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 2002  febbraio 13 Mercoledì calendario

BERNAB

BERNABÈ Franco Vipiteno (Bolzano) 18 settembre 1948. Manager. Amministratore delegato della Telecom dal 3 dicembre 2007 e già nel 1998-1999 («ho fatto l’ad solo per due settimane, i sette mesi successivi li ho passati a difendermi dall’Opa»). Presidente di FB Group, consigliere Petrochina. Ex amministratore delegato dell’Eni (1992-1998), ex capo della Biennale di Venezia (2002-2003), ex vice presidente di Rothschild Europe (dimissioni al ritorno in Telecom) ecc. • «Je ne regrette rien”. Franco Bernabè può canticchiare il celebre ritornello che Edith Piaf dedicò alla Legione straniera. ”Rien de rien”, nemmeno di non aver difeso Telecom giocandosi fino all’ultimo dollaro: avrebbe sepolto l’azienda nei debiti, sotto quella montagna di carta che la madre di tutte le scalate ha rovesciato prima sulla gestione Colaninno poi su Tronchetti Provera. E lui, profeta disarmato, sapeva come sarebbe andata a finire. Ogni volta che gli chiedono con petulante e morbosa curiosità perché non aveva rilanciato dopo l’audace puntata della razza padana, risponde: ”Non volevo lasciare il gruppo con una zavorra che l’avrebbe affondato”. Per questo respinse l’offerta della banca d’affari JP Morgan pronta a mettergli in mano un pacco di bigliettoni verdi per il contrattacco. Un rifiuto senza rimpianti. Anche se avrebbe potuto sconfiggere i capitani coraggiosi, i quali invece stentavano a trovare trenta e rotti miliardi di dollari necessari. ”Non, je ne regrette rien”. La correttezza austro-ungarica e l’educazione ricevuta nei Lehrjahre trascorsi all’ufficio studi Fiat, gli imponevano di chiedere prima il consenso degli azionisti. Come si sa, il nocciolino duro si squagliò e Umberto Agnelli che, attraverso Ifil, ne era il perno, gettò la spugna. Morire per Telecom Italia? Valeva il motto che il cancelliere Bismarck riservava alla sorte dei Balcani per la quale non avrebbe rischiato la vita di un granatiere, della quale, ovviamente, non gli importava un tubo. A discolpa dei nocciolini, bisogna dire che a Torino la festa era finita (Umberto lo sapeva prima ancora che Gianni Agnelli lo proclamasse ufficialmente), i banchieri non erano cuor di leoni e quel modello di privatizzazione era utopistica: la public company in Italia è un mito al pari della governabilità, per la prima manca il mercato finanziario, per la seconda il mercato politico. ”Non, rien de rien”. Nemmeno quella fosca, lugubre primavera del 1993, quando Giuliano Amato, presidente del Consiglio, gli affidò l’Eni della quale era da nove mesi direttore generale. Gabriele Cagliari era agli arresti e Bernabè decise di portare in tribunale i conti Enimont, svelando al pool di mani pulite la madre di tutte le tangenti. Rien de rien, non c’è nulla da recriminare, fece il suo dovere; e il dovere si sa è quasi sempre doloroso, spesso implacabile. Cagliari si suicidò il 20 luglio nel carcere di San Vittore dopo 134 giorni di carcerazione preventiva; ad appena 72 ore di distanza, Raul Gardini si tirò due colpi di pistola, uno dei quali mortale. In mezzo alle macerie istituzionali e alle tragedie personali, a Bernabè e ad altri uomini come lui, toccò salvare il salvabile. Gli riuscì talmente bene che i suoi cinque anni al vertice del colosso petrolifero sono diventati un caso studiato alla Harvard Business School. Quella performance da primato è rimasta negli annali ed è senza dubbio un punto di riferimento per rimettere in sesto un altro colosso dai piedi di argilla, come la Telecom spossata da un decennio di massima incertezza e instabilità. All’Eni lo aveva portato Franco Reviglio, economista, grande esperto fiscale