Varie, 13 febbraio 2002
BERTINOTTI
BERTINOTTI Fausto Milano 22 marzo 1940. Politico. Ex presidente della Camera (2006-2008). Ex segretario di Rifondazione comunista (1994-2006). Diploma di perito industriale, iscritto al Partito socialista dal 1964, nel 1969 membro della segreteria regionale della Cgil. Nel 1971 entra nel Partito Comunista Italiano, nel 1985 viene designato dalla segreteria nazionale della Cgil al dipartimento dell’industria e successivamente a quello del mercato del lavoro. Dal 1991 leader di ”Essere sindacato”. Dopo la svolta della Bolognina aderisce al Pds, ma nel 1993 entra nel partito di Rifondazione comunista e nel 1994 ne diventa leader. Deputato dal 1994 • «[...] tra i dirigenti della sinistra italiana, è il più irregolare, il più difficile da catalogare, il più capace di stupire. L’unico sindacalista ad aver fatto meglio in politica che nel sindacato, e l’unico socialista (prima della confluenza forzata nel Pci, nel ’72, era stato lombardiano e psiuppino) ad aver avvertito irresistibile il bisogno di rifondare il comunismo dopo il tracollo dell’impero sovietico, e l’unico neocomunista a suo agio tra aristocratici, borghesi e proletari nel tempo dei vetero, degli ex e soprattutto dei post: questo si dice da anni [...]» (Paolo Franchi, ”Corriere della Sera” 2/3/2005). «Il padre ferroviere e la madre casalinga, la nascita alla periferia della periferia milanese, il trasferimento alla periferia della periferia novarese (Varallo Pombia) e i modesti studi (due bocciature) all’istituto tecnico Omar. Se a questo si aggiunge la devozione per Marx e Rosa Luxemburg, la gavetta nel sindacato tessile (1964) e il passaggio dai socialisti lombardiani al Psiup e al Pci (1972), il quadro è completo. Meno idealizzato è il Bertinotti che ti racconta chi lo ha conosciuto a Torino dal ’75 all’85, quand’era segretario piemontese della Cgil. il profilo di un trentenne in carriera, coriaceo con i padroni ma anche abile nei rapporti umani. ”Un giovane leader che parlava sempre della classe operaia ma non la frequentava”, dice un suo vecchio amico. ”Lo attraevano di più la grande borghesia, gli intellettuali, i docenti universitari, che accoglieva nella sua casa zeppa di libri e quadri. Guardavi come si destreggiava e capivi che avrebbe fatto strada”. Erano gli anni in cui il sindacato torinese aveva un avversario formidabile: la Fiat. Bertinotti era noto come uno che non temeva lo strappo, anzi, e quando nel 1980 l’azienda annunciò il licenziamento di 24 mila dipendenti fece la sua parte. Per settimane lui e i suoi picchettarono la fabbrica mentre cresceva la tensione. ”Un clima feroce”, ricorda l’allora sindaco Diego Novelli [...] ”Dopo quattro settimane di lotta gli operai erano stremati e i rappresentanti di Fiat e sindacato non si parlavano. Poi, sabato 27 cadde il governo di Francesco Cossiga e la Fiat annunciò la sospensione dei licenziamenti. Allora cercammo di convincere Fausto e gli altri a trattare ancora, ma inutilmente. Mi accusarono di svendere la lotta, di volermi salvare la poltrona. E quando la Fiat decapitò la rete dei delegati sindacali spedendoli in cassa integrazione, nessuno ammise lo sbaglio”. In seguito Bertinotti ha rivisto le sue posizioni, criticando la strategia che portò alla marcia dei colletti bianchi e l’accordo sindacale infine sottoscritto. ” stata una sconfitta”, avrebbe ammesso nel 2003, ”e di fronte a una sconfitta bisogna dire: abbiamo perso”. Ma allora tirò dritto. Tanto dritto da ritrovarsi cinque anni dopo proiettato a Roma, nella segreteria nazionale della Cgil. ”Un cambiamento che lo esaltava e lo preoccupava”, ricorda Nerio Nesi, ex amico di Bertinotti ed ex presidente della Bnl. Anche perché con lui arrivavano a Roma il piccolo Duccio e Gabriella Fagno, moglie dalla bellezza messicana, capelli allora corvini e