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 2002  febbraio 13 Mercoledì calendario

Bene Carmelo

• Campi Salentina (Lecce) 1 settembre 1937, Roma 16 marzo 2002. Attore. Regista. Nel 1959 debutta come protagonista in Caligola di Camus. Viene battezzato l’enfant terrible della cultura italiana. Nel ”60 a Bologna allestisce il suo primo spettacolo-concerto dedicato a Majakovskij. Nei primi anni ”60 fonda il Teatro Laboratorio presentando la sua versione di classici come Amleto, Faust, Don Chisciotte. il 1966 quando scopre Antonin Artaud e il suo Teatro della crudeltà. Nello stesso periodo comincia il sodalizio artistico-sentimentale con l’attrice Lydia Mancinelli. Nel 1967 approda al cinema interpretando Creonte nell’Edipo Re di Pasolini. Nel ”68 firma la regia di Nostra Signora dei Turchi che vince il Premio speciale della Giuria al Festival di Venezia. Fra il ”68 e il ”74 esce dalle cantine e raggiunge i grandi teatri con Don Chisciotte, La cena della beffe con Proietti, e S.A.D.E.. I secondi anni Settanta sono dedicati alla rivisitazione dei classici shakespeariani. Negli anni Ottanta, è quasi considerato un guru, e le sue intemperanze caratteriali cominciano a far saltare gli spettacoli. I 4 by-pass preoccupano i fan, mentre lui litiga spesso con i critici e con la moglie (l’ex Miss Italia Raffaella Baracchi). A fine anni ”90 è sul palco con recital su Campana, Leopardi, Dante. ”Tra i più aggressivi e discussi registi italiani della seconda metà del 900, ha sempre diretto se stesso, attore onnivoro della scena, il suo universo. Al centro di questo, si è fatto il vuoto come un Prometeo che non dona il fuoco ma se lo tiene, l’ex studente (incompiuti gli studi universitari) in scena già a 22 anni, autorizzato da Camus a rappresentare a suo modo il Caligola; l’ostinato solitario della torre di Otranto (di cui rifiutò la cittadinanza); il titano morente, bianco e pur minaccioso come gli eroi di un fregio greco, o di quella Magna Grecia che gli diede i natali, nel ”37. Opera sterminata, la sua (come ha mostrato la recente Beneide di Torino, materiale audio e video in gran parte inedito): accanto ai 5 film, di cui il primo Nostra Signora dei Turchi ha il premio speciale della Giuria a Venezia nel ”68, tanti e unici (pur negli auto-remake) gli spettacoli di teatro: da Pinocchio a Otello a Hamlet Suite, Don Chisciotte, La cena delle beffe, Lorenzaccio. A leggerne i titoli pare di sentirne sotto pelle voce e gesti, la ”foné” incarnata. Carmelo Bene ha nutrito di sé anche la cronaca. Da Sono apparso alla Madonna , titolo di un’affascinante autobiografia dell’83, al ”Dio non esiste” con corollario del ”Papa non conta nulla” in diretta Raidue 15 anni dopo, corrono, sulla via della parola scritta o della parola parlata, sulla carta o in video, gli strali ”teologici” di Carmelo Bene. Prima, durante e dopo, a venir colpito, schiaffeggiato è il resto dell’universo: dal teatro alla politica; dai funzionari ad alcune delle numerose, bellissime partner di scena o di vita, da Lydia Mancinelli a Raffaella Baracchi. ”Colleziono insulti sin da ragazzo, non ho fatto che subire insulti innominabili, offese”, disse, e non per vittimismo, ma per chiarire la ”nobile funzione del critico, un individuo losco, occhialuto, che siede al buio, odia quello che fa”. Definì il suo ”un nome da preghiera”, seguito da altri quattro (’per fortuna mio padre fermò mia madre”), ma fu sempre contro, contro tutti. Dopo i ”Capricci” del ”69 al Festival di Cannes, il primo bersaglio è il teatro (’mezzo di corruzione”, ”bazar di servi”), l’avanguardia, gli Stabili, il pubblico (’un bacio, uno sputo, un calcio nel culo: trovo che siano tutti atti d’amore”) sempre più su, verso l’autore: ”Per fare Shakespeare bisogna esserlo. IO SONO Shakespeare”, ”io sono il più grande Amleto del mondo”. Negli anni ”80 e ”90 si scaglia contro l’umanità dal salotto di ”Mixercultura” di Minoli o dalla