Varie, 13 febbraio 2002
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Baryshnikov Mikhail
• Riga (Lettonia) 28 gennaio 1948. Ballerino • «Fra i massimi danzatori del 900, interprete elegantissimo e apollineo del repertorio classico, perfetto e spesso ironico protagonista dei grandi coreografi del 900, attore di teatro (La metamorfosi) e di cinema (Due vite e una svolta, Dancers e soprattutto Il sole a mezzanotte), ha fatto della perfezione assoluta la propria bandiera e a 42 anni ha lasciato per sempre il classico, conscio di non essere più in grado di dare in palcoscenico l’altissimo livello cui era abituato. Si è inventato così con intelligenza una nuova carriera come danzatore contemporaneo e con la sua compagnia il White Oak Dance Project ha realizzato in dodici anni una mappa della danza americana» (Sergio Trombetta, ”La Stampa” 21/9/2002) • «Gli ingredienti del mito ci sono tutti: esotismo, talento, fascino, intelligenza, pirateria. E c’è, nonostante abbia solo 54 anni, anche la leggenda. Perché Mikhail Baryshnikov, léttone di Riga, statunitense per elezione, appartiene a una storia recente e insieme lontanissima, quella della guerra fredda fra Est e Ovest da cui sono nati l’agente 007 e tutti gli ”eroi” della fuga e dell’espatrio dall’Urss. A vederlo oggi, senza età, energetico e bello, inguaribilmente slavo, un po’ attore e un po’ stregone, filosofo del movimento dopo essere stato angelo e acrobata, si capisce bene come abbia ragione chi giura che la sua carriera è un caso. E che solo per un gomitolo di combinazioni, appena dodicenne, eccellente in tutto alla scuola di balletto classico della sua città, preferì momentaneamente la danza a quanto altro avrebbe potuto fare. Mikhail disse a sé stesso, con ogni probabilità, che sarebbe arrivato il tempo per ogni cosa. Così è stato. Asilo politico lo chiese a Toronto, nel 1974, durante una tournée del Kirov in Canada. Fece in modo di scomparire dal gruppo, di cui era la star, per consegnarsi alle autorità canadesi, che gli concessero rifugio quasi subito. Iniziava lì il suo percorso americano, fatto di esibizioni prima estetico-funamboliche, poi, via via, sempre più calate nel tono e nella ricerca delle famose compagnie statunitensi nelle quali ha lavorato, dal’American Ballet al New York City Ballet. L’incontro con Hollywood, per uno così, era inevitabile: il cinema ha restituito a Baryshnikov una parte delle infinite possibilità espressive che natura, radici e dèi gli hanno regalato alla nascita e la dura disciplina di Tersicore non è riuscita, da sola, a saturare. L’uomo, al di là del danzatore, non si è infatti negato una vita ricca di esperienze, l’amore di donne quali Jessica Lange, Liza Minnelli, Candy Clark e Janine Turner, il matrimonio con una ex ballerina, Liza Rinehart, quattro figli e la spinta a cercare conferme della propria arte in territori - quelli percorsi attualmente - molto più affini al teatro e all’arte comportamentale che al balletto. Con i ”complici” del White Oak Project regna oggi in un cenacolo di sperimentatori che chiedono al corpo alleanze sottili e alla mente vacanze fuori codice, senso dell’ironia, umorismo e quel rispetto deviante della classicità cui tende gran parte dell’arte contemporanea. Il gruppo, in palcoscenico e fuori, ricorda la dimora che Epicuro sognava per sé e per i propri amici, un luogo senza limiti per il pensiero e per il piacere dove la creazione è il pane e l’elaborazione della stessa il companatico. Così, in palcoscenico, l’angelo inquieto non porta il passato di cui è sazio, benché il mondo e i fan insistano nel riconoscere soprattutto quello. Forse conscio di quanto la realtà sia poliedrica e somigliante al proprio talento, preferisce atmosfere segrete, semplicità assolute o eccentrici sviluppi del banale quotidiano. Non cerca la risonanza hollywoodiana di cui pure, in un recente