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 2002  febbraio 14 Giovedì calendario

Biografia di Laura Betti

• (Laura Trombetti) Bologna 1 maggio 1934, Roma 1 agosto 2004, Attrice. Cantante • «Inizia come cantante prediligendo i ritmi jazz e le sonorità dense e impegnate delle canzoni e del teatro brechtiano. Debutta al cinema nel 1956 in Noi siamo le colonne, commediola sentimentale di L. F. D’Amico, ma abbandona subito i toni leggeri per dedicarsi al teatro impegnato e alla rifinitura di un istinto recitativo avido di personaggi forti. Dopo un’apparizione in La dolce vita (1960) di Federico Fellini, incontra il suo pigmalione Pier Paolo Pasolini [...] In Teorema (1968) l’interpretazione della serva contadina che le vale la Coppa Volpi a Venezia. Votata a ruoli impegnati e spesso sgradevoli, avulsi dai diktat della bellezza e evitati in genere dalle attrici protagoniste, tratteggia anche generosi e intensi ruoli secondari [...]» (Cinema, a cura di Gianni Canova, Garzanti 2002) • «Artista geniale e monumentale rompiscatole, adorata e temuta, applaudita da tutti e sfuggita da molti, [...] entrò di prepotenza in scena nel finale di La dolce vita dove Fellini, con una di quelle intuizioni che aveva solo lui, la fece impersonare se stessa. E dove nei panni di una bionda canterina si prendeva pressoché in prima persona un sacco di insolenze da un furibondo Mastroianni, convinto di quello che le gridava anche fuori dalla finzione. [...] Scesa a Roma dalla nativa Bologna forte di un’esperienza di cantante jazz, la ragazza Trombetti si era arditamente infilata negli ambienti che contano aprendo la caccia agli scrittori. Fingeva di essere stata a letto con tutti e divulgava pettegolezzi sulle singole prestazioni sessuali. Arrivò a farmi un disegno per spiegare l’impotenza coeundi di un celebre romanziere. Tutto inventato, o quasi, nell’impegno sornione di crearsi una fama di mangiatrice d’uomini, in parte giustificata all’epoca da un fisico attraente. Ma poco apprezzando le sue sgambettate in calzamaglia sul terrazzo di via Margutta, i dirimpettai telefonavano alla buoncostume: all’epoca la mentalità era quella e chi non ci stava era “contro”. In realtà Laura assediava gli scrittori con il preciso proposito di farsi scrivere dei versi che poi metteva in mano a ottimi musicisti. Nelle sue reti caddero fra gli altri Moravia, Arbasino, Fortini, Parise e (visto e preso per la vita) Pasolini. Perfezionista e ispirata, la committente non si accontentava di qualche rima buttata giù per farla star buona, da ciascuna delle sue vittime pretendeva il meglio, contestava, costringeva a rifare. Ne nacque il memorabile recital Giro a vuoto attraverso il quale la debuttante, autoproclamatasi “la Cantante della Dolce vita”, ebbe il primo successo: il bello è che, dopo tante fatiche, non se ne fece niente perché con la musica smise presto. La carriera della Betti sembra seguire una parabola di tipo francese più che italiano: nasce dal cabaret e la porta, in chiave di spericolato autodidattismo, in scena e sullo schermo. Senza un vero impegno ad accettare certe cose piuttosto che altre, e tuttavia senza risparmiarsi. Prova ne sia che oggi, facendo il bilancio della sua operosità, ci troviamo di fronte a 76 film. Tra i quali quelli subiti contro voglia e girati a scappa e fuggi per ragioni alimentari, perché Laura ha sempre combattuto con la lira, ma con magici momenti di autentico splendore recitativo. Tanto per nominare alcune vette, basti ricordare le sue prestazioni in svariate imprese di Pasolini, Novecento di Bertolucci, Il gabbiano di Bellocchio, Il piccolo Archimede di Amelio, Rapporti di classe di Straub e Huillet, Il grande cocomero di Francesca Archibugi. Che se n’è andato