poltrona della Biennale di Portoghesi, rotolata dietro allo scandalo dei disegni del Bafometto di Klossowski del cui furto Bene fu clamorosamente accusato. contro la comunicazione, contro la parola e per la voce ”che è parola disfatta”, come pensava Artaud. Nel ”96 attraverso il ”Laureato” di Chiambretti, dall’università di Lecce si scaglia contro la scuola ”palestra dell’ozio”, poi contro Fo ”immeritevole del Nobel”, quindi - dopo la difesa del film di Ciprì e Maresco Totò che visse due volte - sfregia la stampa ”bugiarda”. A lui ”già un classico perché vivo nell’eternità, sono eternamente vivo” (Claudia Provvedini, ”Corriere della Sera” 17/3/2002). ”Uomo dalle mille facce, è il bengala che ha mandato in frantumi il rito teatrale, ha sconvolto la nozione di attore fino a sublimarla nella ”macchina attoriale”, ha triturato il testo e bandito i ruoli (’che sciagura il teatro a due teste e a due sessi”). Con violenza e tenerezza, si è autoconsacrato ”classico”, istigato dalla pubblicazione dell’opera omnia presso Bompiani. Ma già prima, già allo scadere degli anni ”60, l’aspirazione al classico cominciava a scalpitare dentro di lui com’era accaduto a Minerva nella testa di Giove. Premonizione? Carmelo ha percorso l’accidentata strada dell’arte che, partendo dagli sfolgorii della sensibilità barocca, lo ha portato alla cancellazione di sé. Ha faticato, ha provocato, ha attraversato il grande repertorio: la Salomé di Wilde, l’Amleto di Laforgue ribattezzato Hommelette for Hamlet, Pinocchio, Adelchi, il Lorenzaccio di De Musset. Ha affrontato Marlowe, di gran lunga preferito a Shakespeare. Si è reincarnato nei poeti: Majakovskij, Leopardi, Dante, Campana offerti con una sonorità sconvolgente e con un’esplosione di decibel che ha alla radice i tormenti estetici di un altro meraviglioso folle: Artaud. Un lavoro enorme e coerente, scagliato come un sasso verso l’autocancellazione. Normale per chi, invece di essere nato, dice di essere stato abortito e, aiutando alcol, fumo e bypass cardiaci, ammette (simbolicamente) di essere morto più volte. […] Normalmente si dice che il cinema è una parentesi nel lavoro di Carmelo Bene. In un certo senso, è vero. Comincia nel ”67. Chiamato da Pasolini, va nel deserto marocchino di Quarzazate per le riprese di Edipo Re e soprattutto ”per tirar su un po’ di fondamentale denaro”. E’ l’accensione di una miccia. Carmelo capisce che il cinema può diventare una sorta di quadro in movimento. Tornato a Roma, gira Hermitage. E’ il suo primo cortometraggio a colori, tratto dallo spettacolo teatrale Credito italiano. Lo realizza totalmente in una suite dell’Hotel Hermitage. Da quel ”67 al ”72 sono cinque anni di furore iconoclasta che mettono a soqquadro il cinema italiano. Nascono Nostra signora dei turchi, Capricci, Salomè, Don Giovanni ispirato a Barbey d’Aurevilly, Un Amleto di meno. Oltre a questi, Carmelo realizza documentari e partecipa alle pellicole altrui, per esempio a Umano non umano di Mario Schifano. Produttore di se stesso, scenografo, regista, attore, Carmelo Bene gira i propri film a basso costo e in tempi brevissimi. Quella che sembra un’attività marginale, acquista invece una forza enorme. Infatti è col cinema che Carmelo ottiene risonanza internazionale. I ”Cahiers du Cinéma”” scrivono che la sua è ”la sola risposta europea all’underground e al new cinema americano”. Arrivano i premi delle giurie, a Venezia e in tutto il mondo, spesso ”soffiati” ai colossal americani. Cinque anni di fuoco, una vera corrida combattuta in apnea. Dopo di che, all’aprirsi degli anni ”80, Carmelo torna al teatro e al suo destino di classico vivente” (Osvaldo Guerrieri, ”La Stampa” 7/2/2002). ”Nella leggenda di Carmelo Bene c’è la sua spudoratezza, la sua sfrontatezza. Ma non era un tratto del carattere. Era un elemento della poetica. Con lui non c’erano vie di mezzo e astensioni possibili: o lo si subiva o lo si osannava. Non a