passato, si è nutrito e che gli ha dato la dimensione di icona internazionale. Con la razza del White Oak va per teatri e verso pubblici dal palato fine. Ma non disdegna di catturare anche i semplici che sappiano offrirsi all’arte come carte assorbenti. un Misha puro, disadorno, antienfatico, essenziale, vicino all’alfabeto del movimento e, insieme, alle sofisticate e infinite combinazioni che esso suggerisce, rebus compresi. un’epifania di impertinente saggezza, di rarefazione e compostezza nel pazzo, esponenziale contesto della rappresentazione (mimetica e non) della vita. Baryshinkov per tutti e per nessuno. Smisurato come il suo ego» (Rita Sala, ”Il Messaggero” 2/10/2002) • «[...] Baryshnikov uno, due, tre. Uno: il ballerino. Due: l’attore, prima schivo e timido davanti alla macchina da presa, poi così sicuro di sé da farsi scritturare nello scanzonato e irriverente Sex and the city. Tre: il fotografo, che ha iniziato a scattare bianchi e neri parecchi anni fa [...] ”Un amico di San Pietroburgo, Leonid Lubianitsky, un giorno mi ha messo una macchina in mano. Io stavo partendo per un tour: Giappone, Taiwan. Lui mi ha detto: dai, scatta. Punta l’obbiettivo su qualunque cosa ti ispiri. Fotografala. Poi portami indietro i rullini. L’ho fatto. Mi è piaciuto”. [...] semplice. Per lui tutto sembra esserlo. Forse perché il passato non lo è stato: la madre, morta suicida, che gli insegnò la bellezza del teatro; il padre, militare, per il quale un sipario rosso che si apriva e si chiudeva era solo una perdita di tempo. L’arte come salvezza. L’asilo politico chiesto durante un tour in Canada, nel 1974. Il passaporto americano. Le mille attività cominciate e lasciate lì, come le tante storie d’amore iniziate e finite [...] Alla rinfusa: i baci appassionati e una figlia dall’attrice Jessica Lange, l’attività di manager di una linea di abbigliamento sportivo con la sua griffe, una Dance foundation [...] Susan Sontag ha scritto che Baryshnikov è meraviglioso in qualunque cosa si cimenti. grande quando balla, grande quando recita e seduce Sarah Jessica Parker-Carrie Bradshaw giornalista eternamente in amore, grande quando fa fotografie: ”Le sue foto sono agili, calde, sagaci, curiose, aperte al mondo”. Se tra il danzare e lo scattare immagini c’è una relazione, lo sa solo lui. E Baryshnikov conferma. Certo che c’è, ”sta nell’occhio. Vede, io ho due memorie. Una è nel cervello, come tutti. L’altra nei miei muscoli, nelle mie ossa. Ambedue passano dalle pupille. Perché nella memoria del corpo io immagazzino tutti i gesti, le posture, i movimenti che vedo intorno a me. Nelle mie braccia, nelle mie gambe, nei miei piedi c’è come una banca dati dove conservo due mani che fendono l’aria mosse da un barbone sul metrò o le braccia conserte di una donna in chiesa. Quando danzo, tiro fuori da questo computer di carne e sangue tutti i gesti memorizzati nel corso degli anni, e li trasformo in arte. Lo stesso faccio con le fotografie: i miei scatti sono la memoria di un paesaggio straordinario, di una persona cara, di qualcosa che accade di assolutamente normale sotto i miei occhi, ma che per me è grandioso. Quando realizzo una fotografia che mi soddisfa, mi ricordo tutto del giorno in cui l’ho scattata. Un odore. Un suono. Una persona”. Fotografare, dunque, secondo Baryshnikov, è bruciare un momento di vita nella tua testa, ”non è solo catturare l’immagine che hai davanti, ma tutti quei piccolissimi istanti che vengono prima e dopo lo scatto”. Non ha maestri. Sì, ama Anne Leibowitz, Eve Arnold, Cartier Bresson. Anche Andy Warhol, che tirava fuori la sua macchina fotografica pettegola nei momenti più impensabili? ”No. Lo conoscevo, ci siamo frequentati, ma Andy era una farfalla sociale. Il commercio era il risvolto, dichiaratissimo peraltro, della sua arte. Tutto ciò che faceva era definito geniale. Io non ho questo