Varie, 14 febbraio 2002
BETTEGA
BETTEGA Roberto Torino 27 dicembre 1950. Ex calciatore. Con la Juventus vinse sette scudetti (1972, 1973, 1975, 1977, 1978, 1981, 1982) e una coppa Uefa (1977) perdendo due finali di coppa Campioni (1973, 1983). 42 presenze e 19 gol in nazionale, un infortunio lo costrinse a saltare i mondiali del 1982, poi vinti dall’Italia: avrebbe certamente affiancato Paolo Rossi nell’attacco azzurro. Capocannoniere in seria A nell’80, col Varese fu capocannoniere in B (prima di tornare alla Juve, dove era cresciuto), chiuse la carriera nei Toronto Blizzard. Quarto nella classifica del Pallone d’Oro nel 1977 e nel 1978. Da vicepresidente della Juve vinse altri sette scudetti (1995, 1997, 1998, 2002, 2003, 2006, 2007, gli ultimi due revocati), una Champions League (1996), una coppa Intercontinentale (1996) ecc. Retrocesso a consulente dopo lo scandalo ”calciopoli”, restò un’altra stagione alla Juve (vittoria nel campionato di B 2007), poi lasciò per essere richiamato a furor di popolo come vicedirettore generale durante la disastrosa stagione 2009/2010, al termine della quale, fallita la missione di risollevare la squadra, lasciò l’incarico • «Era la terza parte della Triade, la più presentabile e insieme la meno potente: anche nella cadenza dei nomi, perché si diceva sempre ”Moggi, Giraudo e Bettega”, quasi come un marchio commerciale, e lui per ultimo. Il fatto di contare meno, alla fine è stato un vantaggio: perché, pur essendo uno dei tre, nessuno ha potuto dimostrare che fosse come gli altri due. E le intercettazioni di Moggiopoli l’hanno lasciato pulito, anzi ne è uscito deriso proprio dagli ex compari, per via di quella triste telefonata in cui Giraudo insolentiva il figlio di Bettega. Eppure, la sua presenza un po’ fantasmatica ma assai concreta dentro la nuova Juventus (da vicepresidente a consulente di mercato senza cariche ufficiali) era qualcosa di ambiguo, e andava risolta. Perché, delle due l’una: o Bettega non si era reso conto di lavorare con Moggi e Giraudo per dodici anni, oppure non aveva senso che restasse nella sala comandi bianconera. In entrambi i casi, alla Juve non sarebbe più servito. Va anche detto che ai signori Cobolli Gigli e Blanc faceva comodo che Bettega gestisse ancora il mercato, viste le conoscenze e gli agganci: non poteva mica farlo il ragazzo Secco, non ancora. Dunque, l’ambiguità è dipesa essenzialmente da loro, oltre che da vincoli contrattuali (e forse da qualche scheletro nell’armadio) di non facile gestione. In ogni caso, la scelta di separarsi è apparsa la migliore. Con Bettega se ne vanno ventisei anni di storia bianconera, molto bianca e scintillante la prima, in campo, un po’ più nera la seconda, dietro la scrivania. Sette scudetti, l’epopea degli anni Settanta con Boniperti e il Trap, la classe di un attaccante modernissimo e totale, formidabile di testa, cattivo, intelligente, amato da nessuno nello spogliatoio ma prezioso sempre. Ben lo sapeva Bearzot: proprio ”Bobby gol” fu uno dei pilastri della sua nazionale più bella, in Argentina ”78, e se un grave infortunio al ginocchio non lo avesse fermato, Bettega sarebbe diventato a pieno titolo uno dei campioni del mondo dell’82. Come a volte accade ai grandi, gloria e maledizione hanno proceduto insieme: prima la tubercolosi a rallentarne l’ascesa, poi gli incidenti di gioco. Tra i rarissimi torinesi nella storia della Juventus, Roberto Bettega ha incarnato anche la jella legata alla Coppa dei Campioni perduta due volte: nel ”73 a Belgrado contro l’inarrivabile Ajax e ad Atene contro l’Amburgo, dieci anni dopo, in una finale che per tutti era già vinta. Anche per questo, la juventinità di Bettega era e resta fuori discussione. La sua seconda vita bianconera iniziò nel ”94, quando l’avvocato Agnelli lasciò al fratello Umberto la responsabilità diretta della Juve. Con Giraudo amministratore delegato e Moggi, prima consulente e poi direttore generale, Bettega fu nominato vice presidente. Doveva rappresentare la continuità nella rottura. Era il campione al di sopra di ogni sospetto per bilanciare Moggi, che già allora di dubbi ne trascinava non pochi dietro di sè: era infatti reduce dal processo delle interpreti/prostitute al Toro. Nel tempo, Bettega divenne una specie di ministro degli esteri, addetto ai rapporti con i più importanti club d’Europa. Ed è in questo ruolo che ha consolidato la rete di relazioni sfruttata anche da Cobolli Gigli e Blanc. Nel giorno dell’ultimo scudetto poi revocato, a scandalo già esploso, Bettega in tribuna pianse molto. Sarebbe in realtà sopravvissuto un poco alle proprie lacrime, anche se l’immagine di lui accanto a quegli altri due per dodici lunghi anni, ”Moggi, Giraudo e Bettega”, vestiti di scuro e con gli occhiali a specchio, sembrava una caricatura dell’impero del male e resta indelebile. Troppo» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 23/6/2007) • «Nonostante la grave malattia che a ventuno anni rischiò di comprometterne la carriera e si limitò invece a restituirlo diverso, fisicamente e tatticamente, rientra nella ristretta cerchia dei grandi di ogni epoca. I suoi gol di testa hanno fatto il giro del mondo e si può dire che su una tipologia in particolare, il tuffo in volo radente a colpire il pallone parallelamente al terreno, abbia impresso un indelebile copyright: memorabile quello all’Inghilterra il 17 novembre 1976, su cross tagliato da sinistra dall’artista Causio. E poi, a lui spetta il merito del gol più bello del mondiale 1978, l’unico che riuscì a spezzare l’assedio della predestinata Argentina […] Quella volta il leggendario Bobby gol arrivò al cuore dei biancocelesti al culmine di un arioso triangolo con Pablito Rossi, chiuso con un diagonale di quasi solenne precisione. […] Era cresciuto nelle giovanili bianconere e aveva conosciuto il primo calcio importante a Varese, in B, dove a diciannove anni aveva subito impresso il marchio della sua classe, viatico per un pronto ritorno alla base. La pleurite lo colse nel pieno di una spaventosa media gol (10 reti in 14 partite) e lo restituì l’anno dopo appesantito, meno rapido nei movimenti minimi, ma straordinariamente cresciuto nell’intelligenza tattica. Da quel momento, dopo un breve apprendistato nella nuova condizione, divenne una colonna della grande Juventus di Trapattoni e poi della Nazionale. Regale nell’incedere, l’abilità nello smarcare i compagni come nel concludere direttamente a rete secondo antiche abitudini gli tolse la specifictà del ruolo, facendone un attaccante atipico quasi impossibile da neutralizzare: troppo punta per un mediano, troppo rifinitore per un mastino d’area. Meritava più di tutti il Mondiale 1982, ma la sfortuna si accanì ancora contro di lui, un grave infortunio in una collisione con Munaron, portiere dell’Anderlecht, sospese il suo volo a 31 anni, nuovamente nel pieno di una sensazionale media gol in campionato: 5 gol in 7 partite. Tornò l’anno dopo, per riprendere il suo posto tra i grandi del calcio mondiale» (Carlo F. Chiesa, ”Calcio 2000” febbraio 1999).