varie, 14 febbraio 2002
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Best George
• Belfast (Gran Bretagna) 22 maggio 1946, Londra (Gran Bretagna) 25 novembre 2005. Calciatore. Col Manchester United vinse la Coppa dei Campioni 1968; nello stesso anno si aggiudicò il Pallone d’oro (terzo nel 1971, sesto nel 1969, ottavo nel 1967). Esordio a 16 anni, nel 1967 vinse il campionato inglese. Carriera praticamente già finita agli inizi degli anni Settanta per problemi di alcol (è comunque del 1970 la partita di Fa Cup in cui segnò sei gol al Northampton). Dal 1973 iniziò a girare per club minori, Stockport County, Cork Cletics, Dunstable Town, Fulham e poi, negli Usa, Los Angeles Aztecs, Fort Lauderdale, Dan José Earthquakes, infine Australia con i Brisbane Lions • «Leggenda del calcio quando il calcio era ancora una leggenda, fuoriclasse infinito, simbolo di un’epoca che ha cambiato il mondo (altro che la zazzera finta del finto Beckham), vittorie sublimi e fegato spappolato dall’alcol, nonché autore di una delle frasi più memorabili del Novecento (’Ho speso un sacco per donne, bevute e auto veloci, il resto l’ho sperperato”)» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 22/7/2003). «Il più eccitante giocatore apparso nel calcio inglese negli ultimi cinquant’anni […] Raccontava del suo ingaggio ai los Angeles Aztecs, un’altra umiliazione, non umana ma tecnica, e del fatto che gli avevano trovato una casa vicino al mare: ”Ma per arrivare all’Oceano dovevo passare davanti al bar. Non sono mai arrivato all’acqua”. Gli ultimi anni sono stati un’odissea prevedibile tra bar, ospedali, persino la prigione […] Un medico, Roger Williams, uno dei tanti che l’ha avuto in cura, ha invocato il bando dai pub, ha chiesto un accordo dei locali pubblici per non vendergli più da bere […] Lui che non saltava i difensori ma ci scherzava, li ipnotizzava, ha trovato sempre difficoltà alle prese con i tutori dell’ordine. Colpa anche del fisico appesantito, l’aspetto un po’ gonfio dei bevitori, bisogna essere allenati per essere un fuorilegge. Eppure un giorno rimorchiava così tante ragazze in minigonna alla Mary Quant da fargli dire che ”se non fossi stato così bello non avreste mai sentito parlare di Pelé” […] La sua salvezza negli ultimi anni è stato il contratto con Sky Sport, la tv a pagamento inglese, per la quale fa il commentatore […] Il suo sogno, raccontato mille volte, era quello di superare in dribbling tutta una difesa, saltare anche il portiere, arrivare sulla linea di porta, fermare il pallone, chinarsi in ginocchio e sospingerlo in rete con la testa. ”Nella finale di Coppa dei Campioni contro il Benfica c’ero quasi riuscito. Avevo lasciato per terra il portiere, ma poi non ho avuto il coraggio di completare il piano. Temevo che al boss venisse un infarto”» (Corrado Sannucci, ”la Repubblica” 8/2/2001). «Portava i capelli lunghi e il pallone dove gli pareva, lasciandosi dietro una scia di gomiti, fiati e gambe tese: poveri terzini rimasti ad acciuffare l’aria, ubriachi di dribbling. E portava i tifosi a bere dopo la partita, lasciandosi dietro una scia di birre, sfiato e bocce vuote: quartini e pinte che presto l’avrebbero perduto, zuppo d’alcol. Portava pantaloni a scacchi e cravatte arancio su camicie viola, ma era speciale con la maglia rossa, lunga e stretta, dei red devils [...] Portava i ragazzi del Manchester sul tetto d’Europa [...] e le ragazze di Manchester, cameriere e commesse, miss e studentesse, nella mansarda della signora Mary Fullaway, dove stava a pensione, o nella villa che si fece costruire più tardi a Branhall, nel Cheshire, una casa tutta specchi che lui chiamava ”il vaso dei pesciolini rossi”. Perché era bravo e bello, George Best, ”e accanto a sé/aveva mille donne se” era il poster che due ragazze su tre in Inghilterra, alla fine dei Sixties, tenevano sopra al letto; una sorta di quinto Beatles, che faceva cantare il pallone. Uno da un gol ogni tre partite (178 reti in 466 incontri) e da tre flirt alla settimana, ché George, spiegò un’amichetta di allora, ”non sa mai dire di no a un viso grazioso”. Uno che saltava gli avversari, ma mai un appuntamento [...] famiglia protestante, Suo padre lavorava al porto. E beveva. Il ragazzino George giocava a pallone nei docks, tra casse e container, faceva a pugni e beveva pure lui. Un giorno dei suoi quindici anni, prese una nave e sbarcò in Inghilterra per provare a diventare calciatore. Lo vide Matt Busby, l’anima di quel Manchester: lo vide e stravide. Perché quel ragazzino era la fantasia, un genio dai piedi fatati: solo un anno dopo, nel ”63, George Best esordiva in prima divisione contro il West Bromwich Albion, diventando l’idolo dei tifosi. Il calcio, non solo quello inglese, aveva trovato un nuovo fiammeggiante poeta [...]» (Cesare Fiumi, ”Sette” n. 31-32/2000).