Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  febbraio 14 Giovedì calendario

BinLaden Osama

• Gedda (Arabia Saudita) 10 marzo 1957, Abbotabad (Pakistan) 2 maggio 2011. Terrorista. Capo e ideologo della rete terroristica al Qaeda, fu la mente e lo stratega dell’attacco all’America dell’11 Settembre 2001 • Il più giovane di 24 fratelli (o 49, o 53) di una famiglia titolare di una delle più grandi imprese di costruzione del mondo arabo, esperto di legislazione coranica, nel 1979 si trasferì in Afghanistan per combattere al fianco dei Mujahiddin contro l’esercito sovietico. Nel 1987 si rifugiò a Peshawar (Pakistan) mantenendosi in contatto con la Cia. Divenuto anti-americano, nell’88 fondò Al Qaida, una rete terroristica che collegava i movimenti islamici di una trentina di Paesi per la promozione della “guerra santa” contro gli occupanti non-musulmani del mondo arabo; nel 1995 emise una Fatwa contro gli Stati Uniti. Espulso dal Sudan nel febbraio 1996, si rifugiò in Afghanistan dai Talebani. nell’agosto 1996 dichiarò guerra agli Stati Uniti. Nel 1998 due bombe esplosero alle ambasciate americane di Nairobi e Dar Es Salaam causando centinaia di morti e feriti e la rappresaglia Usa sulle sue basi in Sudan e Afghanistan. Nel 2001 fu il mandante dell’attacco al World Trade Center che scatenò la guerra dell’Afganistan. «[...] Da allora lui e la sua organizzazione diventata Al Qaeda (la base) esportano dall’Afghanistan e dai covi dormienti in Occidente gli attentati che tutti abbiamo impressi nella memoria, come quelli di Londra e di Madrid e molti altri di minore importanza, ma non per questo meno odiosi e crudeli. Stanarlo non fu facile. Lo testmoniano l’epica offensiva contro le montagne di Tora Bora che andò a vuoto e mille altri tentativi per liberare il mondo dalla sua ombra sinistra [...]» (Giancesare Flesca, “il Fatto Quotidiano” 3/5/2011). Fu ucciso con un colpo alla testa da agenti americani: «[...] La ricostruzione fatta dagli americani parla di un blitz rapido, svoltosi in 45 minuti: i commandos Usa (una ventina di uomini in tutto) sono atterrati e hanno fatto irruzione nella villa. Di fronte alla resistenza degli uomini hanno sparato, uccidendo Bin Laden con un colpo in testa: il corpo del terrorista sarebbe stato prelevato e portato via sugli elicotteri, per effettuare un test del Dna. Dopo uno stop in Afghanistan per le analisi e confermato che fosse davvero il suo, è stato gettato in mare. [...]» (Ali Shafqat, “la Repubblica” 3/5/2011) • «Da ragazzino Osama giocava a pallone, centravanti, perché con la sua altezza segnava bene di testa. Però era timido e lasciava la fascia di capitano ai compagni più piccoli. Non ci sono solo curiosità come questa nel libro di Peter Bergen The Osama bin Laden I Know, l’Osama bin Laden che conosco, biografia del terrorista più braccato al mondo. Anche i dettagli, però, aiutano a capire la costruzione dell’uomo che ha fatto diventare realtà lo scontro fra le civiltà. Bergen aveva conosciuto il capo di al Qaeda nel 1997, quando lo intervistò per la Cnn, ma il suo rapporto è stato superficiale. Perciò ha intervistato una cinquantina di persone che hanno vissuto vicino a Osama, dal cognato al maestro di inglese, per farselo raccontare dal vivo. Osama è nato nel 1957 da Mohammed bin Laden, costruttore originario dello Yemen diventato miliardario in Arabia Saudita. Aveva 53 fratellastri e sorellastre, nati da oltre 20 matrimoni diversi, ma lui era figlio unico di sua madre. Da bambino era fanaticamente religioso: pregava sette volte al giorno, digiunava il lunedì e il giovedì, ed era convinto che Allah l’avrebbe punito se non gli avesse obbedito. Secondo il suo maestro di inglese, Brian Fyfield-Shayler, “era timido e certamente non il cervello del gruppo”. Usava i soldi del padre per aiutare i poveri di Jedda, ma era abituato al lusso, e amava i film western e quelli di Bruce Lee. Durante un viaggio in Svezia col fratello preferito, Salem, girava in Rolls Royce e comprava camicie di Christian Dior e Yves Saint Laurent che buttava dopo averle indossate una sola volta. Però aveva deciso di non seguire l’esempio del padre, che aveva divorziato 20 volte: lui si sarebbe attenuto alla “monogamia poligama”, ossia le quattro mogli consentite dalla legge islamica, sostituendone solo una perché lei aveva deciso di abbandonarlo quando era in Sudan. La svolta della sua vita è avvenuta alla Facoltà di Economia della King Abd al Aziz University di Jedda, dove ha conosciuto il professore palestinese Abdullah Azzam. Lui reclutava militanti per combattere i sovietici in Afghanistan, e aveva creato il Services Bureau a Peshawar, in Pakistan. Così Osama era arrivato nella regione, dove poi aveva costruito la sua prima base a