varie, 13 febbraio 2002
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Benzi Oreste
• San Clemente (Rimini) 7 settembre 1925, Rimini 2 novembre 2007. Sacerdote. «[...] una sera il papà arrivò un po’ più tardi del solito: s’era fermato ad aiutare un’auto scivolata con due ruote nel torrente in piena vicino San Clemente, paesino dell’entroterra riminese. Entrò a casa, e sistemò la sua bicicletta raccontando subito quel che era successo, ma soprattutto spalancando gli occhi di gioia nel dire, in dialetto romagnolo, che poi l’uomo alla guida, uno dei proprietari terrieri della zona, ”mi ha stretto la mano!”. Quella sera Oreste era un piccoletto, sveglio, che aveva otto anni: ”M’impressionò il suo racconto. Ma capii molto tempo dopo, nella mia giovinezza, perché quel gesto colpì tanto mio padre da fargli ricordare solo più tardi anche le due lire di ricompensa ricevute per il suo aiuto: lui apparteneva a quella massa di uomini e donne che credono di non valere nulla tanto da chiedere quasi scusa di esistere. Quando lo realizzai, decisi che nel mio sacerdozio avrei scelto di essere al fianco di coloro che pensano di non essere niente”. E non è più tornato su quella scelta. Anzi. [...] ”[...] sono convinto che il Signore ha un progetto per ognuno di noi e io ho cercato sempre di rispondergli sì. Ho cercato insomma di non perdere mai la... coincidenza con Dio che viene” [...] don Oreste ha la tonaca lisa, dorme qualche ora per notte e spesso in macchina, è sempre in giro ad aiutare prostitute e tossici e sbandati [...] Ha l’anima, la passione, l’entusiasmo di un ragazzo. Forse il cuore, anche. Sicuramente la capacità di inventare solari pazzie che sulle prime fanno sorridere, poi cambiano dentro. E spesso disturbano gli osservatori benpensanti che giudicano il mondo dalla loro rassicurante finestra. Immaginate i cupi bordelli di Chisinau, la capitale moldava. Oppure, più vicina, la statale che da Rimini va a Ravenna: ragazze sotto la luna o la pioggia in minigonna, trucco pesante e tristezza lungo il ciglio della strada, una ogni cinquanta o cento metri. Immaginate, alle tre di notte, questo prete che scende da un’auto sorridendo e portando fra le dita cinque o sei Rosari, che si avvicina. Immaginate loro che scappano ridendo sguaiate e poi invece gli si fanno intorno, chiacchierano insieme e, prima di tornare al loro ”lavoro”, prendono un biglietto con il telefono dell’Associazione scritto a penna e poi gli chiedono, dolcissime, una Coroncina di quelle che tiene fra le dita. E lui, risalendo in macchina, che ti sussurra ”vedrai, qualcuna domani chiamerà e la tireremo fuori da qui”. [...] Il mio ricordo più brutto, o forse solo più pauroso, è quando un ”magnaccia’ mi puntò la pistola sul viso - racconta - ma poi è andata a finire bene”. I più belli sono due [...] ”quando andammo con la comunità in udienza da Giovanni Paolo II”, l’altro molto più antico, per il quale bisogna fare nuovamente un salto indietro nel tempo e a San Clemente, il paesino dov’è nato. ”Avevo quasi otto anni e la mia maestra, Olga Badani, un giorno ci parlò così bene degli scienziati, dei pionieri e dei sacerdoti che io tornai a casa dalla scuola e dissi a mia madre ”mamma, io diventerò prete’. Da allora la gioia di esserlo mi è rimasta sempre la stessa e proprio come quella di un bambino!”