e docente a Torino dove Bernabè, figlio di un ferroviere trentino, dotato di una intelligenza sistematica e una volontà di ferro, si era laureato giovanissimo. Il professore, tirandolo fuori dall’ufficio studi Fiat, l’aveva accolto in quel gruppo di giovani brillanti poi chiamati ”Reviglio boys”, insieme a Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Alberto Meomartini. Poi le loro vite si separarono. Tremonti venne prestato a Rino Formica, Meomartini e Bernabè invece seguirono il loro maestro nel 1983, quando Bettino Craxi, ispirato da Giuliano Amato, lo collocò al vertice dell’Eni. Lì, nel palazzo di vetro color bottiglia sul laghetto artificiale dell’Eur, monumento alla modernità voluto da Enrico Mattei quando Roma preparava le Olimpiadi del 1960, in cima all’azienda -potenza del capitalismo pubblico, il giovane assistente del presidente (era nato a Vipiteno il 18 settembre 1948) tirò fuori l’esperienza acquisita nell’azienda-potenza del capitalismo privato. La mission di Reviglio era ricondurre al mestiere originario l’ente, trasformato nel decennio Settanta in un mastodonte simile all’Iri, una conglomerata che produceva perdite per 1.500 miliardi e accumulava debiti per 19 mila miliardi di lire. Dopo sei anni nei quali Bernabè affila le lame del tagliatore di teste, la ristrutturazione ha successo: l’Eni torna a generare utili per 1.500 miliardi e l’indebitamento viene dimezzato. Soprattutto, il gruppo si concentra di nuovo sull’energia. Ceduta la Nuovo Pignone alla General Electric, l’ultimo passaggio, senza dubbio il più difficile, è la vendita di Enichem. L’acquirente naturale è Montedison e il potere politico toglie l’operazione dalle mani del professore, per consegnarla a un manager interno, un tecnico di lungo corso, Gabriele Cagliari, che proviene proprio dalla chimica. Raul Gardini, alla testa del gruppo Ferruzzi, che controlla Montedison, concepisce l’idea di creare un campione nazionale di primaria grandezza, Enimont. Un sogno che si scontra con l’ostilità dell’establishment finanziario e con la rapacità del Palazzo foraggiato ampiamente da Gardini e Cagliari. Intanto, in soli due anni, i debiti dell’Eni tornano a 13.400 miliardi: si stanno accumulando le premesse del collasso, anche senza l’intervento della magistratura. Bernabè assiste impotente allo sfascio del capolavoro che aveva portato a termine sotto la guida di Reviglio. Ma proprio a lui Giuliano Amato, presidente del Consiglio, affida la svolta. Nell’estate del 1992, mentre all’orizzonte si prepara la tempesta monetaria, il dottor sottile ridimensiona i boiardi alla testa dell’industria di stato. All’Eni tutti i poteri operativi vanno a Bernabè, direttore generale, ma di fatto amministratore delegato. Lui manifesta una freddezza e una determinazione di stampo romitiano. E quando in primavera scoppia lo scandalo Mani Pulite, non ha esitazioni. Cagliari viene arrestato alla fine di marzo. Ai primi di aprile, Bernabè chiede le dimissioni dei consigli di amministrazione di tutte le società e in due mesi sostituisce ben 250 consiglieri. La potatura comincia dall’alto e prosegue giù giù lungo i rami. Nel solo 1993 vengono chiusi o venduti 73 business, licenziati o ”messi in libertà” 15 mila dipendenti, con risparmi da 1.700 miliardi di lire. E in bilancio si iscrive un utile di 304 miliardi. Compiuta la ristrutturazione, riportato il focus dell’azienda sulla ricerca ed estrazione di idrocarburi, vocazione originaria, arriva la privatizzazione. Parziale perché il Tesoro mantiene qualcosa in più del 30 per cento, e nemmeno la vague liberista che ha contagiato destra e sinistra negli anni Novanta, riesce a fare di più. Ma è una bella vendita, nella quale Bernabè lavora