Masada, vicino al villaggio afghano di Jaji. In quel periodo aveva conosciuto il medico egiziano Ayman al Zawahiri, diventato poi suo vice, e si era radicalizzato studiando il pensiero di Sayyid Qutb. Zawahiri lo aveva convinto a globalizzare la guerra santa vinta contro i sovietici. Forse è stata la morte del fratello Salem in un incidente aereo in Texas a spingere Osama a puntare gli occhi sull’America. L’amicizia di Zawahiri con lo sceicco cieco Omar Abdel Rahman, arrestato nel 1993 per il primo attentato alle Torri Gemelle, lo avrebbe spinto a colpire New York. Forse aveva anche visitato l’America in segreto, per far curare un figlio. Bergen sostiene che la ricchezza di Osama è esagerata: il padre non gli ha lasciato 200 milioni di dollari, ma 20. Non è malato ai reni e non fa la dialisi, però soffre di pressione bassa e forse della sindrome di Marfan, come Lincoln. Non sopportava Saddam, con cui non avrebbe mai collaborato, ed era davvero a Tora Bora, da dove gli americani lo lasciarono scappare. Anche quando non era braccato si era abituato a mangiare formaggio rancido e bere acqua calda, ma non si nasconde in una caverna. Vive in maniera agiata in Pakistan, ama guardare Larry King sulla Cnn ed è fissato con le notizie. Vuole morire nella guerra santa per ricreare il califfato, e se ci riuscirà diventerà ancora più pericoloso come martire» (Paolo Mastrolilli, “La Stampa” 26/1/2006) • «[...] Giaccone militare, tuta mimetica, kalashnikov, l’antro di una grotta e dirupi scoscesi. Immagini di condottiero, di capo militare. Il “primo” Osama bin Laden è in quelle immagini e nel proclama del 7 ottobre del 2001, neppure un mese dopo le Due Torri: “Questa è l’America colpita in uno dei suoi organi vitali da Dio Onnipotente, così che i suoi edifici più grandi sono stati distrutti”. Voleva sfidare e sconfiggere l’Occidente, allora. L’ultimo, il 29 ottobre 2004, tre anni dopo, documenta la “metamorfosi” - da “Osama-stratega militare a Osama-attore politico” - del leader di Al Qaeda: da condottiero Bin Laden si trasforma nell’“ideologo della guerra civile in Iraq tra sunniti e sciiti”, presentandosi davanti alla telecamera con “la jallaba bianca bordata d’oro, un costume da alto dignitario tribale”: “In atteggiamento da conferenziere (sta leggendo da un podio un testo scritto) si rivolge agli americani, porgendo la mano e ritirando il braccio. Il suo è un voto di scambio, offre la pace, ma assicura ’una guerra di logoramento’ se non cesseranno gli attacchi contro i musulmani in Palestina e in Iraq”. Osama bin Laden è un “perfetto conoscitore dei sistemi della ’guerra psicologica’ e della manipolazione delle masse”. Chissà - si chiedono gli analisti [...] se “Bin Laden abbia mai letto Psicologia delle folle, un manuale di fine Ottocento del francese Gustave Le Bon, il primo studioso ad analizzare il comportamento delle masse ed elaborare tecniche per controllarle”. Naturalmente, la risposta è negativa: “In quest’opera, ad uso e consumo di manipolatori come lo stesso ministro della propaganda nazista Goebbels, l’ideatore della ’guerra psicologica’, uno che sapeva tanto del potere di suggestione dei media, è rintracciabile la spiegazione di alcuni aspetti significativi della strategia comunicativa di Al Qaeda, applicata ad una campagna terroristica di massa”. Uno dei problemi posti da Bin Laden è che attraverso una sapiente “propaganda mediatica” ha inaugurato sulla scena mondiale “il ’terrorismo in franchising’, un sistema nel quale le cellule operative hanno vita propria, entro le linee guida emanate dalla leadership”. Questo “è un sistema innovativo e inusuale”: “La centrale comunica le strategie operative (attacchi suicidi, autobomba, mine, rapimenti) sollecitando la formazione di cellule autonome ed orientandone le priorità in relazione alle aree”. Il carburante che fa andare avanti questa macchina, è la tesi degli 007, è “l’opera di mitizzazione che lo sceicco saudita fa di se stesso, trasformando l’uomo in leggenda, la carne in simboli”. [...] siamo ormai a forme di “vera e propria idolatria”: “Come spiegare altrimenti le t-shirt griffate con l’immagine di Bin Laden esibite, in alcune aree del mondo arabo, come il segno di una appartenenza”. La dimostrazione della sua professionalità luciferina sta anche “nell’utilizzazione di un linguaggio in grado di evocare immagini ancestrali - ’divorate gli americani come i leoni la loro preda’ -, catturando l’emotività sia dei suoi fans, che del nemico”. Insomma, il magma terrorista produce novità e innovazioni: “Al Qaeda, che in arabo significa ’la base’, può essere reinterpretata in chiave mediatica come un database che salda i militanti dei preesistenti gruppi estremisti su base nazionalista e le nuove leve del