Varie, 13 febbraio 2002
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Baudrillard Jean
• Reims (Francia) 20 luglio 1929, Parigi (Francia) 6 marzo 2007. Filosofo. Sociologo. Figlio di impiegati statali, inizia a lavorare per la casa editrice Seuil negli anni Sessanta, mentre collabora a Les temps modernes e conosce Roland Barthes. Nel ’66 diventa assistente di Henri Lefebvre all’università Paris-Nanterre. Con Cohn-Bendit e gli enragés partecipa al ’68, anno in cui pubblica Il sistema degli oggetti, seguito nel ’70 da La società dei consumi e Per una critica dell’economia politica del segno, iniziando a esplorare il sistema dei segni su cui si basa la vita quotidiana e a rivedere la teoria marxiana dei bisogni, per approdare a una visione del mondo di oggi dove la realtà si dematerializza e l’uomo si concentra sulla comunicazione. Tra i suoi titoli più noti, ma ha scritto decine di libri, anche Della seduzione (’79), Le strategie fatali (’83), Simulacri e simulazione (’85), America del 1986, anno in cui divenne direttore scientifico all’università di Parigi IX Dauphine. o «Le sue ipotesi speculative, illustrate in opere come Il sistema degli oggetti (1968), Lo scambio simbolico e la morte (1976), L’illusione della fine (1993), si basano sulla constatazione che nella società contemporanea la realtà è sottoposta a un processo di dematerializzazione in virtù del quale la simulazione e la riproduzione del reale, indotte dall’elettronica, hanno di fatto annullato qualsiasi riferimento alla realtà sostituendo ad essa dei simulacri» (Aldo Grasso, Enciclopedia della Televisione Garzanti, garzanti 1996) o « un filosofo iperrealista e postmoderno proclive all’argomentazione metaforica e famoso per le pose provocatorie. Da tempo paragona la globalizzazione a un olocausto e preconizza la scomparsa della specie umana. Ma dopo l’attentato dell’11 settembre e il crollo delle Twin Towers s’è convinto che a fomentare la violenza infusa nel mondo, ”e quindi l’immaginazione terroristica che, senza saperlo, alberga in tutti noi”, sia la stessa superpotenza mondiale, la quale, raggiunta la perfezione diventa, secondo lui, addirittura complice della propria autodistruzione e pertanto appare non solo vulnerabile, ma disarmata di fronte all’antagonismo irriducibile di un sistema che s’avvale di un’arma fatale come ”la radicalità della morte volontaria”, in nome dell’’obbligo sacrificale suggellato da un’esigenza ideale”» (’Il Foglio”, 10/11/2001) o « Era uno degli ultimi maîtres-à-penser ancora lucidi e attivi della generazione intellettuale postsartriana, pronto a intervenire nelle questioni più scottanti dell’attualità. In presenza di un fenomeno nuovo da interpretare, quando scoppiava un caso, se sopraggiungeva qualcosa di straordinario, un fatto o un evento di fronte a cui l’intelligibilità assicurata dalle normali categorie dell’analisi sociale vacillava, Baudrillard era tra i primi a prendere la parola e ad arrischiare una lettura, un’ipotesi, un’interpretazione. Germanista di formazione, aveva trascorso qualche anno in Germania dedicando tra l’altro alla traduzione in francese di testi di Hölderlin, Peter Weiss e Bertold Brecht. Tornato in Francia, nel 1966 era stato chiamato da Henri Lefebvre come suo assistente all’università di Paris-Nanterre, avvolta in clima surriscaldato per il montare della protesta studentesca e l’affermarsi della rivoluzione sessantottina. La sua tesi di dottorato, Le système des objets, è lavoro sociologico a suo modo geniale e innovativo, ma eccentrico rispetto ai canoni della disciplina e insufficiente ad aprirgli la carriera universitaria. Dopo un periodo passato a insegnare tedesco nelle scuole, Baudrillard fu nominato docente di sociologia, acquistando carisma e autorevolezza, ed essendo invitato a tenere lezioni e conferenze nelle