Varie, 13 febbraio 2002
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Bernstein Carl
• Washington (Stati Uniti) 14 febbraio 1944. Giornalista. Uno dei due giornalisti del ”Washington Post” (l’altro è Bob Woodward) autori dello storico scoop sullo scandalo Watergate che causò le dimissioni dell’allora presidente Usa Richard Nixon. Nel film Tutti gli uomini del presidente è interpretato da Dustin Hoffman. «Quando avevo sedici anni sono andato a lavorare come fattorino in un grande giornale, il vecchio ”Washington Star”. E mi è sembrato il luogo più eccitante che avessi mai visto in tutta la mia vita. Era un giornale del pomeriggio, con cinque edizioni al giorno. Per il giornale lavoravano dei grandi reporter ed era come una famiglia: un famiglia felice di fare ogni giorno un buon giornale, e un giornale migliore della testata rivale, l’edizione del mattino del ”Washington Post”. In questa famiglia ho avuto dei maestri eccezionali, molti dei quali avevano dieci, quindici e venti anni più di me. Alcuni di loro hanno scoperto in me qualche barlume di talento, e lo hanno incoraggiato e alimentato. Credo di avere imparato allora tutto ciò a cui credo più di ogni altra cosa quando si parla di giornalismo: che non esiste una pseudoscienza chiamata ”giornalismo investigativo”. L’unica forma di giornalismo valido, qualunque sia l’oggetto della pratica giornalistica, deve essere quella che mira ad ottenere la verità nella sua miglior versione possibile. Credo che sia un grave errore creare una mitologia intorno al cosiddetto giornalismo investigativo, perché ogni forma di giornalismo persegue lo stesso fine: la verità nella sua miglior versione possibile. Si tratta di un lavoro difficile, che richiede un gran rispetto per il contesto, e una gran fatica, finché non pensi di aver trovato ciò di cui hai bisogno per capire. Questo ricerca era possibile ai tempi d’oro della stampa, ed è ancora possibile. Se lavori per un’istituzione disposta a darti le risorse necessarie. Non ho mai conosciuto un direttore che abbia rifiutato una storia interessante. E la maggior parte delle storie interessanti, secondo me, vengono fuori quando il giornalista agisce di propria iniziativa, spesso nel suo tempo libero, e non nel tempo che deve utilizzare per riferire del meeting cittadino o della conferenza stampa del Presidente, ma proprio nel ”suo” tempo libero. Questo richiede una quantità straordinaria di forza e di dedizione e di buon senso comune e un gran rispetto per il soggetto di cui ti stai occupando. Guardando retrospettivamente al lavoro che ho fatto sino ad oggi, ne riconosco la continuità: quello che mi interessa, specialmente dagli anni del Watergate, è il Potere, che sia il potere presidenziale o quello religioso o quello spirituale, ed il suo esercizio, o il potere della stampa e il suo uso ed abuso. E soprattutto, sì: la verità esiste. La verità nella sua miglior versione possibile esiste. Mi sembra che questo concetto di verità sia soggettivo e che esista un mito dell’obiettività, riguardo alla stampa americana in particolare, secondo il quale il fine ultimo da raggiungere è quello di essere obiettivi. Io non ci credo, perché secondo me se esiste un atto soggettivo, questo è l’atto di decidere cosa è una notizia. Pretendendo d’essere obiettivi, danneggiamo noi stessi. Abbiamo la responsabilità di essere corretti, giudiziosi, ma questo è molto diverso dall’essere obiettivi, perché l’obiettività in questo senso è propria della scienza e non dell’operare umano. I reporter portano nel lavoro i loro valori personali ed i valori del loro mestiere, e queste sono considerazioni soggettive. Ma devono lasciarsi guidare dal principio della correttezza, dell’accuratezza e della contestualità. Per me il contesto è l’elemento più importante nel nostro mestiere, al di là dei fatti nudi e crudi. Se c’è una carenza nella stampa, è la mancanza di contesto. Questa superficialità dirompente si è aggravata con il proliferare delle ”news” televisive e via cavo, mentre sono diventati sempre più importanti nella comunità giornalistica i valori del sensazionalismo e delle polemiche create ad arte. Un buon giornalista non è un detective. Se per lavoro d’investigazione s’intende un’attività da svolgere in segreto, non credo proprio che lo sia. Ma se per lavoro da detective s’intende un lavoro metodico, dettagliato, attento, continuo, innovativo ed inventivo, allora sì. Non è necessario far ricorso a sotterfugi o a metodi poco ortodossi. Il mestiere del giornalista esige più di ogni altra cosa del buon senso. La cosa meravigliosa di un film come Tutti gli uomini del presidente non è tanto la caratterizzazione dei singoli protagonisti come Bob e me stesso, o l’interpretazione di Dustin Hoffman e di Bob Redford, ma è come racconta il processo metodico del lavoro giornalistico. E il film funziona perché lo spettatore vede questo lo svolgersi di questo lavoro giornalistico, e sullo schermo si riferisce al processo quotidiano del lavoro giornalistico, è il principio fondamentale di ciò che dovrebbe essere la cronaca. Penso che questo lavoro possa essere fatto in media diversi. Esistono diversi tipi di lavoro giornalistico e questo comprende il giornalismo ”soggettivo”. Dipende dal mezzo impiegato. Il ”New York Times” e il ”Washington Post” devono adottare un punto di vista politico? No. Ma l’autore di un libro che vuole far sentire la sua voce non dovrebbe assumere una posizione soggettiva? A me sembra una cosa perfettamente legittima. La stessa cosa vale per i cineasti. Solo una cosa non cambia: l’unico obbligo resta quello di presentare la verità nella sua miglior versione possibile, e questo comprende il dovere di presentare anche il punto di vista legittimo dell’altra parte, se esiste una risposta legittima. Ogni singolo medium ha una sua diversa forza profonda. Che si tratti della parola stampata, della fotografia, del cinema. E tutti sanno come proporre la verità» (’la Repubblica” 1/8/2004).