tailleur multicolori, che aveva sposato diciottenne e su di lui vantava un chiaro ascendente. Forse per amor loro Bertinotti chiese alla Bnl un appartamento a modico affitto, ottenendo 120 metri quadri con tanto di portico nella zona residenziale di Vigna Clara. Da lì è partita la sua scalata romana. Una strada lungo la quale avrebbe vissuto momenti non esaltanti, come la scarsa popolarità in Cgil dovuta al piglio sabaudo o i pochi contratti chiusi e non proprio memorabili (vedi quello per la formazione lavoro), ma anche momenti di innegabile coraggio, come quando nell’86 denunciò le miserie del suo stesso sindacato, bisognoso ”di un vero e proprio processo di rifondazione nella cultura, nella politica e nel suo modo d’essere”. O quando nel ’92 parlò di corruzione dentro la Cgil, beccandosi la censura del direttivo. L’uomo è così. Un capo, non c’è dubbio: tosto e determinato. Ma anche una persona sensibile, e bisognosa di comunicare il suo travaglio agli altri. Lo dimostra una lettera riservata che ha scritto nel novembre dell’89, anno in cui dovette assistere a un doppio crollo: quello del muro di Berlino e poi quello del Pci italiano, archiviato con un congresso straordinario da Achille Occhetto. Pochi giorni dopo, Bertinotti si rivolge così a un amico: ”Parole grandi, forti, cariche di attesa, di speranza e di tragedia, stanno implodendo nella scena costituita da milioni di uomini e dentro le nostre piccole teste. Comunismo, socialismo, rivoluzione. Forse è il dramma politico di questo nostro temibile secolo. Ancora una volta, i poveri di potere e di spirito, cioè di autorealizzazione umana, ci hanno provato. E ancora una volta, come quelli della rivolta di Spartaco, come quelli dei Ciompi, come quella della Comune di Parigi, hanno perso. Il cielo è restato lontano da loro e, così, da tutti. La scalata al cielo è fallita. Dio è morto un’altra volta...”. Chiunque lo conosca ammette che pochi politici di oggi hanno tanta forza evocativa, tanto carisma romantico. Ma poi aggiungono che una simile sensibilità non lo esime da fare anche sublimi carognate, persino contro gli amici. I veterani di Rifondazione hanno vissuto per esempio la telenovela che lo ha legato ad Armando Cossutta, sfociata in una sincera inimicizia. il giugno del 1993 quando i due si incontrano segretamente la prima volta a cena. Bertinotti è appena uscito dal Pds dichiarando che non sarebbe entrato in Rifondazione, mentre Cossutta ha appena cacciato dal partito il segretario Sergio Garavini. Quella sera Cossutta gli offre la segreteria, dopodiché per mesi depista i vertici del partito teorizzando come nuovo segretario Antonino Cuffaro. ”Solo nell’ultima riunione, durata cinque minuti”, racconta un testimone, ”Armando svelò i giochi. ’Il coordinatore della segreteria sarà Cuffaro’, esordì, ’e il segretario Fausto Bertinotti. Chi è contro di lui è anche contro di me’”. Tutto ciò per spiegare quanto Bertinotti sia debitore nei confronti di Cossutta, dal quale ha ricevuto le chiavi del partito, e quanto quest’ultimo si fidasse di lui. Ma già nel ’96 il clima era cambiato, e si è visto alla manifestazione con cui Rifondazione annunciava la famosa desistenza, prologo al governo Prodi. Piazza del Popolo quel giorno venne invasa da 200 mila compagni, un tripudio di bandiere rosse inondava le telecamere e il popolo comunista festeggiava a colpi di slogan la nuova stagione sinistrorsa. Eppure Bertinotti era di pessimo umore. ”Non tollerava che sui manifesti ci fosse anche il nome del presidente Cossutta”, racconta Marco Rizzo, attuale presidente dei Comunisti italiani alla Camera e allora coordinatore della segreteria di Rifondazione. ”’Che cosa vuole?’, sbraitò, ’esserci dappertutto?’”