principali università europee e americane. Ma dovettero trascorrere ben due decenni prima che nel 1987 la sua thèse d’état, con cui divenne professore a pieno titolo, fosse accettata e presentata da Georges Balandier alla Sorbona. Fu un riconoscimento tardivo, che non gli fornì il motivo per impegnarsi nella vita accademica bensì il pretesto per allontanarsene definitivamente e dedicarsi alla propria attività di libero scrittore e analista, dirigendo tra l’altro la rivista Traverse. I suoi saggi - incisivi e strutturati i primi, poi sempre più fulminanti e istantanei, ma di corto respiro e a volte di una dogmatica vaghezza - hanno comunque segnato in modo profondo la vita intellettuale contemporanea e la rappresentazione culturale del nostro tempo. Penso per esempio a L’échange symbolique et la mort, uscito nel 1976, che analizza il sistema dei segni, la loro funzione sociale, il loro inesausto e infinito richiamarsi in un vuoto e inane rispecchiamento di valori simbolici che risucchiano e consumano le cose. Con la nascita dell’illusione di uno scambio simbolico infinito, in cui i segni fagocitano e dissolvono le realtà significate, ormai incapaci di resistere all’urto dell’onda irreale. E in cui il discorso diventa, anziché la tematizzazione di un referente oggettivo, un satellite dell’immaginario. Passando in rassegna fenomeni che si impongono con ”oscena evidenza”, come la moda o lo sfruttamento dei corpi nella pubblicità, Baudrillard si erge a lungimirante analista di un mondo, quello postmoderno, o ”post-istorico” come preferiva dire (L’illusion de la fin, 1992), che presto sarebbe stato permeato dal virtuale, e in cui già lui vedeva prevalere e dominare l’irrealtà sulla realtà, cioè la parvenza e i simulacri sulle cose. Solo la morte - sosteneva allora - potrebbe offrire un arresto alla espropriazione e alla perdita di senso che ha luogo nella circolazione dell’irreale senza senso, duplicabile, riproducibile ed espandibile all’infinito. Questo spiraglio di senso, che sarebbe stata la morte, veniva definitivamente chiuso in un altro suo celebre lavoro: Les stratégies fatales, apparso nel 1983. L’accelerazione dei processi sociali di scambio e di circolazione dell’irreale è qui dichiarata ormai un processo inarrestabile, ingovernabile, fatale. Alimentata dai meccanismi del desiderio, della seduzione e del consumo, in cui i soggetti diventano pedine impotenti di un gioco sistemico che non solo non riescono più a governare, ma da cui sono inesorabilmente governati, l’irrealtà, cioè la virtualità, dilaga in modo incontenibile e incontrollabile. Senza la possibilità di congetturare né un happy end né qualcosa come un buco nero sociale in cui l’ordine attuale imploda. Tanto più sorprendente è stato perciò il suo instancabile stare a ridosso del Nuovo che emergeva, offrendo scorci, spunti, intuizioni e analisi, che solo in apparenza si presentavano come disparate o perfino svogliate, ma che in realtà testimoniano di un impegno costante, diventato uno stile di vita e di pensiero. Ma che fare? Anzi, che dire? Quale prassi e quale teoria sono praticabili di fronte all’odierno spettacolo della società globalizzata e informatizzata? Di fronte all’evaporare e al dissolversi sempre più evidenti del reale nel virtuale? Negli ultimi tempi - diciamo a partire dal brevissimo ma folgorante Amérique (1986) per arrivare alla sequela delle Cool Memories (I-V, 1980-2005) - Baudrillard aveva preferito come strategia di analisi il diario, il racconto del proprio transitare di esperienza in esperienza, di osservazione in osservazione. Forse per un vezzo letterario, in cui il rigore dell’analisi inclina e si piega all’estetica della scrittura. O forse perché l’unico modo per attraversare la nostra realtà ormai refrattaria a ogni tentativo di trasformazione consapevole e