un gran personaggio, lo sanno tutti; ma siamo in pochi a renderci conto (i suoi registi soprattutto e la piccola cerchia dei buongustai della pellicola) che abbiamo perso una grande attrice. Pur non avendo mai fatto un film da protagonista, è stata una comprimaria alla Stroheim. Ovvero uno di quegli interpreti che magari per pochi minuti si appropriano di un film in qualità d’autori di rincalzo, lo investono di creatività e lo fanno ricordare per quello. Lo spartiacque della sua esistenza è stato l’assassinio di Pasolini. Da quel triste novembre del 1975, quando aveva solo 40 anni, Laura Betti si è interamente consacrata alla memoria dell’amico che con Teorema le aveva fatto vincere la Coppa Volpi a Venezia. Si è battuta senza mai mollare, purtroppo invano e litigando con tutti, per stabilire la verità sulle circostanze del fattaccio. Ha scritto libri, girato un film, partecipato a incontri e allestito il Fondo Pasolini che raccoglie una quantità di preziosi documenti e cimeli. Ha lavorato e lottato animata da rabbia, dolore e intelligenza, inclusa una sorta di lucida tracotanza per cui qualcuno l’ha ironicamente definita “la Vedova immaginaria”. Scherzare è lecito, ma bisogna riconoscere che per il suo idolatrato Pier Paolo la Betti ha fatto molto più di ciò che fanno tante vedove vere. Quasi dimentica di se stessa, trascurando di contrastare il degenerare di un’obesità malsana che la limitava artisticamente e la esponeva a rischi di salute; e sempre meno in grado di controllare il suo ispido temperamento nella vita e sul set. Ma in un mondo che perde dì per dì del suo colore, ce ne fossero di tipi straordinari e difficoltosi come Laura Betti» (Tullio Kezich, “Corriere della Sera” 1/8/2004) • «Esempio di coerenza e di coraggio ostinato, bravissima attrice, molto intelligente, aspra, esigente e divertente, antiborghese e mai ipocrita, sempre spiritosa, battagliera, Laura Betti è stata un personaggio unico nello spettacolo e nella cultura in Italia. Recitava nei film e in palcoscenico, cantava, declamava, ed era pure (alla francese, alla Juliette Gréco) amica di artisti, punto di attrazione degli intellettuali: la sua casa di Roma dietro piazza Farnese e piazza Campo de’ Fiori, le grandi case prese in affitto d’estate a San Felice Circeo, diventavano luogo di raduno per la gente di cultura, sedotta da una ospitalità generosa, allegra, turbolenta. Non aveva marito nè figli, non mancava alle battaglie civili: e nessuna difesa fu per lei più strenua di quella di Pasolini, amato con vana passione, con maternità furente. All’inizio degli Anni Sessanta aveva saputo creare un genere teatrale che prima non esisteva in Italia, usando una voce fuori del comune ricca di suoni bassi e a volte rauchi. Al teatro Girolamo di Milano e altrove, metteva in scena la noia, le ambiguità, gli snobismi, la demenza, le nevrosi, i capricci e i drammi dell’epoca; cantava (aveva cominciato come voce del jazz) canzoni che gli scrittori ideavano per lei, Quella cosa in Lombardia di Franco Fortini, Mi butto di Moravia, testi di Calvino e di Buzzati, Ossigenarsi a Taranto di Arbasino (Ossigernarsi a Taranto/è stato il primo errore/l’ho fatto per amore/di un incrociatore). Era strana e bella, con la sua predilezione piccante per la parodia e il grottesco: guance tonde liscissime, occhi azzurri spalancati, capelli pallidi, occhi bistrati, una bocca così piccola, l’incarnato candido, pantaloni e stivaletti neri. Una bambola di Norimberga. Federico Fellini le fece recitare nell’orgia de La dolce vita un personaggio che voleva rappresentarla: ma se Laura Betti incontrava tutti per mestiere d’attrice, se prendeva gli uomini che le piacevano, per la droga e per i soldi non ha mai avuto nessun gusto. Con