. [...] Era famiglia molto povera, quella di don Oreste: papà operaio (che ”non sempre aveva lavoro”), mamma e lui, settimo di nove figli. Entra nel seminario di Rimini nel 1937, quando ha dodici anni, e dopo altrettanti ne esce sacerdote, ordinato il 29 giugno 1949. Ed è nel 1968 che nasce la prima casa famiglia dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, fondata insieme ad altri sacerdoti e diversi volontari. ”I momenti peggiori della mia vita sono quando vedo una persona disperata: mi sento impotente, piccolo, una nullità di fronte a loro. Allora però cerco di aiutare quella persona e metto tutto nelle mani della Madonna”. La fede di don Oreste è inscalfibile. la certezza che spinge a muovere la sua meravigliosa ”follia” per amore degli altri. ”Credo che tutta la nostra vita è immersa nell’Amore del Signore. Lui, come ogni papà, vuole farci partecipi del suo sogno per noi, che è anche progetto di salvezza”. [...]» (Pino Ciociola, ”Avvenire” 7/9/2005). Impegnato nel recupero delle prostitute, sogna «un esercito di clienti pentiti pronti a combattere» e nell’attesa propone di punirli come gli sfruttatori (vedi il libro Prostitute): «La responsabilità del mercante di schiave, dello sfruttatore, è nota a tutti. Quella del cliente, invece, è sottovalutata. Andare con una donna di strada? Lo fanno tutti, cosa c’è di male? Invece il cliente, come il mercante, merita l’inferno […] Io queste ragazze le vedo, le raccolgo, le consolo. Sono brandelli di donne, alcune non ce la fanno più nemmeno a parlare. Una corrente di stampa e di giustizia sostiene ancora che è il mestiere più antico del mondo. Eh no, signori, il mestiere più antico del mondo era fare la casalinga» (Stella Pende, ”Panorama” 12/4/2001). «I clienti delle prostitute non hanno la minima idea di quanto lo fanno soffrire. Pazzo di Dio come il suo predecessore Francesco, di cui è stato detto che ”de toto corpore fecerat linguam”. Allo stesso modo, lui si esprime con ogni parte di se stesso. Il mistero dell’iniquità lo sperimenta sul suo corpo. Le lacrime del mondo le sente sulle guance sempre arrossate. I peccati dei fratelli gli fanno aggrottare le sopracciglia foltissime, ”bambine di 14 anni! creature indifese!”, gli deformano la bocca in una smorfia di dolore, ”cose innominabili! performance bestiali!”, gli fanno pulsare le tempie, ”deviati! frustrati!”, portare le mani alla fronte, ”schiavi della genitalità!”, rovesciare lo stomaco, ”milioni di maschi famelici!”, sbattere le ginocchia, ”dieci milioni di maschi famelici!”. ”Ma se sapessero. Se sapessero quanto li prendono in giro, le donne che credono di comprare. Se i clienti sentissero le nigeriane quando parlano di loro. Ridono. Tanto non sentono niente: sono quasi tutte escisse. Ogni tanto spunta uno a dire: quella ragazza mi ama. Tutte balle! Le nigeriane non si innamorano mai dei clienti italiani. Li considerano mezzi uomini. Incapaci di soddisfarle. Piccolini, ecco”. Lui è invece uomo straordinariamente virile. Come può esserlo solo un prete puro e ardente di 77 anni. Infatti le donne lo adorano, quanto lo odiano gli sfruttatori. ”Dica pure magnaccia. Solo a Rimini ne ho fatti arrestare 150”. Le nigeriane lo chiamano babu, nonno. […] Poi ci sono albanesi, moldave, romene. Una piccola parte delle 4 mila che ha tolto dalla strada, delle 650 che vivono ancora nascoste nelle case d’accoglienza, al riparo dal racket che le cerca. […] Ha una media di 7 ragazze riscattate o almeno contattate per notte. […] Non è facile. ”Le ragazze scappano. I magnaccia usano una tecnica che dopo 20 giorni di torture le soggioga del tutto”. La sua tecnica è questa. Sorride. Parla inglese. Offre aiuto. ”Vieni via, io ti proteggerò”. Lascia un rosario e una Bibbia, di cui possiede una scorta in più lingue. Chiede il numero di cellulare. Chiama. Dà appuntamenti. Torna. Le nasconde sotto il cruscotto, tra i sedili. Trova casa, lavoro. Prende contatto con poliziotti, questori, sindaci. Riceve minacce di morte dagli sfruttatori. Insulti dai clienti. Alcuni li contatta, li converte. Organizza riunioni di pentiti. Li studia. Cerca nella radice dei loro peccati lo stesso ardore della sua santità. Predica: ”Ogni donna è una madonna. La donna è tempio del Signore. sacra. Guai a chi la profana!”