. In seguito, simili bizze si sono moltiplicate. Come la volta che protestò perché sul quotidiano del suo partito, ”Liberazione”, il nome di Cossutta era stampato in caratteri troppo grossi. Sfumature, piccole intemperanze, ma segnali di quello che sarebbe diventato il più grande nemico di Bertinotti: la vanità. Un avversario che non ha fatto nulla per combattere, alimentandolo invece con fanciullesco divertimento. Suo motivo d’orgoglio, ad esempio, è stato quello di diventare negli anni Novanta un punto fisso della politica televisiva, brillante nell’eloquio e nelle maniere. Ma anche nella vita privata non si è fatto mancare niente. Come quando nel ’95 andò in vacanza negli Stati Uniti e a Las Vegas volle giocare al casinò. Gli amici gli consigliarono di evitare saloni in vista, immaginando l’imbarazzo se fosse incappato in una comitiva italiana. ”Lui invece s’infilò al Ceasar Palace”, ricorda una testimone, ”e quando un gruppo di connazionali lo riconobbe si fece cullare al ritmo di ’Fausto!-Fausto!-Fausto!’”. Certo, del combattente torinese, figlio dell’hinterland e mentore del proletariato restavano ancora il nerbo, la buona fede, le tante idee e l’ammirevole tenacia nell’affermarle. Per il resto Roma aveva fatto il suo effetto emolliente, trasformando l’ex sindacalista in un affezionato frequentatore delle serate capitoline. Molti ricordano come alle sue cene si potesse incontrare la coscienza critica del regista Citto Maselli ma anche la pallida bellezza di Claudia Koll. Altri ancora confermano la cordialità con cui la signora Lella accompagnava gli amici nella stanzetta dove custodiva scarpe, tessuti, gioielli venuti via a buon prezzo... I simboli di un successo giunto assieme al prestigio, tanto meritato quanto oggetto di continui sfottò. Come quello riguardo ai pullover di cachemire, che secondo la stampa avrebbero affollato gli armadi del leader Fausto. Un pettegolezzo diventato con l’andar del tempo fastidioso, al punto da richiedere un’indimenticabile smentita: ”La mia giacca non è di cachemire”, scrisse Bertinotti al quotidiano ’La Stampa’, colpevole di aver citato il prezioso tessuto. ”Volete effettuare una perizia per appurarlo? a disposizione. E ne approfitto per aggiungere che, sebbene non ci sarebbe niente di male, non ho mai posseduto né un cappotto di cachemire, né una giacca, né un abito di cachemire”. Chiarito questo, Bertinotti si sarebbe presto trovato ad affrontare ben altre questioni, più complesse e tutte legate a un nome: Romano Prodi. Il periodo dal ’96 al ’98 è stato infatti cruciale per il segretario di Rifondazione, che lo ha vissuto in bilico tra fedeltà e tradimenti, rabbia e ripensamenti. ”Fausto temeva che il patto di assistenza a un governo rosso pallido si trasformasse in una trappola”, racconta un ex rifondaiolo. ”Non a caso nell’aprile del ’97 tolse la fiducia al governo sulla missione militare di pace in Albania. Per lui era ininfluente che la metà dei nostri elettori fosse soddisfatta di Prodi. Voleva solo che il governo cadesse, a tutti i costi, e lo teorizzava durante le riunioni riservate”. Alla fine il governo Prodi è effettivamente caduto, e a farlo capitolare è stato il niet di Bertinotti alla Finanziaria, seguito dall’addio di Cossutta e dalla nascita del Partito dei comunisti italiani. Ma al segretario di Rifondazione tante novità non hanno portato bene. Al contrario, dal ’98 a oggi ha dovuto confrontarsi con un discreto numero di intoppi. Basti pensare al lancio della linea movimentista, lanciata nel 2000 nella speranza di intercettare il voto no global e cambiata in corsa per mancanza di frutti. O alla battaglia per l’estensione alle piccole aziende dell’articolo 18, dalla quale nel 2003 è uscito senza quorum al referendum. ”Prima del voto Fausto prevedeva una partecipazione del 40 per cento, e trovarsi di fronte al 25,6 lo ha lasciato stranito”, raccontano al partito. ”Detto questo, parlare di sconfitta è improprio. Fausto