Varie, 13 febbraio 2002
BENTIVOGLIO
BENTIVOGLIO Fabrizio Milano 4 gennaio 1957. Attore. David di Donatello per Testimone a rischio (1997) e, come non protagonista, per Del perduto amore (1999) • «Dopo aver studiato nel 1976/77 alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, esordisce nel 1978 con due spettacoli, Timone d’Atene, regia di Carlo Rivolta, e La Tempesta, regia di Strehler al Piccolo Teatro di Milano, che lo rivelano immediatamente come uno dei più duttili e dotati attori della nuova generazione. Nel 1979 recita al Teatro Quirino di Roma ne I parenti terribili di Cocteau, diretto da Franco Enriquez e l’anno dopo è sempre nella capitale, all’Eliseo, in Prima del silenzio con la regia di Patroni Griffi. Seguono L’avaro (1981), regia di Mario Scaccia e, ancora sotto la direzione di Patroni Griffi, Gli amanti dei miei amanti sono miei amanti (1982), Metti una sera a cena (1983) e D’amore si muore (1985), tutti testi del regista. La sua ultima fatica teatrale è Italia-Germania 4-3 (1983), di Umberto Marino, regia di Sergio Rubini, lavoro che interpreterà anche sul grande schermo nel 1989» (Dizionario dello Spettacolo del 900, a cura di Felice Cappa e Piero Gelli, Baldini&Castoldi 1998) • «[...] è un attore bravo. Bravo perché recita bene, ma anche perché sceglie con attenzione cosa fare, lavora con persone che stima e a cui vuol bene, partecipa, se può, alla creazione del personaggio, si impegna con onestà nella messa a fuoco di un ruolo che vorrebbe fosse eseguito ”a regola d’arte”, secondo la formula che usavano un tempo gli artigiani e che oggi gli piacerebbe fosse messa alla fine dei film, tra i titoli di coda. Per lui meglio poco ma buono, che tanto e sciatto. E tempo, molto tempo, perché si riesca ad esprimere esattamente ciò che si vuole. [...] carriera tra teatro, cinema e musica, con autori come Salvatores, Placido, Soldini, Muccino, in pellicole selezionate con cura come Turnè, Un’anima divisa in due, Del perduto amore, Ricordati di me»[...] quello sguardo lontano che aveva fatto sognare le ragazzine ai tempi di Marrakesh Express [...] ”[...] negli anni Settanta, quando ho cominciato, c’erano i grandi film di autore altamente impegnati e le commediacce da ridere, altamente volgari. O i capolavori o le stronzate. Per noi giovani attori che avevamo studiato recitazione e facevamo teatro, trovare uno spazio era durissimo perché vigeva il pregiudizio che parlassimo col birignao e quindi non potessimo far cinema. Abbiamo ricominciato a fare qualche buon film alla fine degli anni Ottanta, quando i giovani registi hanno smesso di raccontare solo se stessi e hanno ripreso a pensare che un film si fa perché il pubblico lo veda. Altrimenti non esiste”. Che criterio usa per scegliere un film? ”L’amicizia con l’autore. L’amicizia è un sentimento delicatissimo che il lavoro in comune possono sciupare, specialmente sul set dove in tre mesi succede quello che nella vita accade in trent’anni. Ma per me è indispensabile perché un film è soprattutto l’opera di un regista. lui che lo pensa, lo scrive, lo dirige, lo monta. Un film può venir bene solo se l’autore non può far a meno di farlo, se ha l’urgenza di comunicarci qualcosa. Altrimenti è inutile [...] Il cinema industriale americano non mi piace [...] Ho girato in America due pellicole indipendenti di James Merendino, ma, come diceva Anghelopoulos, niente è più internazionale del nazionale [...] Siamo il contrario dei francesi: loro sono sciovinisti noi disfattisti: non crediamo nelle nostre cose [...] non faccio televisione. Io ho bisogno di molto tempo per lavorare bene, e la tv non concede tempo. Non mi piace la popolarità: vorrei non esser riconosciuto per strada. Detesto le interruzioni pubblicitarie che obbligano a un linguaggio semplificato. No, finché posso, non faccio la fiction. Non mi interessa”» (Simonetta Robiony, ”La Stampa” 25/1/2006) • « il ”più attore” di tutti. Dalle avventure tardoadolescenziali di Salvatores alla trattenuta passionalità di Soldini, dagli spacconi simpatici (Americano rosso) o antipatici (La scuola) ai personaggi borghesi o aristocratici ribaltati dall’inquietante prete di Pianese Nunzio. Una impressionante varietà, non comune in una generazione che ha invece abusato della ”verità” autobiografica”» (P.d’A) . «[...] Questo è un lavoro che, se maneggiato male, può portare alla follia. Quindi bisogna trattarlo con la giusta attenzione. Gli attori sono molto fragili, anche se in certi momenti diamo l’impressione opposta [...] Il mio rapporto con la critica? Difficile, al limite dell’inutilità. Credo che fare il riassunto di un film e poi, nelle ultime due righe, dire se è bello o brutto, sia un lavoro piuttosto inutile. Mi sembra un’attività di servizio, ma di servizio basso [...]» (Fulvia Caprara, ”La Stampa” 19/1/2005) . «[...] incarna la figura dell’artista di sinistra che ”si dà le arie”: quando andò a Porta a porta per il lancio di Ricordati di me di Gabriele Muccino aveva l’aria disgustata, di uno che era stato trascinato in catene... ”So di non avere un’immagine simpatica, forse presuntuosa, e non mi pongo il problema di smentire, anche se ritengo di essere più simpatico di come vengo percepito. vero che a Porta a porta sono stato costretto ad andare: ero fuori posto, imbarazzato. Non mi pongo molto il problema [...]”» (Paolo D’Agostini, ”la Repubblica” 22/2/2006) • «[...] Nato a Milano ma presto adottato dalla capitale [...] uomo ombroso e suo malgrado bello [...] nato in teatro (il debutto risale al ”78), cresciuto alla scuola del Piccolo, toccato per sempre dall’incontro con grandi come Romolo Valli, Giorgio De Lullo, Lilla Brignone. [...] ”Ho fatto la scuola del Piccolo a 19 anni e l’immagine che ho di me allora, ripensata oggi, è quasi imbarazzante. Mentre noi eravamo chiusi al lirico con Strehler, alla Statale succedeva di tutto: fuori gli scontri e dentro noi che, al buio totale, ascoltavamo il Maestro che dissertava sulla seta fatta arrivare apposta dalla Cina per simulare le onde del mare. Voglio dire che, pur essendo contemporaneo di certe vicende, non posso certo affermare di averle vissute da protagonista: la coscienza politica è venuta dopo [...] Per un uomo, così come per una donna, essere considerato bello può essere fastidioso e limitante: una certa fisicità finisce per inquadrarti in un certo ruolo, quello che in teatro si chiama ”l’attor giovane’. Per tutta la vita ho remato contro questo cliché, convinto che potesse in qualche modo restringere il campo delle mie possibilità [...] la bellezza è transitoria, dipende da tante cose, da come si è dentro, da come ci si sveglia la mattina: se è una bella giornata e si sta bene, magari ci si può anche sentire belli, sè anche a me può capitare di ”essere’ bello... Così come mi succede di conoscere persone molto ”belle’ che secondo i canoni classici non lo sarebbero affatto” [...]» (Fulvia Caprara, ”Specchio” 2/5/1998).