varie, 14 febbraio 2002
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Bonaventura Umberto
• Catania 20 ottobre 1939, Roma 7 novembre 2002. «Uno dei principali 007 italiani. Un ”vero ufficiale di razza” (secondo la definizione del giudice veneziano Carlo Mastelloni) che nella sua lunga carriera tra la divisione ”Pastrengo” dei carabinieri e il Sismi, s’era occupato di alcuni tra i principali misteri italiani: dalle carte scritte da Aldo Moro durante la prigionia e trovate nel covo delle Brigate rosse di via Montenevoso, a Milano, alla gestione del pentito Leonardo Marino, l’accusatore di Sofri, Bompressi e Pietrostefani nell’indagine sull’omicidio Calabresi» (Giovanni Maria Bellu, ”la Repubblica” 8/11/2002). «Gli accertamenti sull’asse Mosca-Londra- Roma per il caso Mitrokhin e la gestione del pentimento di Leonardo Marino nell’indagine sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi, il ritrovamento ”a puntate” del memoriale di Aldo Moro nascosto nel covo milanese delle Brigate Rosse di via Montenevoso. E altre delicatissime indagini prima accanto al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, poi in prima fila tra gli 007. L’investigatore entrato nella storia di alcuni dei misteri che hanno riempito per anni le primti i giornali e scosso i palazzi del potere[...] Ex capo della I Divisione ed attuale direttore dell’Ufficio Analisi controspionaggio, terrorismo internazionale e criminalità organizzata del Sismi» (Flavio Haver, ”Corriere della Sera” 8/11/2002). «Dire colonnello Bonaventura significa parlare di almeno tre decenni di vicende misteriose e, in gran parte, mai chiarite. E non perché fosse uomo oscuro. Era il suo ruolo che doveva rimanere nell’ombra: un ruolo defilato, più di studioso che di militare. Sapeva ”leggere”, da una carta insignificante riusciva a disegnare uno scenario e, spesso, anticipava le mosse del nemico. Si trattasse di terroristi, o di delinquenti o mafiosi. [...] Il nome del colonnello è una sorta di guida tra i meandri di storie nere: da Feltrinelli al commissario Calabresi (e alla discussa - perché ritenuta tardiva - scoperta del contestato pentito Leonardo Marino); poi la lotta al terrorismo, le Brigate rosse, il covo di via Montenevoso e la conseguente «telenovela» politico-giudiziaria del memoriale di Aldo Moro trovato, fotocopiato, riposto dietro un pannello e ”dimenticato” per anni, per essere tirato fuori quando nessuno ci pensava più. Un pezzo di lotta politica che abbiamo incrociato persino nel processo contro Giulio Andreotti, laddove si adombrò lo scenario di un Dalla Chiesa che gestisce il memoriale di Moro prigioniero dei brigatisti in modo che le istituzioni (e quindi l’ex presidente del Consiglio Andreotti) non venissero prese alla sprovvista dal tornado che quelle carte erano in grado di provocare. Ecco, chi si occupò di fotocopiare il dossier di via Montenevoso per darne una copia a Dalla Chiesa fu proprio lui, il colonnello Bonaventura. Ma, come ha ripetuto fino al maggio del 2000, durante l’audizione alla Commissione stragi, ”fu fatto tutto in regola”. Da ufficiale dell’Arma (seppure passato al Sismi) non cercò di sfuggire alle responsabilità, sottoscrivendo che tutto ciò che avvenne in via Montenevoso era certificato dal verbale di sequestro ”regolarmente firmato”. Era uno dei fedelissimi di Dalla Chiesa. Sin dall’inizio della lotta al terrorismo: cioè sin dalle indagini sulla fine dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, inchiesta fortemente compromessa da pesanti depistaggi ed ingerenze di qualche servizio segreto straniero. Arrivava da Venezia, il colonnello, proprio mentre prendeva corpo il terrorismo delle Br: il sequestro Sossi, le indagini sulle ”colonne” torinesi. Il primo nucleo di Dalla Chiesa: sei uomini e uno era lui, che ”si inventò” l´analisi, cioè la lettura di documenti, rivendicazioni e scritti vari dei terroristi. ”Decidemmo - ricordava l’ufficiale - di non cercare più le armi e i soldi ma di capire i meccanismi che portavano alla nascita del terrorista”. E questo sistema sarà poi adottato dallo stesso Dalla Chiesa e da tutti i suoi collaboratori. Per la prima volta i cosiddetti ”Nuclei Speciali” riescono a pedinare i soldati delle Br e, attraverso vari sistemi di ascolto (i famosi ”baracchini” mimetizzati dentro i furgoni), ascoltano i discorsi del terroristi in presa diretta. Era una mente raffinata: preferiva rischiare di perdere una traccia, piuttosto che intervenire intempestivamente precludendosi la possibilità di maggiori conoscenze di uomini e cose. Lui, per esempio, non avrebbe voluto l’arresto di Curcio e Franceschini che erano seguiti da tempo. Fu Dalla Chiesa a decidere l´intervento e lui non esitò a contestare la scelta. Il colonnello avrebbe preferito ”dare corda” ai due, certo che lo avrebbero portato ad una svolta nelle indagini per smantellare l’intera organizzazione. Curcio, d’altra parte, Bonaventura lo ”studiava” sin dalle assemblee all’università di Trento e, dopo anni, ne riconosceva lo stile e il metodo. Quando Domenico Sica divenne Alto commissario per la lotta contro la mafia, lo volle nella squadra. La criminalità diveniva transnazionale e, dunque, risultava preziosa la capacità analitica e di collegamento dell’ufficiale. Fu una parentesi non molto lunga: nel ’92, infatti, il colonnello entrerà nel Sismi proprio mentre - per la prima volta - il servizio segreto si apprestava a mettere in campo una ”Divisione Criminalità”» (’La Stampa”, 8/11/2002). «Un gentiluomo siciliano d’altri tempi, solitario, puntuale, metodico, che viveva per il lavoro e forse conosceva la verità su alcuni dei grandi misteri d’Italia. L’immancabile sigaretta in bocca, gentile e sorridente ma molto riservato [...] Una vita da single, senza hobby, nessun amico, niente contatti con i vicini della casa di Trastevere in cui pure viveva da nove anni. ”Non mi sono mai sposato, la mia famiglia siete voi colleghi, mia sorella che vive a Palermo, le sue figlie, sua nipote, non ho nient’altro”, diceva ai pochi con i quali talvolta si confidava al Sismi. Senza però mai fare cenno alle inchieste di cui si era occupato. Del resto il suo essere un uomo di poche parole era ormai una deformazione professionale obbligata, da protagonista dell’antiterrorismo e del controspionaggio. Laureato in legge, ha iniziato a lavorare ai grandi casi a Venezia, dove ha indagato con altri colleghi veneti e friulani sulla strage di Peteano, in cui morirono tre carabinieri, una strage che dopo 30 anni ha ancora molti punti oscuri, nonostante la confessione del neofascista Vinciguerra» (Ro. San., ”Il Messaggero” 8/11/2002).