voleva indebolire Sergio Cofferati, un leader che portava in piazza 3 milioni di persone. Beh, ci è riuscito”. Chi sarà la prossima vittima? Impossibile prevederlo, quando c’è di mezzo l’estro di Bertinotti. Quello che si può dire è che alle politiche del 2006 risorgerà l’alleanza con il centro-sinistra, sebbene Prodi ancora non lo entusiasmi e l’Ulivo sia più moderato che mai. Allora il leader Fausto si ricongiungerà a quel D’Alema che nel ’93 definì "nipotino di Craxi", e al quale oggi lo accomuna la consapevolezza che da soli non si va lontano. Tantopiù che dopo anni di ospitate selvagge le televisioni sembrano meno ansiose di mostrarlo al popolo» (Riccardo Bocca, ”L’espresso” 29/4/2004). «Ha la faccia un po’ così, da vittima della moda, con le sue giacche rigorosamente in tweed, cachemire o velluto old fashion, gli occhialetti con cordicella al collo come Rossana Rossanda. Sa parlare forbito e come piacere alle donne. Vive anche una contraddizione in subiecto: quella di essere neocomunista senza mai essere stato comunista, di voler rifondare una ”cosa” di cui è massimamente ignorante. In gioventù fu infatti socialista, massimalista, sindacalista ma comunista mai. Ha un’insopportabile erre moscia che fa arrapare le signore dei padroni» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 3/10/1998). «’Io sono sempre stato con gli indiani. Se certe volte, da bambino, ho giocato a fare il cowboy è stato soltanto per ignoranza [...] Se devo scegliere tra Geronimo e l’esercito dei conquistatori della prateria, scelgo il primo” [...] Diventò tifoso del Milan perché allora i rossoneri non vincevano uno scudetto da più di quarant’anni [...] Il papà che scarica carbone e poi diventa fuochista e ancora il papà ferroviere che porta a casa mattonelle di carbone per la stufa e trascina a fatica il carretto. Un papà operaio, caso rarissimo nella storia dei dirigenti comunisti della sua generazione. Un papà, perso nel 1961, al quale ancora rivolge il pensiero prima di ogni scelta politica [...] Comincia prestissimo a occuparsi di politica. E il posto è quello nel banco in ultima fila, accanto al compagno (solo di banco) Sergio Bruni, all’Omar di Novara, l’istituto dove si diplomerà perito elettrotecnico ”con un paio d’anni di ritardo”. In realtà gli anni di ritardo sono tre. Comincia le superiori a Milano, all’Ettore Conti, passa in prima ma è bocciato in seconda e deve ripetere. Siamo nel 1957 e arriva il primo trasloco: il papà è andato in pensione e si torna al paese d’origine della famiglia, Varallo Piombia, riva piemontese del Ticino [...] La scuola ricomincia all’Omar di Novara, istituto duro e selettivo: deve ripetere la terza e anche la quarta e persino la maturità arriva solo nella sessione autunnale, nell’ottobre del 1962 [...] Il perito Bertinotti non metterà mai la tuta, se non nel laboratorio di classe: non un giorno di lavoro da operaio specializzato. Racconta Pietro Bertinotti, cugino alla lontana, ex sindacalista a Novara: ”Venne a chiedere a noi più vecchi come poteva fare per entrare nel sindacato. Noi gli rispondemmo: ’Iscriviti al Psi e quelli ti piazzano subito’. E così fece”. [...] Cresce nella cultura del bar di paese, che a Varallo Piombia si chiamava ”Leopardi”, discutendo di ciclismo e politica [...] Fuma già la pipa, ma va ancora a sigarette. Legge mattina e sera il ”Calendario del Popolo” e soprattutto ”I Quaderni Rossi” [...] Era noto come Malabrocca, la maglia nera del Giro d’Italia, l’ultimo in classifica, sempre fuori tempo massimo, ”perché nelle riunioni si attardava, continuava a parlare, per convincere tutti o conoscere meglio la fabbrica che per lui era davvero un luogo misterioso”» (Cesare Fiumi, ”Sette” n. 40/1998). «[...] la sua terza avventura: dopo il Bertinotti sindacalista ingraiano della lotta ”dura e bellissima” nella Torino