jihad globale in un’unica identità circolare, pescando tra le pieghe del comune risentimento contro l’Occidente”. [...]» (Guido Ruotolo, “La Stampa” 17/4/2005) • «[...] chi è? Un Robin Hood? Un avventuriero? Un fanatico? Un uomo in buona fede? Un puritano? Un ambizioso? “È senz’altro un po’ di tutte queste cose. Lui in partenza era ansioso di diventare un leader, era assetato di protagonismo, voleva essere ascoltato e amato, ma a far di lui il personaggio che è sono stati gli americani e i sauditi. Mi riferisco in primo luogo alla Jihad nell’Afghanistan occupato negli anni Ottanta dai sovietici. È allora che il giovane miliardario saudita acquista autorità, in particolare grazie al denaro dato dagli americani, dai sauditi e dalle moschee ai movimenti di resistenza. Durante i frequenti soggiorni in Arabia Saudita, reduce dall’Afghanistan, Osama attira l’attenzione come raccoglitore di fondi e come predicatore in favore di quella guerra santa contro gli infedeli comunisti, invasori di un paese musulmano. Dopo Ibn Saud, il fondatore del regno saudita, il paese non ha più avuto eroi. Osama colma in parte quel vuoto”. Quando diventa anti americano il miliardario finanziato dagli americani? “Anti americano lo era già. Ma prima che questo suo sentimento si manifestasse, Osama era soprattutto anti-Saddam. E non lo nascondeva. Per lui il raìs iracheno era un miscredente, un cattivo musulmano, era il capo di un partito laico come il Baath, quindi un uomo da combattere. Ed è questo suo atteggiamento che gli crea le prime difficoltà con la famiglia reale saudita, assai più cauta con il regime di Bagdad”. Dopo l’invasione del Kuwait Osama si offre per combattere le truppe d’occupazione irachene, ma i sauditi rifiutano il suo aiuto e si affidano a un ben più consistente alleato, gli Stati Uniti, i quali mandano la loro imponente armata in Arabia Saudita. È allora che esplode il suo anti-americanismo? “A quell’epoca Osama è assai più prudente di altri sauditi che deplorano apertamente la presenza di truppe americane in terra santa, a due passi dalla Mecca e da Medina, e che si scandalizzano per le donne soldato senza velo di quell’esercito di infedeli”. È dunque lentamente che l’anti-americanismo di Osama matura e poi esplode. E fa di lui l’avversario diretto del presidente della superpotenza. Bush lo favorisce riconoscendogli questo ruolo. [...] dall’11 settembre in poi, ogni giorno che passa senza che lui si faccia uccidere dal più forte esercito del mondo lanciato alla sua caccia, rafforza la leggenda che l’avvolge, e che è di gran lunga superiore a quella da lui sognata nei momenti di più sfrenata ambizione. In questo senso Bush [...] contribuisce alla sua fama? “Più o meno dappertutto nel mondo Osama e Bush sono apparsi a lungo due fondamentalisti. Il primo totalmente votato a un Islam jihadista, l’altro al servizio dei suoi seguaci ultrareligiosi, alleati dei neoconservatori. Questa quasi assimilazione, in un confronto tanto impari tra la superpotenza planetaria e una manciata di jihadisti, è stata un’innegabile vittoria per Osama [...] il suo intervento alla vigilia delle elezioni presidenziali americane è stato significativo. Il suo evidente proposito era di far rieleggere Bush. Bush l’aveva promosso al ruolo di principale avversario, e lui ha ricambiato comparendo sui teleschermi e spingendo con le sue minacce gli americani spaventati a confermare il presidente. Bush ha bisogno di lui, e lui ha bisogno di Bush. Si alimentano a vicenda”. Osama è popolare tra gli arabi e in generale nel mondo musulmano? “Non credo proprio che lo sia per la maggioranza dei musulmani. Ma a lui basta avere l’approvazione di gruppi di militanti. Inoltre gli americani si fanno in quattro per far dimenticare le sue malefatte o per rimediare alle sue sconfitte. L’esempio più vistoso è naturalmente l’Iraq. Quando Osama è alle corde, perché ha perduto il sostegno dei talebani in Afghanistan, Bush invade l’Iraq attizzando l’anti-americanismo e offrendo ad Al Qaeda un nuovo terreno di manovra. Sul quale si lancia Zarkawi, un avversario di Osama che vista l’occasione diventa suo alleato e suo rappresentante sulle sponde del Tigri [...] Il suo arabo è sobrio e classico. Ed esercita un certo fascino sui giovani, anche su individui educati all’occidentale, e assidui telespettatori di Al Jazira. Una segreteria della redazione francese di Al Jazira, più parigina che marocchina, benché quest’ultima sia la sua nazionalità, mi ha confessato un giorno di non essere insensibile alle parole di Osama. Il suo modo di parlare gli ricordava quello del padre e dei nonni. La sua reazione mi è parsa geneticamente programmata”» (Jonathan Randal intervistato da Bernardo Valli su “la Repubblica” del 30/4/2005).