potere. Lo ripeto, sono un dilettante della fotografia. Un paparazzo legale”. Dice che i film di Polansky e Bergman hanno lasciato un segno profondo nel suo immaginario visivo. Ma nel bianco e nero è stampata tutta la sua vita. Anche quella prima dell’esilio: ”Riga, la città dove sono cresciuto, è un paesaggio di grigi. Il mare, la luce, il clima sono un intreccio di nero fumo, argento pallido, mille infinite sfumature del grigio. Il chiaroscuro delle pietre dei palazzi bagnate dalla pioggia. In bianco e nero era anche il clima politico di metà anni Cinquanta: dopo il secondo conflitto mondiale, in Russia, le immagini della guerra e delle sue conseguenze erano ovunque. Ricordo le foto scattate da Evgheni Haldei con i soldati sovietici che innalzano la bandiera sul Reichstag, quelle di Alexander Brodsky con i carri che cercano disperatamente di rompere l’assedio di Leningrado attraversando il Lago Ladoga ghiacciato. E poi le foto propagandistiche che illustravano l’inarrestabile marcia della Russia verso la ricostruzione, che mi hanno rivelato con quanta facilità un’immagine può suscitare emozioni. Le lattaie con i loro fazzoletti in testa che sorridono vantandosi della superproduzione, minatori con la faccia sporca, saldatori spettrali in mezzo alla pioggia di scintille”. A lui basta un oggetto a portata di mano. Basta il quotidiano dentro le mura domestiche: ”Mi piace fotografare cose banali, sguardi e gesti rubati. I bambini, i miei figli: perché davanti all’obbiettivo si mostrano come sono, senza mentire. Non sanno cos’è l’inganno”. Lui, quando è stato fotografato, ha mentito, ma solo un po’. Come mentono i divi costretti a mettersi in posa; un ballerino soprattutto, guai se non spicca un salto mentre lo immortalano. ”Amo più fotografare che essere fotografato. E una piccola rivincita me la sono presa. Con Richard Avedon. Lui era come me. Meglio stare dietro che davanti alla macchina fotografica. Però un giorno gli chiesi se era disposto a posare per una foto che io avrei scattato. Lui nicchiava, ”mi hai fotografato per trent’anni, adesso tocca a te, concediti per qualche minuto’, gli dissi. Accettò”. Artista nella vita, artista sul piccolo schermo. Se gli si nomina Aleksandr Petrovsky, lui sogghigna: ”Oh my God!”. Mister Baryshnikov, l’ha fatta grossa. Entrare nel cast di Sex and the city, che follia. ” stata Sarah Jessica Parker a volermi. Io non guardo mai la televisione, non ho tempo e non mi piace. Conoscevo questa fiction per fama, ma non l’avevo mai vista. Sarah è venuta da me con una borsa piena di registrazioni. Mi ha fatto vedere alcune puntate. In un primo momento sono rimasto colpito. Tutte quei discorsi sul sesso. Poi sono andato sul set e ho visto tanta professionalità. Così ho detto: va bene, ci sto. E confesso che mi sono divertito un mondo”. Adesso c’è una generazione di single in carriera che lo sogna. Che sospira davanti alla sua bellezza stazzonata, ai suoi occhi randagi e sensuali, ai suoi modi flessuosi e dandy. Dicono che nella fiction televisiva quell’artista russo di passaggio a New York ma parigino di adozione gli somigliasse molto: una vita ricca e piena di impegni, un tenebroso playboy milionario, un codazzo di segretarie indaffarate, portaborse, portavoce, uffici stampa. ”Lo scriva per favore - e ancora ride - lo dica che io non sono come Petrovsky. Che io sono un’altra persona, che io non c’entro nulla con lui”. Una crisi d’identità? ”Il problema è che il pubblico televisivo tende a identificarti con il ruolo che ti hanno affidato. Per questo, ad esempio, non ho fatto vedere le mie puntate di Sex and the city ai miei figli. Non voglio che si facciano idee strane su di me. Quando saranno più grandi, una sera, li metterò davanti al televisore. E dirò: guardate, vostro padre nella sua vita ha combinato anche questo”» (Fulvio Paloscia, ”la Repubblica” 7/8/2005).