Varie, 14 febbraio 2002
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Biagi Enzo
• Pianaccio (Bologna) 9 agosto 1920, Milano 6 novembre 2007. Giornalista. Diciottenne comincia come cronista al ”Resto del Carlino”; diventa professionista a 21 anni. La carriera: 1952-1960, dirige a Milano il settimanale ”Epoca” . In seguito collaborerà con ”La Stampa” , ”la Repubblica”, ”Corriere della Sera”, ”Panorama”; 1961, diventa direttore del Telegiornale; 1969, cura Dicono di lei , un programma d’interviste a personaggi famosi. Tra le oltre ottanta trasmissioni da lui realizzate: Film dossier (1982), Linea diretta (1985 e 1989), Il caso (1988), Il fatto (giunto all’ottava edizione). Ha pubblicato circa ottanta libri: il romanzo Disonora il padre e, tra i più recenti, editi da Rizzoli: 1943: un anno terribile; L’albero dei fiori bianchi; Quante donne; Scusate, dimenticavo; Ma che tempi; Cara Italia; Odore di cipria • «[...] Il suo paese è Pianaccio, frazione di Lizzano in Belvedere, appennino bolognese, dove il giornalista- scrittore nacque il 9 agosto 1920 da famiglia umile. ”Quando mancava l’arrosto, mia madre metteva in forno il rosmarino tra le patate e si diffondeva profumo di benestanti”. Il padre Dario era operaio in uno zuccherificio. Morì anche lui in questa stagione, 28 ottobre del ”42. Le sue ultime parole al figlio in ospedale: ”Prenditi il mio orologio o qui lo fanno sparire”. Il bambino Biagi passava ore davanti alla Cassa di Risparmio, dov’era impiegato Gianni, portiere del Bologna. Ma era malaticcio, il suo vero sport era leggere. A 6 anni si era già fatto la Bibbia, i Miserabili e Jack London. Si immaginava pediatra, poi a 13 anni scrisse in un tema ”Voglio fare il giornalista”. Da grande preciserà: ”Non so fare altro”. Scrivere con una regola guida: ”Spiegare le idee con i fatti e i fatti con gli uomini”. Cioè una scrittura piena di vita, vicina alla gente, come le pagine dei Miserabili. Biagi ha raccontato la storia a fumetti, ha semplificato la geografia. La divulgazione è il genere simbolo della sua opera: spiegare in modo semplice le cose difficili. Lo ha fatto anche da giornalista, imponendosi tre doveri: ”Non annoiare; capire; farsi testimone, mai protagonista”. Leggendo un suo articolo, assistendo a un suo programma d’approfondimento, comprando un suo romanzo, una sua strenna natalizia, la gente ha avuto sempre la percezione di mettersi in casa uno di famiglia, uno zio saggio, un patriarca come Montanelli, ma più alla mano, più morbido, meno innalzato dal carisma. L’amico Indro (con cui condivideva la passione per fiorentina e fagioli), è stato avventuroso inviato di guerra e gambizzato dai terroristi. Biagi è stato partigiano ”ma non ho sparato un colpo”, spiegava che detestava viaggiare e ricordava di aver scritto il primo pezzo su Seveso, perché i grandi inviati, che misuravano l’importanza del servizio dai chilometri percorsi, non si volevano muovere. Antieroico. Pianse quando lasciò Bologna per Milano nel ”52. Lavorava metodicamente 7 ore al giorno, come la gente in ufficio. Scriveva troppo, lo accusavano. ”Direste a un chirurgo che opera troppo?” si difendeva. E aggiungeva: ”Scrivere mi fa compagnia”. La gente ospitava Biagi in casa anche (soprattutto) per la sua credibilità etica. Nel ”60 attaccò il governo Tambroni e fu costretto a lasciare Epoca. Della sua avventura alla direzione del telegiornale (’61-63) ha raccontato: ”Credevo che bastasse soddisfare la gente. Dopo un mese capii che sbagliavo”. Bisognava accontentare anche i ministri. Se ne andò. L’epurazione dalla Rai dopo l’’editto bulgaro” di Berlusconi (2002) che accusò Biagi di ”uso criminoso” della tv, riferendosi alla trasmissione Il Fatto, è storia recente. Enzo Biagi è tornato in tv il 22 aprile 2007, per RT-Rotocalco Televisivo. Salutò dicendo: ”C’è stato qualche inconveniente tecnico e l’intervallo è durato cinque anni”. La solita garbata ironia, che il suo vastissimo pubblico ha imparato ad amare, come la sua schiena dritta. Assicurava: ”Le mie poche bugie le ho dette a mia moglie”. Vicino alla gente e quindi allo sport. Tifava Bologna, un tempo andava a vedere il Milan con Oreste del Buono, era amico di Enzo Ferrari, parlava di Juve con l’Avvocato cui dedicò il libro Il signor Fiat, più di tutti ammirò Fausto Coppi, che inserì in Mille camere [...] una volta, sulla Gazzetta, si descrisse come Lelio Antoniotti, attaccante degli anni 40-50: ”Debole fisicamente, divertiva con le sue invenzioni”. Forse, come epitaffio, non gli dispiacerebbe» (Luigi Garlando, ”La Gazzetta dello Sport” 7/11/2007) • «[...] Aveva 17 anni quando ha cominciato a scrivere. Non ha più smesso. Primo articolo sull’Avvenire d’Italia: ”Marino Moretti è crepuscolare?”. Un debutto che evoca ricordi di scuola, il vecchio maestro, gli scritti sul giornalino di classe: Il Picchio. A vent’anni è già cronista, estensore al Carlino Sera, riscrive gli appunti dei reporter. Le regole del giornalismo sono austere, prefetto e maresciallo si scrivono ancora con la maiuscola, in redazione arriva il foglio con gli ordini di Mussolini. Ma Giovanni Telesio, il direttore, è un gentiluomo: gli pubblica il primo scoop con un’edizione straordinaria. la truffa di Cadranel, il fachiro che a Bologna digiuna per un mese chiuso in una bara di vetro. Biagi scopre che di notte gli passano zucchero e carne tritata. Il Carlino vende uno sfracello di copie. ”Non era andata così neanche per la presa di Addis Abeba”, ricorda nei suoi libri. Nel ”42 la patria lo chiama, si presenta al corso allievi ufficiali: il cuore è già matto, finisce ai servizi sedentari. Nel giugno ”44 attraversa i campi e va in montagna coi partigiani: una scelta di vita. ”Combattente anomalo”, racconta: la sua pistola non ha mai sparato un colpo. ”Sono contro anche a chi fa bum con la bocca”. In trincea dirige un giornale che si chiama ”Patrioti”. Brigata ”Giustizia e Libertà”, la prima che entra a Bologna con gli alleati. Della Resistenza gli resta un orgoglio mai scalfito: ”Abbiamo combattuto per un Paese più libero”. lui, alla radio della Quinta armata, con Antonio Ghirelli e Tommaso Giglio, ad annunciare che la guerra è finita. A Bologna fonda Cronache, con Giorgio Vecchietti e Lamberto Sechi. Collaborano anche Bolchi e Fellini. Insieme a Pietro Garinei s’inventa il ”Giornale parlato”: botta e risposta con il pubblico su un tema d’attualità. E scrive, scrive, scrive. Il servizio sulla tragedia del Polesine finisce nelle antologie e Arnoldo Mondadori gli offre il posto di caporedattore a Epoca. Biagi ha trent’anni. ”Sono partito piangendo, mi sentivo un emigrante”, racconta. Comincia il suo viaggio più lungo, quel giro intorno al mondo che sembra non finire mai. Direttore di Epoca, nomina sul campo dopo una copertina sul caso Montesi: guadagna 90 mila copie in due settimane. Un giorno, però, attacca il governo Tambroni. Scrive ”Sette poveri inutili morti” quando la celere carica gli operai delle officine di Reggio Emilia. Il mattino dopo il ministro chiede la sua testa. Arnoldo Mondadori lo abbraccia piangendo: ”Posso offrirle un altro incarico”. Biagi si confida con la moglie. Tutto ciò che ha fatto, lei lo ha vissuto. ”Se accetti non ti rispetterei più”, gli dice. Non accetta. E si licenzia. Ha un certo carattere, però