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 2002  febbraio 13 Mercoledì calendario

BALTHUS (Balthazar Kolossowsxi de Rolta)

BALTHUS (Balthazar Kolossowski de Rola). Nato a Parigi (Francia) il 29 febbraio 1908, morto a Rossiniere (Svizzera) il 18 febbraio 2001. Pittore. «’Artista” (lui detestava la parola) fra i massimi del XX secolo. [...] Chi amava perdutamente Picasso, accettava a fatica che potesse rimpiazzarne i fasti, e la sorpresa fu sbalorditiva quando si seppe che Picasso lo giudicava ”il pittore più formidabile del tempo” tanto da averne acquistato un dipinto. All’alba degli Anni ’70 si partiva per Parigi e per suggerimento dei suoi adoratori, da Chastel a Briganti, da Carandente a Guttuso, ci si recava scarse probabilità a Saint-Germain-des-Prés, dentro la scura galleria di Claude Bernard, nella speranza di esplorare un disegno o dipinto di Balthasar Klossowski de Rola, che si sapeva nato nel 1908 a Parigi, da famiglia polacca di piccola nobiltà, avvolto nella leggenda, dalla giovinezza poco decifrabile, con atteggiamenti fra il dandy, il superraffinato narciso, l’estroso, prima isolato fra i numerosi amici a Parigi, poi dal ’61 al ’77 direttore a Villa Medici a Roma. Bernard, avvisato per tempo, giurava di non avere nulla da mostrare perché ”il conte non aveva dipinto”. Le scarne volte che si riusciva a carpire i tesori erano pochi fogli tracciati a china o matita scura. Il riserbo proveniva da una prima personale nel 1934, allorché la stupenda Lezione di chitarra fece gridare allo scandalo. Il padre era scenografo, pittore e storico dell’arte, la madre pittrice, legata da affinità elettive e amorose con Rilke; il quale scelse il nome di Baltusz e incoraggiò il ragazzo. Talvolta si chiedevano a Bernard i disegni del fratello maggiore Pierre Klossowski, disegnatore magistrale nonché scrittore di raffinata voluttà, già amico e segretario di Gide. A Villa Medici Balthus se ne stava con la moglie giapponese Setsuko, circondato lui scenografo e curioso di cinema, dagli amici Fellini, Tirelli, Alberto Sordi, Zurlini, Romolo Valli. Pochi lo visitavano o frequentavano i suoi celebri tè. Leymarie, il successore, spiegava: ”Balthus ha vissuto a Roma come un principe rinascimentale”. L’evento che consentì di conoscerlo fu la Biennale di Venezia nel 1980: un salone fitto di dipinti come un’antica quadreria, catalogo con prefazione di Fellini e Jean Leymarie, ex direttore del Museo d’Arte Moderna a Parigi, amico e critico caro a Picasso. Non si parlava d’altro, le leggende sulla sua ritrosia, la solitudine ora nel Grand Châlet a Rossinière in Svizzera, il conclamato desiderio di vivere al tempo di Luigi XIV, si dilatavano a dismisura, così come eleganza, raffinatezza, avvenenza. All’inaugurazione tutti erano in ansia per vederlo. D’improvviso una notizia letale, si era slogato un piede, forse rotto una gamba; non sarebbe mai comparso in tali condizioni. La delusione fu generale. D’un tratto arrivò una portantina veneziana del ’700, con un gentiluomo in costume d’oro del tempo, bastone alla mano, mentre girava in portantina fra gli invitati. Era lui che aveva congeniato il travestimento. Gentile, affabile, parlava amabilmente, evitando spiegazioni o negando le ascendenze. Fu all’altezza della leggenda. La sorpresa venne però, oltre che dalle magnifiche tele ricche dei consueti simboli per circondare le fanciulle in fiore, come lo specchio, il camino, il fuoco, il gatto, la luce madreperlacea o la penombra, soprattutto dagli incantevoli paesaggi che poco si conoscevano. Strutturati fra geometrie, prospettive inconsuete, e terre antiche, con un occhio vigile a Poussin, a Corot, poi Cézanne, perfino Morandi, i paesaggi erano così solari, d’una materia squisita, si batterono alla pari con dipinti quali Camera turca o la Camera o I bei giorni. Oggi si parla della sua passione per la pittura cinese, allora si pensava ad altro, semmai