. […] Famiglia operaia, settimo di 9 figli, in seminario a 12 anni, sacerdote a 24. Gioventù cattolica a Rimini, ”terra di battaglia”. ”Nel ”58 decido di fondare una Casa per ragazzi sulle Dolomiti. Parto per l’America a raccogliere elemosine. Giro le fabbriche: 10 cents, mezzo dollaro per operaio; poi il direttore ferma le macchine, ci mettiamo in ginocchio, ”and now the father will bless us’”. […] ”Raccolsi 10 mila dollari. Il resto me lo diede il cardinale di Boston, Cushing, l’amico dei Kennedy. Costruii la casa. Fondai la comunità Giovanni XXIII. Cominciai ad accogliere handicappati, barboni, orfani, alcolisti”. Tra i pazzi di Dio che danno un’anima alla politica e alla società italiana, tra i sacerdoti di strada e di battaglia, è il fondatore. Oggi la sua comunità ha centinaia di case-famiglia con migliaia di ospiti, 32 centri per tossicodipendenti, missioni in Africa, Asia, Sud America, 17 squadre per il recupero delle prostitute. ”La prima l’ho incontrata nell’87, alla stazione di Rimini. Dimostrava settant’anni, ne aveva quaranta. Mi ha detto: ”Padre, neanche lei? stasera bastano 10 mila lire’. Le ho risposto: ”Te ne do 20 mila, però dormirai in un letto, non qui’. Poi cominciò l’invasione dall’Est. I marciapiedi pieni. E noi inventiamo il metodo Rimini. Poliziotti specializzati. Retate. Il principio base è: le ragazze portate in questura non devono tornare sulla strada. Possono denunciare gli sfruttatori. O essere rimpatriate. Nessuna ha documenti. Tutte schiave”. Non è uomo di mediazioni. La sua carità è ardente, nell’amore come nel disgusto per il male. La sua legge ideale è composta da tre soli articoli: ”Primo: punire chi chiede rapporti sessuali a pagamento. Secondo: punire i criminali che li offrono. Terzo: chiudere i locali”. Praticamente l’abolizione. Esperimento tentato una volta sola, dall’estrema sinistra, nella Barcellona anarchica del ”36, che sognava di riconvertire le prostitute in sarte e le ritrose in donne libere. […] di solito classificato a destra, forse anche per via della tonaca nera Anni 50; di una certa idea del prete conserva in effetti gesti e immagini, ed è bellissimo vederlo benedire ieraticamente un camogli con cotto e maionese all’autogrill di Valdastico Est. Eppure cita di continuo Martin Luther King, Rousseau, De André, che sulla prostituzione aveva idee diverse. stato in Chiapas e ad Acteal, sulla tomba degli indios massacrati dai paramilitari, ”ho celebrato una delle tre messe più belle della mia vita. Le altre sono state quella nella parrocchia di don Puglisi e quella con padre Pio”. Dice frasi da profeta e altre da sociologo marxista: ”Non è vero che la prostituzione è il mestiere più vecchio del mondo, è l’ingiustizia distributiva più vecchia del mondo. Ai poveri portiamo via tutto, i beni, i bambini da adottare, le ragazze da sfruttare. Vergogna!”. Dice che ”la devozione è importante, ma noi dobbiamo fare la rivoluzione”. Che non è ovviamente quella del ”68 né quella dei no global, ”che sono ”contro’, mentre noi siamo ”per’. L’uomo nuovo per noi è Cristo”. Ha preso posizioni durissime contro l’aborto e ”contro quei volontari cattolici che alle prostitute portano tè caldo e preservativi. Come a dire: buon lavoro. Vergogna!”. amico di don Ciotti, ”anche se sulla droga non la pensiamo allo stesso modo”, e di don Gelmini, ”grande anima”, di padre Zanotelli e di don Picchi. Con gli altri pazzi di Dio condivide l’idea fondamentale che il mondo così com’è non va bene» (Aldo Cazzullo, ”La Stampa” 5/1/2002).