è bravo. L’anno dopo, nel 1961, Ettore Bernabei lo chiama alla Rai. Direttore del telegiornale. Si presenta dicendo: ”La mia tv sarà al servizio del pubblico e non dei politici”. Elimina il taglio dei nastri, le veline politiche. Inventa Rt, il primo rotocalco televisivo. Manda le telecamere in piazza, a Corleone, il paese della mafia. Fa commentare certi fatti a Montanelli e a Bocca. L’Osservatore romano lo critica. La Dc non lo ama. Quando invita il segretario comunista Togliatti a una Tribuna politica, Scelba, il ministro di ferro, si irrita. Gestione senza pace: non dura. ”Ero l’uomo sbagliato al posto sbagliato”, ha detto più volte. La Rai gli offre di girare il mondo, grandi reportage, grandi interviste. E lui vola dappertutto. Inizia ”l’era biagiana”, racconta l’amico Pietro Garinei. Libri, articoli, trasmissioni tv. Giulio De Benedetti, il direttore che si è inventato la cronaca, sulla Stampa vuole i suoi pezzi ogni domenica: gli operai sono a casa, in tavola c’è il bollito, a pagina tre c’è una storia firmata da Biagi. Raccontare la vita in diretta dal mondo gli piace. Scrive per Oggi e per l’’Europeo. Va in America, Russia, Francia, Cina, Polonia, Scandinavia, ogni viaggio diventa un libro, un dossier tv. E ogni volta è best seller. Il giorno di Dallas, quando ammazzano Kennedy, è sul posto per una serie di interviste. Detta a braccio un pezzo di cronaca; poi ne inventa un altro: cosa succede in America, nella stessa ora in cui il presidente viene colpito da Oswald. Il pezzo non esce. De Benedetti lo cestina. Voleva un altro articolo, Biagi style: emozioni, lacrime, sentimenti. ” l’unico direttore che mi ha fatto piangere”, dirà Biagi. Piange e si dimette, su due piedi. Era una firma, diventa una faccia. Tra i grandi del giornalismo scritto, è il migliore nella resa in tv. Entra nelle case degli italiani e la popolarità aumenta. Sul suo iperattivismo sorride: ”Sono vissuto con l’ossessione di non farcela”. Se ne infischia del cuore zoppicante e della salute cagionevole. Il pubblico lo ama, si affeziona a un marchio che è una garanzia: non bara. A cinquant’anni, nel 1970, lo chiamano a dirigere il Resto del Carlino. Nel giornale dove ha cominciato ci va pensando al padre: sarebbe stato orgoglioso. Non ha soggezioni fin dal saluto ai lettori: ”Consideriamo il quotidiano un servizio pubblico. Come i trasporti e l’acquedotto: non manderemo nelle vostre case acqua inquinata”. La tiratura sale con il supplemento tv e la storia a fumetti, ma la linea editoriale è sotto accusa. Biagi non pubblica i discorsi della domenica del ministro delle Finanze Preti, amico dell’editore, il petroliere Attilio Monti. ”Non c’era notizia, perché dovevo farlo?”. Poi fa intervistare don Milani, il prete eretico di Barbiana, e un servizio sulla maggioranza silenziosa crea polemiche. Le copie vanno bene, ma certi giornalisti no, lascia capire Monti. Biagi difende i colleghi: ”Li ho scelti io, se devono andarsene lo facciamo insieme”. Un altro addio, con amarezza. ”Non bisogna mai tornare dove si è stati felici”, ripete citando quello che gli aveva detto Dollman, l’interprete di Hitler. Dicono che è di parte, lui non lo nasconde. ”Senza un punto di vista, che poi è morale, non c’è giornalismo”. Per l’Unità degli anni Sessanta è un qualunquista. Ma Fortebraccio gli vuole bene. Per la Dc è troppo socialista. Ma Papa Giovanni legge i suoi pezzi. Agnelli e Ferrari si confidano con lui. Ma lui scrive per la gente, quella che fa la coda alla Asl e la spesa al supermarket. imitato, ma non eguagliato. Buscetta, il boss pentito della mafia, si confida con lui. Sue anche le ultime confessioni