a stretto contatto con Mario Draghi, direttore generale del Tesoro e stringe legami con la banca Rothschild dove poi, consumata la sconfitta Telecom, diventa vicepresidente per l’Europa (mentre Draghi sarebbe andato a Goldman Sachs con l’arrivo di Berlusconi al governo). Nel 1997 Eni viene fusa con Agip per aumentare controllo e concentrazione del gruppo, nel 1998 i debiti sono dimezzati, i profitti garantiti ogni anno e i dipendenti ridotti di 46 mila. Il gran risanatore sembra l’uomo giusto per riacchiappare Telecom finita in una deriva nevrotica dopo il primo anno in cui il monopolio telefonico pubblico è diventato un’azienda (quasi) privata. Porta con sé il metodo Eni e i suoi successi. Ma nel gruppo petrolifero era stato dominus (il Tesoro azionista di riferimento gli ha dato carta bianca), in Telecom diventa di nuovo il gestore per conto degli azionisti, un piccolo gruppo debole e diviso e una gran massa senza alcuna rappresentanza. Bruno Visentini avrebbe detto che mancava ”la presenza virile” del patron. E le conseguenze si vedono dopo pochi mesi, quando nel gennaio 1999 scatta l’assalto padano. Bernabè ha sempre apprezzato Sun Tzu e sostiene di avere applicato alcune sue teorie: l’impiego moderato della forza, l’intelligence, la ritualizzazione del conflitto. Ma una scalata è una guerra di sterminio, di fronte alla quale lo stratega cinese del III secolo avanti Cristo, avrebbe consigliato la sorpresa, la rapidità nell’azione, la mobilità delle truppe. O lo schieramento di un esercito molto più potente. Bisogna dire che il giovane manager ci prova, mettendosi d’accordo con Ron Sommer, capo di Deutsche Telekom. Fianco a fianco presentano la fusione come una cosa fatta, ma D’Alema chiede al cancelliere Schröder un impegno certo per la privatizzazione. ”Non devo rispondere delle mie scelte al governo italiano”, è la secca risposta del Genosse Gerhard al compagno Massimo. Le sorti dello scontro sono segnate e il 21 maggio il capo azienda getta la spugna. ”Ho sempre seguito la mia coscienza”, dichiara. ”La sua difesa è stata piccola e tardiva, ma la sua reputazione è salva”, scrive in agosto Bloomberg in un’ampia ricostruzione della battaglia intitolata ”Rompere le regole”. Comincia, allora, una traversata, non proprio nel deserto, ma fuori da incarichi di gran potere. Amato lo nomina rappresentante speciale per la ricostruzione in Kosovo, con Berlusconi va alla Biennale di Venezia. Ma intanto cerca di ricostruirsi anche una carriera imprenditoriale e fonda FB Group una società di investimenti nella quale coinvolge anche Chicco Testa e resta nelle telecomunicazioni. Fonda Andala H3G insieme a Tiscali (poi verrà venduta a Hutchison Whampoa del magnate cinese Li Ka-shing), prende il controllo di Netscalibur e di Telit che opera nella comunicazione detta M2M (machine to machine), si butta nel software con il gruppo Kelyan. Ha fatto del lavorar sodo la propria filosofia, all’Eni lo ricordano ancora entrare alle prime ore del mattino per chiudersi nel suo ufficio fino a notte fonda. Uno come lui non sta certo con le mani in mano. Il colpo migliore gli riesce con Rothschild dove nel 2004 fa confluire la sua società di advisory finanziario ottenendo la carica di vicepresidente per l’Europa. Gran networker dietro l’atteggiamento schivo e l’aria da ragazzo timido che non lo ha mai abbandonato, lo troviamo dovunque ci sia da acquisire relazioni e influenza, dal Council on Foreign Relations alla sua filiazione Trilateral, dall’Aspen alle mitiche riunioni del Bilderberg dove si incontra il governo mondiale, secondo le popolari teorie cospirative. Non può mancare la Cina del boom, infatti Bernabè entra nel consiglio (con ruolo non esecutivo) anche