operaia, dopo il Bertinotti socialista anarchico che rianima con un flautato bocca a bocca il partito della Rifondazione, adesso si profila un inedito Bertinotti numero tre. Eh sì, che cosa sia il Fausto-ter ancora non lo sa nessuno. In genere c’è poco interesse per la visione politica di Bertinotti, perché lo si interpreta come un uomo tutto charme e disimpegni, l’Houdini a cui la mitologia assegna l’apocrifo record di non avere mai firmato un contratto, a causa dell’amore per lo sciopero e dell’orrore per il compromesso; e anche adesso gli disegna addosso il profilo di minaccia incombente su qualsiasi governo di centrosinistra, passato ed eventualmente futuro. Perché il soi-disant keynesiano Fausto significa tassazione dei Bot, imposta patrimoniale, 35 ore, e inoltre lo scherzo assassino dell’ottobre 1998, quando sfilò la sedia sotto il sedere di Romano Prodi, fu accusato di tradimento, e lui rivendicò con durezza la ragion politica: ”Ma di che cosa si straparla, adesso al governo c’è Massimo D’Alema: siamo più o meno a sinistra?”. Bertinotti è al tempo stesso l’autore e la vittima del proprio ruolo politico. Al ”Parolaio rosso”, secondo la definizione di Giampaolo Pansa, è stata attribuita ogni disfatta dell’Ulivo. Come nella celebre sentenza di Nanni Moretti al Festival di Cannes, dopo la sconfitta del 2001: ”Bertinotti?”, pausa, occhi sconsolati, e poi la convenzionale accusa di avere reso possibile il trionfo di Silvio Berlusconi: ”non capisco come il Cavaliere ringrazi milioni di persone, gli basterebbe ringraziarne una sola”. E fa nome e cognome del Parolaio. ”Lucciole per lanterne”, risponde quest’ultimo, piccato. E ha ragione. Nonostante l’accusa a cui si aggrappa mezza Italia, desiderosa di un capro espiatorio, Bertinotti ha poche colpe nella batosta, come poi dimostrano gli istituti di analisi. Ma forse Fausto III nasce proprio dopo la sconfitta del 2001. Non è uno sprovveduto, non è pura ecolalia postmoderna, non è un cicisbeo da talk show. Ha in mano il partito. Anzi, il partito è lui. Identificazione totale. E guardando dentro il partito il comandante Fausto si accorge che la situazione non è affatto rosea. Fra le politiche del 1996 e del 2001 Rifondazione ha perduto una costola, ovvero i Comunisti italiani di Cossutta e Diliberto; ma oltre ai 600 mila voti della scissione ne ha lasciati sul campo altri 700 mila. L’astronomico 8,6 per cento del ’96 diventa il meschino 5 per cento del 2001. I deputati, che erano 35, si riducono a 11. Nelle roccaforti come il Piemonte, la Liguria, la Toscana e l’Umbria, la Campania e la Calabria, il partito quasi si dimezza. Fosse tutto qui: calano anche gli iscritti, dai 130 mila del 1997 agli 85 mila del 2003. Al tradizionale insediamento nella classe operaia (il 23 per cento), si affianca una percentuale quasi identica di ceto medio intellettuale, e un 29,6 per cento di pensionati. Diagnosi: partito vecchio. Ce n’è abbastanza per una svolta. Radicale, secondo una di quelle espressione che più piacciono a Bertinotti. Anche perché nel frattempo si è assistito allo spegnersi della parabola di Sergio Cofferati. Il quale alla fine ha deciso di ritirarsi a Bologna, ma per qualche mese ha avuto in mano i movimenti, i partiti della sinistra, la Sinistra tout court. Nei primi giorni del 2003, a Firenze, insieme con l’immancabile Nanni Moretti al Palacongressi, Cofferati rappresenta il coagulo di tutti i movimenti. I nuovi protagonisti si chiamano Agnoletto e Casarini. Bertinotti sembra fuori gioco. Ha ballato per alcune stagioni, e poi adieu. Sì, buonanotte. Un politico si distingue dal fiuto. Quando Cofferati esce dalla comune per entrare in Comune, e i movimenti si placano, e infine Romano Prodi lancia il tema delle primarie, Fausto, che pure è andato bene alle europee di giugno, alza un dito. E fra lo stupore generale