di Marcello Mastroianni, un mito italiano. un monumento, con il senso del dovere di un praticante. Un giorno, nel ”76, gli chiedono di andare a Seveso: le grandi firme del Corriere disdegnano il servizio, troppo vicino a casa. Lui accetta: ”Il rango di un inviato non si misura dai chilometri”. Scrive il pezzo a mano, sul solito block notes. Va in prima pagina: è lo scandalo diossina. Si espone, anche in solitudine. Difende Enzo Tortora dall’accusa di camorra. Chiede scusa al professor Schillaci, un padre indagato ingiustamente per abusi sulla figlioletta malata: e se la prossima volta toccasse a uno di noi? chiede ai colleghi giornalisti. Sta dalla parte di Falcone e Borsellino, dei preti di strada, come don Milani, don Zeno e don Mazzolari, di Ferruccio Parri che un giorno gli confessa ”Sai, Enzo, forse era meglio morire durante la Resistenza”, di Pietro Nenni che del socialismo gli dice che ”deve aiutare chi sta indietro a fare un passo avanti”, di Sandro Pertini che trascina l’Italia negli anni delle stragi e degli attentati. Non sta dalla parte di Bettino Craxi, anche quando è conveniente esserlo, e si prende del ”moralista un tanto al chilo” per aver inquadrato il nuovo segretario del Psi negli anni dell’ascesa al potere con una dicitura-lampo: ”Di sicuro sa quello che vuole, e non sta certo a sottilizzare sul prezzo”. Sulla questione morale certe cose le ha dette in anticipo, quando non si dicevano o era sconveniente farlo. Paga l’ostracismo del Psi garofanato, negli anni dei nani e delle ballerine alla Rai, con boicottaggi e polemiche su ogni trasmissione, e con qualche veto su certe direzioni importanti. Alla fine ammette che gli piace più fare che dirigere, ha più libertà. Mondadori e Rizzoli, i due grandi editori che se lo sono contesi per una vita perché mandava i fatturati alle stelle con le sue idee e i suoi libri, gli garantiscono un ufficio a Milano, in centro. Il posto che sente più suo è uno sgabuzzino in Galleria, sopra la libreria Rizzoli. Quando non è in giro per il mondo fa orari da bancario. La sera, dopo il tg, le telefonate alle figlie, un saluto ai nipoti, qualche pagina di un libro e poi clic, spegne la luce. Pochi amici, niente hobby, astinenza dai salotti, e un’alleanza complice, di vita e sentimenti con la moglie Lucia. ”Se sono quel che sono lo debbo a lei”. In tv con cinque minuti di cronaca, ogni sera fa un’editoriale. Con Loris Mazzetti, il suo regista, tiene botta fino al niet berlusconiano. Rai e Corriere negli ultimi trent’anni diventano la sua casa, con una parentesi a ”Retequattro» e a Repubblica. Ha un brutto carattere, è permaloso. Ma paga di persona, ci mette sempre la faccia. ”Meglio avere rimpianti che rimorsi”. Quando scoppia lo scandalo P2 al Corriere, va in assemblea nella Sala Albertini: ”Non posso stare in un giornale che al suo direttore chiede la tessera della massoneria”. Manda il pezzo per la rubrica. Si chiama ”Strettamente personale”, è una bomba. Scrive: ”Nessuno è consacrato degno per principio; tanto meno un quotidiano, che vive sull’effimero. Il Corriere non può essere sconfitto da Licio Gelli e dai suoi candidi o malvagi seguaci. Dietro di me non c’è altro che la mia coscienza: nei miei programmi futuri soltanto la tomba. Che, vorrei, è ovvio, più lontana e con una lapide: Scrisse quello che poteva, mai quello che non voleva. Amen”. Un epitaffio da Spoon River, dettato con 26 anni di anticipo. Un bel finale. [...]» (Giangiacomo Schiavi, ”Corriere della Sera” 7/11/2007) • «Ho deciso di diventare giornalista a tredici anni guardando la valigia di un inviato speciale con tante etichette di alberghi. M’attirava