i giapponesi gliela tolsero, sapete, le multinazionali hanno un certo modo di programmare il futuro, e poi le nuove spese di gestione della squadra, i conti cresciuti dopo lo scudetto, insomma Chiampan fallì. Ma pagò tutti i debiti. [...] Quando il Verona cominciò a girare male, i tifosi insultavano il presidente e io ero imbarazzato. C’ero dentro, non potevo restare. Il Genoa fu la prima società che mi chiamò, e ha continuato a cercarmi per molti anni. Bel gruppo anche quello, mi presi Bortolazzi, confermai Aguilera, e Branco era quasi bravo come Roberto Carlos, quasi. Ha giocato tre coppe del mondo. [...] L’Inter mi mandò via a febbraio, e quei mesi di inattività mi convinsero che avevo finito la strada. Già c’erano i procuratori, e i giovani secondo me cominciavano ad avere troppe pretese. Mi dicevo: chi te lo fa fare? Mi sentivo saturo, era cambiato quasi tutto e non volevo trasformarmi in un reduce. In famiglia, mia moglie aveva sempre fatto quasi tutto da sola, abbiamo anche una figlia non vedente, insomma sentivo il bisogno di esserci anch’io. Abitiamo in collina, vicino alle Torricelle, e io mi faccio quasi tutti i giorni il percorso della salute, sono belle sudate, mi piace. I risparmi mi danno la tranquillità, e la nostra è una vita senza tante cose speciali. Ho più di quello che desideravo”» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 31/12/2003).