dice: ”Potrei candidarmi io”, per rappresentare la sinistra ”altra”: ”è una iniezione di democrazia”. E aggiunge qualche altro corollario. Come quello secondo cui in futuro, dentro la coalizione, si potrebbe ipotizzare il delinearsi di maggioranze e minoranze: il che significa la rinuncia implicita al potere di ricatto. più o meno un evento storico. Prodi distende le labbra nel più largo dei sorrisi. Sembra il frutto di una iniziativa estemporanea, e invece è l’avvio di una diplomazia a distanza, fatta di piccoli passi, accostamenti, mosse di sbieco, scarti improvvisi. Secondo Arturo Parisi, la relazione speciale fra Bertinotti e Prodi è essenziale: ”Definisce il perimetro della coalizione”. Cioè chi è dentro e chi è fuori. Per Enrico Letta, ”Bertinotti è ad un tempo il problema e la soluzione”. Un problema come fratello separato e una soluzione come alleato. Secondo Giulio Santagata, braccio destro operativo di ”Romano”: ”Fausto rappresenta un’Italia che c’è, un pezzo di politica reale, qualcosa che rappresenta un problema che Prodi deve affrontare. E Bertinotti a sua volta deve mettersi a faccia a faccia con questa sua Italia, affrontando il problema di portarla al governo”. Ciascuno sembra avere il suo interesse. Ma bisogna anche spiegare per quale ragione il dialogo del subcomandante con il Professore sia così facile, così oliato, così naturale. C’è una tesi accademica, secondo cui per Prodi è molto più comodo parlare con Bertinotti proprio grazie alla propria personalità non-ideologica. ”Romano è un pragmatico”, dicono i membri del suo staff, ”e quindi può discutere con il capo di Rifondazione senza mettere in gioco visioni conflittuali del mondo”. Già, fra Margherita e Ds ci può essere una concorrenza elettorale, fin dai tempi in cui Prodi lanciò l’Asinello e lo slogan ”competition is competition”. Fra Ds e Rifondazione l’attrito può essere stridente, proprio per la loro contiguità politica. Invece Prodi non ha un patrimonio elettorale da curare con gelosia, può guardare a Bertinotti con spregiudicatezza, e negoziare ipotesi e programmi. Solo che Fausto III non si accontenta di essere colui che fa quadrare il cerchio della coalizione. Ha cominciato a ridefinire il disegno ideologico del suo partito, collocandolo su uno sfondo pacifista e non violento. E poi ha colto una possibilità nuova. Facciano il partito democratico, i prodiani, o almeno ci provino. Intanto lui tiene viva l’inquietudine tenendo aperta l’ipotesi di candidarsi alle primarie: ”Bene, e se poi tira su il 25 per cento dei voti», si mormora fra i Ds, «noi che cosa facciamo, assistiamo desolati al trionfo politico e mediatico di Faustino?”. Peggio, peggio. Perché Bertinotti è audace politicamente. Ha fatto fuori uomini robusti come Sergio Garavini e Armando Cossutta, non si fa spaventare da un po’ di dialettica interna alla sinistra. Dialettica che diviene aspra quando il leader di Rifondazione lancia l’opa sui resti del Correntone. Con Fabio Mussi, Cesare Salvi e gli altri che la prendono male: ”Non è così che si fa”. Già, non sta bene. Mentre Prodi costruisce la Grande alleanza democratica, e Fassino si impegna strenuamente per il congresso, quell’altro prova a mettere su il partito della sinistra alternativa. E minaccia di mangiarsi un pezzo dei Ds. Però la mossa di Bertinotti terzo è tutt’altro che irrazionale. Intravede una specie di ripulitura politica, un altro modo di razionalizzare la sinistra. Mettere insieme ciò che rimane del Correntone, i Comunisti italiani, forse i Verdi, un po’ di occhettiani, forse qualche dipietrino, facendo una ”Cosa” nuova, in cui Rifondazione comunista può mantenere il sostantivo e perdere l’aggettivo. Altro che pace nel centrosinistra, altro che il vasto ombrello ”democratico” del partito unico. [...]» (Edmondo Berselli, ”la Repubblica” 22/10/2004).