caso, celeberrimi sono i suoi match e i suoi rapporti artistici. Ennio Flaiano lo amò moltissimo. Molto lo amò Alberto Arbasino. Tra i critici, divenne il suo esegeta e trovò la propria caratura, confrontandosi con lui, Maurizio Grande. Ricordo infine Gilles Deleuze. Gli scritti del filosofo francese sono la consacrazione del significato non solo italiano dell’opera di Carmelo. D’altra parte, la storia comincia in ben diverso modo. In una cantina romana, Carmelo Bene fece pipì addosso a uno spettatore eccellente, il critico Paolo Milano. Era un segno di distacco, di disinvoltura, di rottura con la tradizione, anche nei comportamenti sociali e cerimoniali. Qualche anno dopo mi sfidò a duello. Avevo scritto qualcosa di sgraziato a proposito del suo ritorno sulle scene, che aveva abbandonato per il cinema. Era il 1974. Ma il duello di Carmelo con la critica continuò fino agli anni Ottanta. Prima degli spettacoli faceva annunci terrificanti. In una trasmissione televisiva aggredì Guido Davico Bonino e Giovanni Raboni in un modo tutt’altro che teatrale. Era serissimo, non cercava una pubblicità per se stesso, si comportava in modo conseguente. Ma il problema è proprio questo: conseguente a che cosa? O, detto in altri termini, che cosa ha rappresentato Carmelo Bene nella storia del teatro italiano? Vorrei dirlo in modo succinto e schematico. Primo: la rottura con la tradizione, cui ho già accennato; con ogni tipo di tradizione e di convenzione interpretativa. Secondo: il rovesciamento dell’idea di rappresentazione. Ciò che importa non è la rappresentazione di un testo, la sua messa in scena, ma la presenza dell’attore in quel luogo, in quel momento. La presenza contro la rappresentazione. Terzo: ribaltando il primato del testo, considerato idealistico, a favore dell’attore, vi è nel teatro un nuovo primato, di tipo per così dire materialistico, o esistenziale. Ciò che importa è, in uno spettacolo, quanto avviene lì, sulla scena, dunque l’interpretazione, l’atto critico. L’atto critico non è più un atto critico, ma un atto creativo. Quarto: da tutto questo scaturisce la centralità nuova del corpo; ovvero, nel caso di Carmelo, della voce, che lui chiamava foné. La foné è tutto: è il senso, il nuovo senso di cui lo spettatore è nuovo e ultimo interprete, o infinito interprete: vi sarà sempre un altro spettatore, vi sarà sempre un’altra interpretazione. Che implica un quinto punto: il senso di un testo, di uno spettacolo, non sarà mai più come prima; mai più vi sarà, del senso, una pienezza. L’interpretazione non fu mai da Carmelo Bene rivolta, come in tanta avanguardia, allo svelamento degli orrori (morali) che si celano dietro le apparenze (estetiche) della realtà testuale. La sua idea fu che dietro ciò che appare non vi è nulla. Dunque alla pienezza del senso del teatro classico, in Carmelo Bene succede lo svuotamento del senso del teatro che sempre ci sarà contemporaneo. Ho ricordato il rapporto di Carmelo Bene con i critici. Vi fu un rapporto conflittuale, inutile dirlo, inutile ricordarlo, anche con i colleghi. Egli non lesinava critiche, osservazioni maliziose, sfottò. Memorabile lo scontro con Vittorio Gassman, che si svolse fisicamente all’Argentina di Roma. Pure, quello scontro non fu un match tra due mattatori. Gassman ovviamente un mattatore lo era, lo fu fino in fondo. Carmelo Bene fu il contrario di un mattatore. In scena poteva essere solo, solissimo, ma noi spettatori che cosa ne percepivamo? Non già il dominio (della scena); non già la prepotenza; non già la volontà di controllo. Noi, di quella sua presenza, percepivamo la debolezza, la lotta con lo spazio o con il testo, la solitudine. Carmelo Bene che nella vita non fu mai solo, che temeva la solitudine in modo straordinario, come mi apparve quando lo incontrai, in una vigilia di Natale, fu l’artista più desolato e solo che abbia avuto il nostro teatro” (’Corriere della Sera”, 17/3/2002).