guidata, e perfino a ogni speranza di senso e di intelligibilità, è il ”puro viaggiare”. Il semplice stare a guardare e scrutare, senza pretendere di giudicare e tanto meno di discriminare il Bene dal Male, come Baudrillard scrisse con coraggio dopo l’11 settembre (L’esprit du terrorisme, 2002). Il puro osservare, il semplice posarsi dell’occhio sulle cose, per prendere parte al Nuovo e fruirne. Senza nostalgie né rimpianti per il passato lasciato alle spalle e definitivamente trascorso, senza speranze per il futuro che incombe. C’è qualcosa che possiamo dire di avere imparato da tale controverso maestro cui è stato dedicato perfino un Cahier de l’Herme (2005), tanto intuitivo e preveggente quanto vago e volatile? Certo, almeno questo: che quando le cose sono soltanto quello che sembrano, presto ci sembreranno essere ancor meno. E che in un mondo del genere non ci rimane che essere indifferenti senza cinismo e appassionati senza entusiasmo» (Franco Volpi, ”la Repubblica” 7/3/2007) o « Jean Baudrillard è stato un intellettuale totale, che ha attraversato il dopoguerra bruciando tutte le tappe della filosofia, della sociologia, della semiotica, dell’antropologia. Marxista e antimarxista, freudiano e antifreudiano, moderno e postmoderno, strutturalista e antistrutturalista. Apocalittico per i suoi avversari (che sono tanti), lucidamente pessimista per i suoi adepti (che sono stati, negli anni, moltissimi). stato l’intellettuale radicale per eccellenza, l’intellettuale del paradosso, passato dalla contestazione del Sessantotto alla teorizzazione della fine di tutto, dell’arte, della politica, della storia e persino della realtà: filosofo della simulazione e del simulacro. Nato a Reims nel 1929, da nonni contadini e da genitori impiegati statali, prende ben presto le distanze dalla famiglia e dal suo ambiente ”provinciale”. Nel ’56 è professore di liceo e all’inizio degli anni Sessanta è consulente di una delle case editrici più in vista della sinistra francese, Seuil. A Parigi viveva da anni in un elegante appartamento nei pressi di Montparnasse. Arrivato nella capitale, collabora per la rivista di Sartre, ”Temps modernes”, traduce Brecht e Peter Weiss, si avvicina a Henri Lefebvre e ai suoi studi sulla vita quotidiana. Già nel ’66, a giudicare dal titolo della sua tesi di laurea ( Il sistema degli oggetti, che diventerà due anni dopo il suo primo libro), è nel pieno di quella che sarà l’’ossessione” di una vita: la critica alla società del consumo, influenzata dallo stesso Lefebvre, dalle ”mitologie” di Roland Barthes e dalla ancor giovane voga semiologica. Il Sessantotto lo vede partecipe dal fronte universitario della sinistra radicale (che aveva in Nanterre, dove già insegnava sociologia, il suo fulcro) e lo allontana per sempre dal Partito comunista e dai suoi teorici ufficiali. Rabdomantico segugio di tutto ciò che nella società si rivela come ”segno” del mercato (la pubblicità, la moda, i mass media, la marca, lo stile, il linguaggio, il sesso, la fitta foresta degli oggetti), Baudrillard dal verbo rivoluzionario marxista passa, nel giro di un decennio, all’idea di una rivolta violenta che avrebbe portato a una ”disintegrazione improvvisa” delle convenzioni sociali (dove tutto rischia di essere alienazione); per sterzare poi verso una visione ”idiosincratica”, una sorta di francofortismo estremo per cui gli esseri umani, dominati dalle cose, soccombono fino a ”reificarsi” essi stessi. Con Lo scambio simbolico e la morte, del ’76, il radicalismo di Baudrillard assume sfumature irrazionaliste e persino esoteriche, che si riconducevano al pensiero di Bataille, in una esplicita rottura con i pensatori moderni: siamo alla fine di tutto, dell’economia politica, del lavoro, della realtà, appunto. Il potere invasivo e oppressivo dei media ha prodotto un mondo di