al Giappone» (Fiorella Minervino, ”La Stampa” 8/9/2001). «Difficile incontrare un artista più solitario di lui. Socievole e mondano quanto aristocratico e scostante, le sue opere non possono essere avvicinate ad alcuna di quelle espresse dai suoi contemporanei. Qualche vaga somiglianza con la pitture surrealista (penso a Dalì e a Delvaux), la devozione filiale per il Derain realista, i punti di contatto con la nuova oggettività tedesca non bastano a spiegare l’essenza segreta, il mistero di seduzione che emana dalle sue tele. Quella luce lattiginosa che entra uniformemente nelle stanze disadorne da una finestra, oltre la quale non vediamo niente, è un’eredità di armonia, proporzione e misura che viene a questo straordinario artista modernissimo da una strana intuizione dello spirito del Quattrocento. Dipinge risalendo da Cézanne, piuttosto che da Seurat, a Piero dell Francesca, con una naturalezza soprendente e come se la pittura non avesse avuto evoluzione, ma profonde linee dominanti. In tal modo ha realizzato un’immagine di elaborato classicismo, e assolutà modernità, senza rischiare l’Accademia, la citazione. La pittura è per lui passione e tormento, ricerca inesauribile della forma [...] Difficile immaginare una pittura più intellettuale, più letteraria, più aristocratica della sua, e nello stesso tempo più fedele alla propria specificità, al tormento del disegno» (Vittorio Sgarbi, ”Panorama” 26/4/2001). «Molto amato e molto odiato, in grado quasi di creare dei partiti pro e contro, non per questioni morali causate dalle gelide adolescenti dal pube glabro che raffigurava nei suoi quadri, ma per l’asprezza di certe sue posizioni nei confronti della contemporaneità. Respinse duramente l’astrazione rispondendo con un realismo silente che adesso appare carico di colori di un’Italia dell’arte ormai scomparsa. I marroni, i verdi, i bianchi, i rossi dei maestri del Quattrocento che appaiono nelle sue tele hanno i toni e i mezzi toni che si formano con il passare dei secoli, un segno del tempo che lui aveva memorizzato, metabolizzato, negli anni Venti, quando durante il suo primo viaggio in Italia si era esercitato, copiandole, con le opere di Masaccio e di Piero della Francesca. Sono colori scuri, forti, cupi, a volte foschi, che ha usato con gran frequenza per l’intera sua vita, oggi non più visibili ad Arezzo o a Firenze: erano tali per le ossidazioni, l’accumulo di sporco e fumo di candela. Sono stati cancellati da restauri che hanno cercato di unire la conservazione dei capolavori con il ritrovamento delle accese cromie delle origini. [...] Protetto da Rainer Maria Rilke, che era rimasto colpito dalla qualità dei disegni che il giovane aveva realizzato appena dodicenne per evocare le vicende di un gatto randagio, Mitsou, cui si era affezionato. ”L’invenzione è affascinante e d’una spontaneità che conferma la ricchezza della vostra visione interiore”, gli scrisse Rilke nel 1920. E’ fin dalla pubertà dunque che inizia la leggenda di Balthus, una leggenda dove appare subito il gatto, che sarà poi uno degli alias pittorici favoriti dell’artista (’ho sempre vissuto circondato dai gatti... come me, a volte, sono crudeli, ma mai volgari”), e dove appare il primo di una serie di grandi nomi che lo accompagneranno per l’intera vita. Se gli anni dell’apprendistato furono guidati da Monet, Maurice Denis, Bonnard e Derain, la maturità fu accompagnata da Artaud, Bataille, Lacan, Camus, Malraux, Federico Fellini, nel periodo in cui a Roma egli diresse l’Accademia di Francia. Colpì l’avvocato Gianni Agnelli che acquistò La Chambre e volle incontrarlo scoprendo ”una personalità di grande eleganza, un amante dell’arte... Parlava molto e acutamente degli altri. Non amava invece parlare di sé”. Balthus era così, voleva essere ”l’artista di cui non si sa nulla”» (Paolo Vagheggi, ”la Repubblica” 9/9/2001). «Non ho mai provato una reale attrazione