Vittorio De Sica realizzò la più completa antologia di musiche di Kurt Weill con testi di Brecht e di autori americani: il regista dalla bella voce pastosa interveniva soltanto ne La ballata del magnaccia; per il resto (ventidue canzoni dolci, amare) cantava sempre lei col suo impeto spavaldo, la sua malinconia. Era una donna rara, Laura Betti, e se voleva anche molto simpatica: non di rado il carattere poteva diventare infernale, violento, querulo, le scenate potevano oltrepassare ogni limite, i rancori potevano radicarsi troppo profondamente per tempi troppo lunghi, ma la schiettezza, lo slancio, la durezza-morbidezza della città natale Bologna, il senso del comico e l’umorismo nero, la moralità potente e prepotente la rendevano irresistibile. Al cinema ha interpretato figure memorabili. Con Teorema di Pasolini vinse a Venezia, prima di recitare ne I racconti di Canterbury, di doppiare Hélène Surgère in Salò o le 120 giornate di Sodoma. I Taviani (Allonsanfan), Bernardo Bertolucci (Novecento), Amelio (Il piccolo Archimede), Bellocchio (Nel nome del padre, Il gabbiano), Scola (Il mondo nuovo) Bolognini (Fatti di gente per bene), le affidarono personaggi laterali che per la sua intensa bravura risultavano indimenticati. Per niente snob, un ruolo di caratterista di solida tempra drammatica, arditamente incline a ruoli ingrati o sinistri, poteva recitarlo volentieri pure per Mario Bava (L’ecologia del delitto). Nel 1975, nel giorno dei morti 2 novembre, Pasolini viene trovato ucciso vicino a Roma, e la vita di Laura Betti cambia. Continua a lavorare (soprattutto in Francia, anche con registi importanti come Paul Vecchiali), ma poco: il suo tempo è soprattutto dedicato alla memoria di Pasolini. Indagini disperate sulla sua fine. Un libro che raccoglie i resoconti degli infiniti processi mossi allo scrittore durante la sua vita. La creazione di un Fondo Pasolini (sede prima a Roma, poi a Bologna) che conserva documenti e scritti. L’istituzione di un premio letterario annuale e d’un premio destinato a una tesi di laurea su tematiche pasoliniane. Una tournée internazionale di film di Pasolini scelti tra i più belli. Una propria tournée teatrale con uno spettacolo di liriche e testi pasoliniani, Una disperata vitalità. Fatiche squattrinate e immense (come ricordava presentando l’autobiografia Teta Veleta), grande solitudine la hanno troppo rapidamente logorata, stancata a morte, indebolita» (Lietta Tornabuoni, “La Stampa” 1/8/2004) • «“Ossigenarsi a Taranto / è stato il primo errore: / l’ho fatto per amore / di un incrociatore?” Laura cantava i versi di Arbasino sulla musica di Fiorenzo Carpi e in platea ci fu un boato di applausi. Era il Sessanta, il Sessantuno? Teatro Valle o Teatro Eliseo? Di sicuro si trattava di una ripresa del Giro a vuoto n°2. La platea romana aveva anche applaudito la canzone di Soldati: I hate barocco I hate scirocco I hate Rome. Caschetto di capelli platino, la calzamaglia nera, che le fasciava il corpo dispettoso e piacevole, i tacchi a spillo, il cilindro, il bistro vistoso agli occhi, Laura Betti era la Giaguara per tutti. La dolce vita romana era lei, lei la regina di via del Babuino dove abitava. Miss Flash, anche soprannominata. I rotocalchi erano tutti suoi: riusciva a fare notizia con sagacia inimitabile. Inveiva, insultava, diventava dolcissima, invitante, mostrava le unghie: faceva teatro nella vita quanto sulla scena. Era inequivocabilmente una protagonista. Quegli anni lì, fra il Sessanta e il Sessantacinque, furono il suo paesaggio. Una stagione di ugole d’oro, e di giaguare del teatro e del video. La Callas, Mina, lei. Laura cantava benissimo, cantava quelle canzoni che si faceva scrivere su misura, a misura di corpo, di mente, di