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 2002  febbraio 13 Mercoledì calendario

BASILICO

BASILICO Gabriele Milano 13 agosto 1944. Fotografo. Laurea in architettura al Politecnico, nel 1978 debutta con la prima personale di fotografia alla galleria il Diaframma, dando così il via a una carriera che lo inserirà tra i grandi esponenti internazionali della fotografia d’architetture. «Uno dei grandi della fotografia italiana. Ama le città e le loro periferie, considera palazzi ed edifici alla stregua di esseri viventi. […] ”Io ricostruisco città virtuali fatte di tante immagini reali. Sono onnivoro e quando mi pongo davanti a una città sono preso da una sorta di desiderio di conquista e di assalto, la vorrei quasi mangiare”. Il risultato sono immagini come quelle di Milano, di Napoli, di Berlino, di Palermo in cui si vive l’avventura di un viaggio dello sguardo tra strade e palazzi ”come fosse un bisturi dentro un corpo mobile”. Un bisturi in bianco e nero, in grado di aprire ferite in paesaggi che pensi, ad esempio nel caso di Milano, di conoscere, ma che non avevi mai considerato sotto quel punto di vista. […] ”Negli anni 70 si fotografava molto la gente. Io non lo facevo e mi sentivo quasi in colpa. Poi un amico mi fece capire che quelle assenze nelle mie fotografie non erano spazi vuoti, parlavano di qualcuno che era appena entrato oppure uscito di scena”» (Rocco Moliterni, ”La Stampa” 18/7/2002). «Prima della fotografia, dice, viene lo sguardo. ”Lo sguardo è la sostanza sottile della fotografia” [...] Potremmo dire che, prima ancora del desiderio di fotografare, Gabriele Basilico è mosso dal desiderio di guardare - e non di guardare genericamente ma di guardare qualcosa che particolarmente lo sollecita. Guardare, cioè, soprattutto, la città, quell’insieme di architetture di ogni genere che formano una città. come se la città fosse, per Basilico, la figura essenziale del mondo. Come se l’architettura fosse lo strumento essenziale che l’uomo ha a disposizione per abitare nel mondo. Per ripararsi dal freddo, dal caldo, dalla pioggia, dal vento, dalla luce dal buio, certo. Ma anche per dare, al mondo, un senso. Per produrre una serie di figure che bene o male abbiano la funzione di rappresentare un modo di pensare - quella che potremmo anche chiamare una specie di teoria del mondo. [...] Per Basilico, la città è un libro sterminato - che prima il suo sguardo e poi la sua fotografia si sforzano continuamente di decifrare. Basilico non si limita alle architetture più belle, o più famose. Basilico sa riconoscere e percorrere - sa leggere -l’intero testo della città. E, tra l’altro, sa mettere splendidamente in luce il significato profondo di quelle ”pagine” - di quegli edifici o complessi di edifici - che forse molte volte noi si sarebbe indotti dall’abitudine a considerare come del tutto insignificanti. [...] Sono quasi sempre vuote, queste città. In qualche modo, sono vuote come le grandi città del passato, ristabilite dall’archeologia nella loro pura e semplice identità di figura. esalta la forza espressiva delle forme e degli spazi architettonici, questo vuoto [...]» (Emilio Tadini, ”Sette” n. 43/1999). «Ci sono molti modi di infilare la vita degli uomini dentro a una fotografia. Si può fare dall’alto, dal basso, di corsa. In penombra. A colori. Gabriele Basilico lo fa con lentezza. In bianco e nero. Con il cavalletto, la luce pulita di una giornata ventosa. E specialmente lo fa [...] senza mai inquadrare gli uomini. Quello che lo interessa sono le città. Le città contenitori di infinite traiettorie [...] Palazzi, strade, lampioni, periferie, sterrati, grattacieli, fabbriche. Non immediatamente identificabili. Laconiche anche nelle didascalie: nessun luogo in particolare, solo la città, in generale, Milano, Napoli, Istanbul, Lisbona, Buenos Aires, Torino, Napoli, Beirut. Tanto estesa da diventare una sola. Con le sue geometrie così perfettamente artificiali al primo sguardo, cosi perfettamente vuote di uomini, donne, bambini, animali o automobili in transito, da trasformare, al secondo sguardo, quel vuoto nel suo rovescio, e il suo silenzio in un sentimento. Perché le fotografie di Gabriele Basilico contengono lo stesso punto di vista delle bottiglie di Morandi. Fronteggiano i frammenti della medesima vertigine. Vibrano nel riflesso dello stesso specchio. Suggeriscono altrettanti punti di fuga. Sospendono il tempo, trasformano lo spazio in dubbio. Il viaggio di Gabriele Basilico, nato a Milano nel 1944, allievo di Berengo Gardin, ammiratore di Ugo Mulas, inizia subito dopo la laurea in Architettura, anni Settanta, con la prevalenza della certezza sul dubbio. I suoi primi still life sono i Ritratti di fabbriche, scatole del tempo immobile che il declino fordista taglia in una luce già di lontananza. Poi ci sarà la collaborazione con Luigi Ghirri nel Viaggio in Italia. Poi l’approfondimento su Napoli. Poi la costa Nord francese del Bord de mer con i suoi paesaggi d’acqua mobile. Poi l’immobilità di Beirut, catalogo davvero metafisico, dove sulla cenere fredda della città e il suo silenzio, incombono i resti della guerra che l’ha divorata per 17 anni in un fuoco diventato racconto perpetuo e risonanza. da allora, primi anni Novanta, che lo spazio di Basilico, lungo la superficie più esterna delle nostre esistenze, diventa sempre di più la verifica di quel dubbio: il documento dell’essere vivi. La lenta ricerca di una conferma nello sguardo, per poi estendere lo sguardo fino a colmare lo scarto tra la percezione istintiva e la visione consapevole. Diventare inquadratura e memoria. Dice: ”Fotografare per me significa prelevare campioni del mondo reale e metabolizzarli come sostanza necessaria e nutriente della memoria”. [...] Per Gabriele Basilico la città è un essere vivente. Dice: ”Un organismo che respira e si espande sopra di noi come un mantello protettivo che ci abbraccia e ci confonde allo stesso tempo”. E aggiunge: ”Io appartengo a lei come frammento, dentro al suo corpo. Mi ossessiona il bisogno costante di conoscere la sua corporeità”. Il suo stile è mettere ordine al disordine. Scegliere l’istante. Documentare (per esempio) l’espandersi di quell’essere vivente, inquadrare i suoi punti nevralgici dove si condensano l’energia dei cantieri e il mutamento delle forme. Raccontare i palazzi. Raccontare il taglio di una sopraelevata che passa obliqua su un fondale di finestre a scacchiera. Dice: ”Mi interessano gli edifici, le facciate gli angoli, le superfici, la profondità dei volumi e tutto ciò che contribuisce al disegno urbano”. La sua fotografia non si occupa di centri storici, chiese o angoli pittoreschi. Non si fa distrarre dalla sedimentazione degli stili e dei secoli. così tanto decentrata da stare sul lato opposto del reportage, che insegue la vita mentre succede. Qui non c’è alcuna velocità esibita. Basilico registra nei suoi scatti e ci consegna un intero istante di contemplazione. Una superficie in attesa e il suo colpo di scena. Perché l’attesa siamo noi» (Pino Corrias, ”la Repubblica” 4/1/2006).