per l’orrore, la bruttezza, le bizzarrie equivoche. Tutto ciò mi fa ribrezzo. Forse per questo non ho molto apprezzato, a un certo momento, i disegni di mio fratello Pierre Klossowski, la cui attrazione per il morboso, il perverso e le seduzioni sadomasochistiche fa spesso parte del suo immaginario. Quando tutto questo arsenale di motivi si picca per giunta di sfiorare i mondi divini, allora mi indigno o rifiuto totalmente le sue opere. O rimango indifferente. Le carni offerte e sanguinanti di Francis Bacon non mi piacciono, anche se riconosco in lui l’opera di un grande pittore proprio come nel caso delle avventure trasgressive di Klossowski. Attorno a noi ci sono tante cose belle, perché ostinarsi a ignorarle? Ho voluto dipingere soltanto ciò che era bello: i gatti, i paesaggi, la terra, la frutta, i fiori e naturalmente i miei cari angeli che sono come i riflessi idealizzati, platonici, del divino. Certo, ci saranno dei biografi e dei critici d’arte (e ce ne sono già stati!) che crederanno di trovare delle pose erotiche nelle mie modelle, insozzando il lavoro d’innocenza che ho voluto condurre, la mia ricerca di eternità. Ma che importa! Si dirà anche che ho voluto fare il Pigmalione. Ma dimostreranno così di non aver capito nulla del mio lavoro. Si è sempre trattato di avvicinarsi al mistero dell’infanzia, alla sua grazia languida dalle frontiere incerte. Ciò che volevo dipingere era il segreto dell’anima, e la tensione al tempo stesso oscura e luminosa della ganga da cui le mie fanciulle non si erano ancora del tutto liberate. Il passaggio, potrei dire, sì, è questo, il passaggio. Il momento incerto e confuso in cui l’innocenza è totale e cederà presto il posto a un’altra età, più determinata, più sociale. C’era qualcosa di miracoloso in questo compito che conduceva al divino. Credo che anche Piero della Francesca abbia dovuto capire quanto dico qui: il tempo pretemporale che bisogna scoprire, riportare alla luce e che fa apparire all’improvviso nella sua pura nudità il volto immateriale dell’Unità, del divino, in altre parole la mia pittura tratta di un mondo che oggi non è più attuale. Di un mondo sepolto. Il lavoro che ho condotto sulle materie fa del pittore un vero archeologo dell’anima. Si scava, si fruga, si maltratta la terra, la tela, e le si restituisce la sua consistenza di fango primordiale, e il tempo sepolto riaffiora, rinasce alla luce del sole. La pittura è una giusta assunzione, una elevazione; come alla santa messa l’ostia si innalza simile a un sole d’oro. Perciò la pittura ha come unico scopo la bellezza. Le carni spennate di certi pittori contemporanei fanno della pittura un’opera bassa. Luciferina. Mentre si tratta solo di raggiungere la bellezza divina. O almeno i suoi riflessi. Dipingere è uscire da se stessi, dimenticare se stessi, preferire l’anonimato a ogni cosa e rischiare talvolta di non essere in accordo con il proprio secolo e con i contemporanei. Bisogna resistere alle mode, rispettare a ogni costo ciò che si crede valido per sé, e persino coltivare quello che ho sempre definito, come i dandy del XIX secolo, ’il gusto aristocratico di non piacere’. Bisogna conoscere il raffinato godimento della differenza che, a ogni modo, chiama a compiti oltremodo straordinari, stupefacenti. Il pittore, come lo intendo io almeno, ha contro di sé tutti i mercati, tutte le tendenze, tutti gli snobismi. al di fuori delle mode. Giacometti lo aveva già capito. Quando i pittori del cortile di Rohan, che formavano una piccola comunità unita, si riunivano al Cafè de Flore o a quello des Deux-Magots, Alberto Giacometti non ci andava, preferendo lavorare tutta la notte, e mi faceva piacere sapere che il buon Alberto vegliava mentre Parigi si distraeva o dormiva. Una simile concezione della vita non permetteva affatto di guadagnare molto denaro. Ma era quello lo scopo da raggiungere?» (’Corriere della Sera” 16/11/2001).