di Petrochina il colosso energetico più capitalizzato del mondo. Insomma, la risalita ai vertici è stata ben preparata. Pur apprezzato nel centrodestra variante tecnocratica, le simpatie maggiori vengono dal centrosinistra (e viceversa). Dopo le elezioni, dichiara a Franco Locatelli del Sole 24 Ore: ”Penso che cancellare la legge Biagi non piacerebbe nemmeno alle nuove generazioni. La lettura della società e dell’economia italiana fatta dal centrosinistra non coglie la complessità dei cambiamenti”. Bocciatura completa? Non del tutto. ”Credo che l’Unione – prosegue – se saprà dar prova di umiltà e pragmatismo, sia la formazione adatta a dialogare con le forze sociali e ad avviare o completare le riforme”. Così, lo ritroviamo tra i manager e i banchieri (numerosi) che firmano il manifesto dei 150 per la discesa in campo di Walter Veltroni. Ma lo sdoganamento completo, secondo i maligni, avviene quando Massimo D’Alema lo chiama tra gli scenaristi e i futurologi della Farnesina, unico esponente del mondo industriale insieme a Leonardo Maugeri dell’Eni. Certo, Bernabè ha una riconosciuta passione e competenza geopolitica, un lato ancor più apprezzabile per Francesco Cossiga: non a caso, il presidente emerito lo volle nel comitato per la riforma dei servizi e adesso ha spezzato una lancia a suo favore. Che c’entra, dunque, lo strategic planning di D’Alema con le nomine Telecom? Semmai, di fronte all’impasse degli azionisti, il dominus è Romano Prodi. In missione nella sede centrale di Mediobanca, il 13 novembre, non è andato forse Angelo Rovati per incontrare Cesare Geronzi? Tutto vero, ma se l’uomo che nel 1999 segnò la fine della breve avventura in Telecom, adesso lo assume nel brain trust coordinato da Marta Dassù, vuol dire che una stagione è finita e Bernabè può ricominciare. Testa da economista e stomaco da top manager, è pronto per realizzare il sogno dumasiano (non il Dumas di Montecristo, per carità, semmai quello di Vent’anni dopo). Non appena in Mediobanca la smettono di litigare. l’uomo giusto per Telecom?, si chiedono in molti. Troppo bravo ragazzo per un tale nido di vipere, secondo alcuni. Mentre altri ridimensionano la sua performance all’Eni. In Telecom Italia, insistono i suoi critici, ha dimostrato di non saper contrastare i voleri di azionisti deboli. Riuscirà a farlo con un azionista forte come César Alierta? I grandi ritorni difficilmente funzionano al di fuori dei romanzi. Ma lui conosce il mestiere ed è un abile potatore. L’abbattimento dei debiti è il compito principale sia per le banche sia per Telefonica. All’Eni, proprio questo fu il suo vero capolavoro» (Stefano Cingolani, ”Il Foglio” 24/11/2007) • «La sua proverbiale sicurezza, quella di chi è certo di avere calcolato tutto. Un’arte appresa all’Ocse, a Parigi, a metà degli anni Settanta: ” li’ che ho imparato ad analizzare i problemi, a entrare nei dettagli, a razionalizzare questioni complesse”» (Angelo Pergolini, ”Panorama” 13/5/1999). «Il convitato di pietra che viene evocato quando c’è qualche poltrona importante da occupare […] ”All’Eni ho guidato la privatizzazione. Quando quel processo ha subito una battuta d’arresto sono passato alla Telecom, ovvero una società che nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto diventare una public company. Poi le cose sono andate diversamente […] Io avevo rappresentato agli azionisti le conseguenze che potevano derivare dall’acquisto della Telecom da parte di Colaninno e soci […] Ero convinto che le società di telecomunicazioni, di fronte all’apertura dei mercati e ai forti investimenti necessari al loro sviluppo, non potessero reggere livelli di indebitamento troppo elevati”» (Paolo Madron, ”Panorama” 15/11/2001).