pura simulazione, in cui ogni significato si capovolge fatalmente nel suo opposto e ogni segno si riduce a ”simulacro” privo di senso. La realtà viene sostituita da una dimensione nuova, diventata più reale di quella reale: l’irrealtà. Il paradosso di Baudrillard si esprimerà, d’ora in poi, oltre che in saggi teorici di ampio respiro, in una produzione frammentaria, consegnata a un incedere aforistico, a brani di diario e a interventi sull’attualità (pubblicati per lo più sul quotidiano ”Libération”). I suoi numerosi scritti, ermetici e di ardua lettura, ma spesso banalizzati in slogan memorabili, ne hanno fatto nell’ultimo decennio una star internazionale. Nel ’91 fece molto scalpore un suo scritto intitolato La Guerra del Golfo non c’è mai stata, in cui sosteneva che la televisione aveva cancellato ogni confine tra la drammaticità del conflitto in sé e la sua messa in scena. Si era così consumato Il delitto perfetto (titolo del ’95), aggravato dalla comunicazione virtuale (’sullo schermo del tempo reale, sul filo di una semplice manipolazione digitale, tutti i possibili vengono virtualmente realizzati - il che pone fine alle loro possibilità”), dall’invasività dell’arte nel quotidiano, dal sesso esibito ovunque, dai reality show, dal passato rivissuto come immensa Disneyland. Dalla ”pornografia” del pensiero unico globalizzato come estremo degrado di una cultura, quella occidentale, che aspira a sottomettere tutto all’equivalenza e alla banalità (ricordava volentieri una frase di Heidegger: ”La banalità è il precipizio da cui l’uomo non troverà più redenzione”). Nel 2002, all’indomani dell’11 settembre, con Lo spirito del terrorismo il cerchio si chiude e Baudrillard lancia la sua ultima denuncia: ”L’attentato delle Torri Gemelle è stato l’Evento assoluto che l’Occidente sognava senza ammetterlo”. Un pessimista? ”No - rispondeva -, sono un nichilista, perché il sistema è nichilista, ha annientato tutto. Ma è una situazione originale: solo, bisogna affrettarsi in modo da avere il tempo di vedere la conclusione. Personalmente mi sento già un po’ al di là della fine”» (Paolo Di Stefano, ”Corriere della Sera” 7/3/2007) o «Sebbene lo si identifichi ge- neralmente con il nome e l’opera di un altro grande maestro del pensiero francese, e cioè con Jean- François Lyotard, il postmoderni-smo deve forse di più alla riflessione di Jean Baudrillard, già professore a Nanterre nel periodo epico della rivolta studentesca del 1968. A quella rivolta e allo spirito di quell’epoca, Baudrillard rimase in fondo sempre fedele, e i suoi rapporti con il movimento comunista e il marxismone furono sempre segnati, nei termini di una costante polemica contro il burocratismo stalinista del Pcf dell’epoca e poi nello sforzo costante di integrare il marxismo in una visione più radicale della storia e della società. Nato nel 1929 a Reims, Baudrillard studiò a Parigi e nel 1966 era assistente di Lefèbvre, maestro di una sociologia critica della vita quotidiana che sarebbe sta- ta sempre una del- le tematiche favori- te di Baudrillard. Degli Anni Sessanta e dei primi Settanta sono le opere più significative, che lo resero presto molto popolare presso l’intellighenzia europea e americana (secondo alcuni, anzi, più nel mondo latino-americano e anglosassone che nella stessa Francia). La ricchezza e originalità del lavoro di Baudrillard consistette, allora come più tardi, nel mettere a frutto da un punto di vista di critica sociale molte delle idee dello strutturalismo francese, che presso altri autori apparivano piuttosto come un semplice metodo di descrizione della nuova realtà sociale del mondo tardo- capitalistico. Da Il sistema degli oggetti (1968) a La società dei consumi (1970) Baudrillard sviluppa un discorso che, ispirato a un marxismo niente affatto ortodosso, vede nel crescente