viaggiare, l’avventura, andare a cercare storie, anche se sono uno che non ama i viaggiNon li amo in senso turistico. Non sono mai nadato, per sempio, in America per vedere le Twin Towers o le cascate del Niagara. Io andavo in America per incontrare Malcolm X, per vedere due dei tre fratelli Kennedy. Ho preso il tè con Eleonora Roosevelt e sono andato a cena a Chicago con Enrico Fermi […] Non so se sono rimasto un ragazzo, ma, come scrive Bernanos, mi piacerebbe che non fosse morto il ragazzo che fui. Ho girato per il mondo, ma penso di non essermi mai mosso dalla piazzetta del villaggio dove sono nato […] Sono un battezzato, ma non un praticante Ho un rapporto costante con Dio e sono uno che prima d’addormentarsi recita un atto di contrizione per i suoi peccati» (Alain Elkann, ”La Stampa” 28/11/1999). Dice di sé: «Non sono un uomo buono per tutte le stagioni, sono buono per il mio mestiere»: Celeberrima una sua battuta su Silvio Berlusconi: «Se avesse le tette farebbe la presentatrice». «Lavoro molto. E vorrei essere creduto: mai avuto negri. Posso citare la risposta del grande romanziere viennese Musil? ”Orario: 9-12,30; 16-19; talvolta anche di sera”. Io mezz’ora in più. Guadagno molto bene, ma ho un socio che come minimo incassa la metà di quel che porto a casa: lo Stato». Qual è il ricordo più drammatico? «Ero a Parigi a intervistare Toni Negri e mia madre stava male, morì tirandosi su nel letto e allungando le braccia: ”Dario, abbracciami, vengo”. Invocava mio padre. Io non c’ero. Ho avuto rimorso». Chi le è rimasto più impresso? «Giulio De Benedetti, il direttore della ”Stampa”. Aveva un intuito, un’intelligenza giornalistica straordinaria. E una durezza, anche: mi fece piangere». «Sono un signore abitudinario. Mi sentivo ripetere da mia madre: prima i compiti, poi i giochi. Ho giocato poco. Ancora non mi hanno detto di scendere dal ring. Spero che un giorno me lo dicano con garbo. Ho 81 anni, ogni giorno è una sorpresa. Nuoto senza guardare la riva. Sono curioso di vedere come va a finire”» (Claudio Altarocca, ”La Stampa” 7/11/2001). «[…] Una volta feci un pezzo su Bartali, un pezzo memorabile per la sua lirica stupidità. Cominciava: ”La vecchiaia ha raggiunto Bartali ieri alle 14 e 27 sul Pordoi”. Mi ero lasciato ingannare da una crisi passeggera e avevo decretato la fine sportiva di Gino Bartali. Quello stesso anno Bartali mi dette una dura e silenziosa smentita vincendo il Giro di Francia. Ero stato stupido e supponente […] mio padre morto giovane a 50 anni. Ci siamo passati accanto senza conoscerci. Non ho avuto il tempo di capire la solitudine di quest’uomo. Le grandi umiliazioni che aveva sofferto. E non trovo giustificazioni. Poi mia madre. rimasta vedova a 45 anni. Per me era una vecchia. Io ne avevo già 22. Non ho mai immaginato che poteva avere un’altra vita. Non ci ho mai pensato. L’ho sempre vista vestita di nero. […] Ho avuto uno zio fascista di Salò fucilato dai partigiani […] Mio cugino Bruno era viceministro di Mussolini. Il mio antifascismo è stato una scoperta cinematografica e letteraria. Per me sono contati molto i film francesi, Renoir, tutta la visione di un mondo pessimistico, i racconti di Faulkner […] Hanno scritto che io ho mollato Craxi perché non ho avuto la direzione del ”Corriere della Sera” […] è successo il contrario. Io non ho avuto la direzione del ”Corriere”, come qualcuno può testimoniare, perché avevo attaccato Craxi. Comunque non è stato il dramma della mia vita […]» (Claudio Sabelli Fioretti, ”Sette” n. 8/2000). Vedi anche: ”Sette” n. 43/1999; Francesco Cevasco, ”Sette” n. 19/2000; ”Corriere della Sera” n. 52/2000;