voce. Ebbe il genio di chiamare al proprio cabaret parolieri che mai avrebbero pensato di scrivere per il cabaret. In teatro Walter Chiari la lanciò in una rivista, poca cosa, nel Cinquantacinque. Il gran teatro la ebbe con sé in una famosa edizione del Crogiuolo di Arthur Miller, regia di Visconti. Laura e Adriana Asti impersonavano una coppia di ragazzette indemoniate, si scatenavano nel modulare la voce oltre il rigo. Poi Laura cantò qualcosa in un Aristofane a Ostia Antica, regia di Squarzina, mi pare fosse Le donne in parlamento. Fellini la volle in una sequenza de La dolce vita, quella ispirata al famoso spogliarello avvenuto al Rugantino, a Trastevere, dove davvero era stata presente. Erano anni in cui Laura stava dappertutto. Ma il teatro, nel senso della sua routine, non era fatto per lei: non le andava né stretto né largo. In quella routine, Laura non riusciva a starci. Mise al chiodo Filippo Crivelli, e inventò Giro a vuoto. Parise, Pasolini, Moravia, Fabio Mauri, Arbasino, Flaiano, i due dioscuri “formato stanzino da bagno” Sandro De Feo e Ercole Patti, Soldati, un imprevedibile Fortini, Camilla Cederna, Bassani: tutti a scrivere per lei. E lei, puntigliosa, a correggere, a battere il tempo su accenti e sillabe, spietata nel far riscrivere: e tutti obbedienti, anche i musicistri, Piero Umiliani, Piero Piccioni, Luciano Chailly, Marcello Panni. Si passava dall’appartamento, ultimo piano, di via del Babuino, e si veniva bacchettati a dovere. [...] La grande stagione di Laura fu quella: essersi fatta un teatro che le stava a pennello. Spavalda e autosufficiente, per la ricchezza delle sue allusioni, per l’acrobatica leggerezza con cui si esprimeva, è stata irripetibile. Cantava Brecht e cantava “Mi butto!” di Moravia. Ebbe il genio di non uscire mai da quel seminato. Quando andò a Parigi, Breton scrisse un articolo di lodi. Poi venne un’altra stagione: il cinema di Pasolini e la Coppa Volpi meritata per Teorema, il cinema di Bertolucci, e la stessa sua voglia di fare cinema, affidandosi anche al talento di Bava, facendo la spola fra via di Montoro, dove era andata ad abitare dopo via del Babuino, e i Cahiers du Cinèma a Parigi, Jack Lang e Guattari, alle labbra un francese impeccabile. Lavorò con Bellocchio, la Archibugi, Calopresti e con tanti altri. L’avevamo riportata al teatro di prosa con Dacia, in quel teatrino di via Belsiana, un teatro di soli scrittori, la Compagnia del Porcospino, che ebbe per noi vita intorno al Sessantasei. Ricatto a teatro di Dacia Maraini ebbe in Laura, con Carlo Cecchi, l’interprete privilegiata; e fu un successo. Sempre in quella stagione, straordinaria cuoca, cominciò, spesso la sera, a metterci a tavola tutti, anche a Sabaudia al mare: trionfava un enorme gâteau di patate che a Pasolini piaceva sopra ogni cosa e, accanto, tutto quello che lei sapeva replicare in proprio della cucina bolognese. Le piaceva oltremodo mangiare: e questo non le è giovato alla lunga, se è stato il diabete, in qualche modo, ad averla uccisa. Arrivò la vera tragedia, l’assassinio di Pier Paolo, e il suo conseguente, rabbioso apostolato per difenderne la memoria. Un lunghissimo capitolo [...] segnato sempre da eccessi e da tempeste. Ormai che ne aveva consegnato il frutto, l’archivio, alla Cineteca di Bologna, come a missione compiuta, si è stancata di vivere. Parlava presumendo che tu avessi chiaro quel che lei aveva in mente: rifiutava spiegarsi. Generosa? Generosissima. Ma più d’uno che ha lavorato con lei è scappato via spaventato, ammalato. Però, come non volerle bene? Laura Betti, una straordinaria anomalia nella cultura italiana dello spettacolo. Un fascio di leggende, a partire dalla sua età» (Enzo Siciliano, “la Repubblica” 1/8/2004).