13 febbraio 2002
Tags : Patrick Berhault
Berhault Patrick
• . Nato a Thiers (Francia) il 19 luglio 1957, morto su una cresta del Taeschhorn (Svizzera) il 28 aprile 2004. Alpinista. «Le aveva scalate in solitaria, concatenate in velocità, percorse al ritmo dei pastori, a piedi, in bicicletta: le montagne delle Alpi le conosceva come le sue tasche ed erano per lui un’occasione inesauribile di emozione e scoperta. Per questo Patrick Bérhault era ritornato, questa volta con Philippe Magnin, per affrontarle in modo nuovo: voleva salire consecutivamente tutti gli 82 Quattromila dell’intero arco alpino, una montagna al giorno, per un tempo complessivo di meno di tre mesi (appunto 82 giorni). Ma mercoledì 28 aprile 2004, verso le 11.30, il sogno della 46enne guida alpina francese si è spezzato, quando ormai era oltre la metà del progetto. Salita la 66ª vetta, si trovava a quota 4400 su una cresta del Taeschhorn (4491 m), nel Vallese svizzero, quando una cornice di neve ha ceduto, trascinandolo con sé per 600 metri. Le condizioni meteorologiche erano pessime. Magnin, che non era legato in cordata con Patrick e non è stato coinvolto nella caduta, ha lanciato l’allarme, ma il peggiorare del tempo non ha consentito ricerche approfondite e ha impedito un intervento immediato. [...] ”Non sono un uomo speciale. Sono solo convinto che l’alpinismo sia libertà e profondo rispetto degli altri”, raccontava. Ed è con questo spirito che, nel ’71, aveva iniziato a scalare, ponendosi dapprima ai vertici dell’arrampicata sportiva e poi dell’alpinismo mondiale, in particolare per i suoi concatenamenti e le sue solitarie, anche invernali. Un’ascesa ininterrotta, la sua, nonostante una gravissima caduta, di ben 800 metri, sulla Nord del Pelvoux, nel ’78. Tra i suoi tanti exploit, citiamo quello dell’agosto ’92 con Fred Vimal nel gruppo del Monte Bianco: in giornata, la – Superintegrale di Peuterey”, ovvero Ovest dell’Aiguille Noire, via Gervasutti all’Aiguille Gugliermina e Pilastro Centrale del Freney. Nell’inverno ’97, in sei giorni aveva realizzato quattro difficili scalate sulle più ardue pareti Nord del Bianco. [...]» (Antonella Cicogna, ”La Gazzetta dello Sport” 30/4/2004). Partito il 27 agosto 2000 da Triglav, in Slovenia, il 29 gennaio del 2001 arrivò a Marguareis, in Francia, completando la traversata dell’arco alpino: 141.863 metri di dislivelli e 22.280 metri di pareti percorse. «Il mio scopo era incontrare gente: ho voluto vedere da vicino la vita dei pastori, fermarmi a chiacchierare con i guardiani dei rifugi [...] Quanti incontri! Sono stati il sale della mia marcia. L’energia che mi aiutava. Al Corno Stella, due pensionati mi hanno aiutato a trasportare tutto il mio materiale alla base della parete. E nemmeno li conoscevo» (’Corriere della Sera” 10/2/2001). «Ha dimostrato al cuore distratto e disincantato del vecchio continente che si può ancora vivere l’avventura sulla porta di casa. Eppure è da oltre vent’anni uno dei grandi alpinisti europei, probabilmente il più grande se si dà un peso all’ecletticità, alla creatività e alla modestia. [...] Appartiene alla generazione che ha seppellito l’eroismo della montagna con l’allenamento e la velocità, spostando il limite dell’arrampicata dal settimo al decimo grado e oltre. Con Patrick Edlinger e Maurizio Zanolla detto Manolo, è stato il primo a danzare sotto gli strapiombi di calcare, non più in lotta ma in armonia con la gravità. Nel film Metamorfosi di Bruno Soldini esce dalle profondità del mare in forma di pesce per involarsi sulle scogliere verticali. Con Jean-Marc Boivin scala in un solo giorno due pareti estreme del Monte Bianco (Aiguille du Fou e Petit Dru), collegandole con il deltaplano e planando la sera su Chamonix per una cena con gli amici. Nel 1980 tenta l’avventura himalayana sul Nanga Parbat, ma rischia la vita per un edema polmonare. Allora torna in Francia e allarga gli orizzonti. Si costruisce una casa nel Massiccio Centrale, insegna l’arrampicata ai bambini delle scuole, inscena spettacoli di ”dance-escalade”, diventa istruttore all’cole nationale de ski et alpinisme, recita con Giuliano Gemma nel film Premier de cordée, disegna vie di pietra sul mare di Montecarlo e sogna cavalcate di ghiaccio sulle Alpi. Nell’inverno 2000-2001 parte dalla Slovenia con pochi amici fidati. Vuole unire in un viaggio simbolico la gente della montagna con i più duri banchi di prova dell’alpinismo contemporaneo, dalla Marmolada all’Eiger, dalle Grandes Jorasses agli Ecrins. Incontra la stagione più nera, con alluvioni e nevicate epocali, ma non molla: 167 giorni di traversata, 142 mila metri di dislivello, 22 mila metri di parete, tutto a piedi o in bicicletta, fino alla spiaggia di Mentone. ”Qualcuno mi ha chiesto se non ero un pazzo a continuare in un inverno così. Posso rispondere come ho sempre risposto: se hai dentro un progetto, un sogno, allora la fatica diventa un piacere. Le vere difficoltà non sono gli ostacoli della vita, ma la nostra incapacità di vivere ciò che vorremmo vivere” [...] ”Vengo da Thiers, un paese nel cuore della Francia. Quando avevo due anni ci siamo trasferiti al sud, vicino alla Costa Azzurra. A tredici anni un professore di inglese mi ha fatto conoscere le Alpi Marittime, poi mi sono iscritto a un corso di escursionismo. L’ultima uscita era il Gelas, ma ci siamo fermati a cento metri dalla cima perché c’era da arrampicare. La domenica dopo sono tornato su con un amico [...] La gente che avevo conosciuto in montagna era gente semplice, entusiasta, sognatrice. Ho intuito la possibilità di un rapporto diverso [...] Poi è venuto il servizio militare, a Grenoble, nei Chasseurs des Alpes. una storia complicata, c’era di mezzo anche una ragazza. Comunque è durata pochi mesi perché ho disertato, sono finito in galera e davanti al tribunale militare. L’obiettivo delle armi non aveva alcun senso per me, era solo uno stupido sfoggio di aggressività. E intanto mi portavano via la vita [...] Appena uscito ho ricominciato ad arrampicare più che mai, avevo il fuoco dentro. Nel 1978 sono andato con un amico ai Trois Dents du Pelvoux, nel Delfinato. Sotto la cima, mancavano pochi metri, si è staccata una placca di neve e abbiamo fatto un volo di ottocento metri fin sul ghiacciaio. Bacino rotto, frattura esposta della rotula, legamenti della caviglia sinistra andati, pneumatorace. Dopo quindici giorni d’ospedale ho firmato per tornare a casa. Con le gambe ingessate ho ripreso gli allenamenti alla sbarra [...] So che l’alpinismo comporta dei rischi, e amo la vita, ma non posso accettare la sicurezza garantita di questa società. Conoscere se stessi, controllare il pericolo, vivere in equilibrio con la natura: questo è il mio alpinismo. Credo sia un bisogno più attuale che mai. L’uomo si riflette nella natura e ritrova la sua dimensione”» (Enrico Carmanni, ”La Stampa” 2/8/2002).