Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  febbraio 13 Mercoledì calendario

BERGMAN Ingmar Uppsala (Svezia) 14 luglio 1918, Fårö 30 luglio 2007. Regista • «Figlio di un pastore luterano, vive un’infanzia di tensioni familiari

BERGMAN Ingmar Uppsala (Svezia) 14 luglio 1918, Fårö 30 luglio 2007. Regista • «Figlio di un pastore luterano, vive un’infanzia di tensioni familiari. Si laurea in lettere con una tesi su Strindberg, si dedica al teatro, è cacciato di casa dal padre per la relazione con un’attrice. Le esperienze teatrali si intensificano, mentre anche il cinema gli apre le porte, dapprima come sceneggiatore e poi come regista. Di modesto peso gli inizi, frutto della consolidata tradizione psicologistica del cinema svedese. Qualche interesse destano Un’estate d’amore (1951), melanconica storia giovanile, e Donne in attesa (1952), quattro singolari ritratti femminili, ma è soltanto con il drammatico Una vampata d’amore (1953) e con la garbata meditazione sulla fragilità dell’amore contenuta nella commedia Sorrisi di una notte d’estate (1955) che mette a fuoco il suo mondo poetico. Dopo, sarà tutto più semplice e chiaro. L’asprezza di Una vampata d’amore, dove si descrivono le meschine debolezze di artisti del circo, troverà riscontro in Il settimo sigillo (1956), lugubre apologo medievale, in Il posto delle fragole (1957), ricapitolazione affannata di una vita inutile condotta con intenti talvolta sperimentali (una agghiacciante sequenza onirica) e talaltra delicatamente descrittivi (il paesaggio è il centro della visione, come sempre nel regista), in Il volto (1958), premio speciale alla Mostra veneziana, variazione grottesca e angosciosa sui problemi dell’identità, dell’amore e dell’illusione, in La fontana della vergine (1959), terribile racconto di misticismo e di fanatica crudeltà in un Medioevo senza luce (è uno dei suoi film più sinceri), in Come in uno specchio (1961), introduzione tormentata, a tratti convulsa, di una sistematica riflessione sui temi religiosi, che si svilupperà con agio maggiore e una lucidità più ferma in Luci d’inverno (1962) e in Il silenzio (1963). Regista ormai consacrato (La fontana della vergine e Come in uno specchio ricevono in due anni consecutivi l’Oscar per il miglior film straniero), può approfondire i propri temi in piena libertà, come raramente accade a un regista. Mentre prosegue anche un’intensa attività teatrale, e non si nega alle frivolezze polemiche in chiave comica (A proposito di tutte queste signore…, 1964), riprende il suo fondamentale discorso sulla identità e sul conflitto fra l’essere e l’apparire, fra la sincerità e la menzogna, in situazioni differenti ma sempre drammatiche: Persona (1965), L’ora del lupo (1966), La vergogna (1967), Passione (1968). Questa fase della ricerca culmina nello splendido e sconvolgente Sussurri e grida (1972), storia di quattro donne (tre sorelle, una delle quali sta morendo di cancro, e una governante) in un fastoso interno che i colori morbidi di Sven Nykvist assimilano abilmente allo strazio della vicenda. Queste sono le pietre miliari dell’arte bergmaniana. Altre volte il regista ritroverà il gusto sperimentale e il furore narrativo dei momenti migliori – Scena da un matrimonio (1972), Sinfonia d’autunno (1977), Fanny e Alexander (1981) – ma nulla di decisivo aggiungerà al corpus dell’opera. Dal 1976 al 1978 si esilierà volontariamente dal suo paese perché accusato di frode fiscale» (Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del Cinema – Centro grandi registi, Newton&Compton 1995). «A 12-13 anni legge avidamente Strindberg, una relazione che va avanti tutta la vita: ”A volte mi allontanavo da lui, altre volte è stato lui ad allontanarsi da me”. Nel 1934 assiste a diverse repliche di Il sogno messo in scena da Molander: stando dietro le quinte, vede ogni sera gli attori trasformarsi in personaggi e quell’ambigua magia lo folgora per sempre. […] Ancora attivo nonostante i ripetuti annunci di autopensionamento» (Alessandra Levantesi, ”La Stampa” 26/5/2002). «Racconta che nell’isoletta dove vive c’è un cinema dove va regolarmente cinque volte la settimana alle tre del pomeriggio. aggiornatissimo. Con l’aria di parlare del più e del meno butta lì: ”Per lunga parte della mia vita il cinema è stata l’unica cosa che mi desse un po’ di pace, che tenesse lontani i miei demoni […] Ha ragione Antonioni, se hai qualcosa da dire la puoi dire in un film anche maldestro. Oggi vedo registi di grande talento ma nei loro film non c’è necessità, non c’è sostanza”» (Paolo D’Agostini, ”la Repubblica” 26/5/2002).