spossessamento del soggetto, ridotto a consumatore ossessivo delle merci che il sistema produttivo getta sul mercato, il vero senso della società attuale e dell’alienazione da essa indotta. Quello che per lo strutturalismo era la centralità e la quasi indipendenza del mondo dei segni - giacché anche il significato delle parole, per Saussure, è solo risultato di un sistema di differenze interne alla lingua, e non di un diretto riferimento alle cose - diventa per Baudrillard la realtà stessa nella quale non conta più tanto il valore d’uso degli oggetti e nemmeno il loro valore di scambio. Queste due categorie sono proprie di un marxismo ancora prigioniero della logica della produzione, intimamente compromessa con il capitalismo. Andando oltre queste categorie del valore, Baudrillard si ricollegava anche agli studi del sociologo americano Thorstein Veblen, che aveva messo l’accento sul valore delle cose come status-symbol, come simboli di differenziazione sociale molto più che come strumenti o come moneta di scambio; e riprendeva soprattutto la teoria dell’economia generale come l’aveva proposta Georges Bataille, che, contrariamente a tutta la tradizione classica che la fondava sulla penuria, poneva al centro l’idea di spreco, di consumo eccessivo come manifestazione di vitalità e di sovranità del soggetto. Si andava costruendo così in Baudrillard un’idea di società che lo collocava di fatto tra i pensatori più significativi della post-modernità. Come si sa, il postmoderno era cominciato con Lyotard quando si erano dissolti i ”metaracconti”, cioè le grandi visioni ideologiche della realtà ridotta a principi supremi che permettevano di spiegare tutto: marxismo, idealismo hegeliano, positivismo, metafisi- che di carattere religioso. Questi metaracconti erano caduti di fatto con la fine dell’eurocentrismo e degli imperi coloniali, le altre culture avevano preso la parola, ognuna con il suo modo di ordinare e spiegare la storia. Non c’è più, lo dice Baudrillard ma in fondo lo pensava anche Lyotard, un mondo ”reale” in base a cui criticare i ”racconti” o stabilire la verità vera. Il mondo dei segni è il solo dentro cui ci muoviamo, e naturalmente è un mondo molteplice. Ma quale criticità è ancora possi-bile, allora? Baudrillard rimane fedele alla sua ispirazione ”rivoluzionaria” d’origine; anche se non condivide più la filosofia della storia marxista, pensa tuttavia che una forma di resistenza al dominio - che ora si esercita anche e soprattutto nel mondo dei segni, nel determinare l’immaginario collettivo, i desideri e i bisogni - sia possibile, nella forma di una resistenza all’imporsi univer- sale della logica della produzione e del consumo. Le opere del Baudrillard maturo, soprattutto Lo scambio simbolico e la morte (1976), e poi Strategie fatali (1983), L’illusione vitale (2000), Il Delitto perfetto (1994) tendono però ad accentuare gli aspetti pessimistici della sua filosofia. Il mondo dei segni diventa sempre più quello in cui tutte le forme di lotta e di contrasto storico si dissolvono in una sorta di iperrealtà che somiglia al mondo virtuale dei calcolatori, come se la storia fosse davvero finita - e del resto Baudrillard la considera in certo senso terminata con la fine dell’Unione Sovietica e la caduta del Muro di Berlino. Ciò che resta tuttavia sempre irrisolto nel suo pensiero - e ne costituisce la ricchezza e la proseguibilità anche nella situazione attuale della filosofia e delle scienze sociali - è il problema se la ”perdita” della realtà a favore dell’iperrealtà del mondo dei segni, o di quelli che egli ci ha insegnato a chiamare i ”simulacri”, sia davvero solo un fatto di alienazione o anche un possibile modo di liberazione. Come forse il Baudrillard marxista eterodosso dovrebbe essere incline a pensare» (Gianni Vattimo, ”La Stampa” 7/3/2007).