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 2002  febbraio 14 Giovedì calendario

Black Conrad

• Montreal (Canada) 25 agosto 1944. Editore. Barone di Crossharbour, è un ex finanziere divenuto magnate della carta stampata. Ha rinunciato alla cittadinanza canadese nel 2001 per entrare nella Camera dei Lord. sposato con la giornalista britannica Barbara Amiel. Assunto il controllo, fra gli Anni 70 e 80, della Argus Corporation, una holding finanziaria canadese, si è riposizionato nel business della comunicazione acquisendo due testate nel Quebec, poi una catena di 40 quotidiani negli Usa e la Hollinger International attraverso cui ha acquisito i londinesi Daily Telegraph e Sunday Telegraph. saggista di successo, soprattutto come autore di biografie. Nel 2007 è stato condannato (a Chicago) a sei anni e mezzo di detenzione: «[...] deve la condanna [...] alla causa intentata contro di lui nel 2003 da alcuni soci della stessa Hollinger, che chiesero 200 milioni di dollari di danni per una gestione delle case dell’azienda viziata da illeciti e truffe. Black prevelava ingenti fondi dalle casse del gruppo editoriale per finanziarie una vista di lussi sfrenati. [...]» (Maurizio Molinari, ”La Stampa” 11/12/2007) • «Magnate canadese di quelli odiati perché hanno fatto una fortuna partendo dal nulla vero, e oggi è il gruppo Hollinger, ovvero proprietario fra gli altri del Jerusalem Post, del Sidney Morning Herald, del Chicago Sun Times, dello Spectator, della Montreal Gazette, del London Daily Telegraph, e avanti a elencare, visto che sono seicentocinquanta fra quotidiani e settimanali posseduti da Black nel mondo, e nella sua patria, il Canada, la metà delle pubblicazioni» (’Il Foglio”, 30/11/2001) • «Una mattina novembrina del 1981 una limousine arrivò all’aeroporto di Toronto a prelevare Andy Warhol, destinazione Four Seasons, suite numero 2.910. Il tempo di appoggiare la valigia e via alla Art Gallery of Ontario, per una festa in suo onore, voluta, pensata e organizzata da un giovane signore ”imponente, molto gentile e con una discreta fortuna” – annotò Warhol sul suo diario – che commissionò all’artista quattro ritratti. Tutti suoi. Tutti di Conrad Black, faccia larga, bocca all’ingiù, occhio indagatore, fisico da pugile. Allora Black aveva una piccola catena di quotidiani in Canada, una passione per gli artisti, gli intellettuali, gli uomini potenti, la fama sancita da Fortune di ”fenomeno del business canadese”. Poi sarebbe diventato un Lord Editore, con moglie all’altezza, l’affascinante Barbara Amiel, con giornali, amici e magioni in tre continenti, cittadinanze rifiutate e riprese, cene sontuose, nemici a ogni angolo, conti non sempre a posto, o forse quasi mai, quanto basta per svegliare il segugio giudiziario che [...] ha scovato numeri sballati e fatto precipitare tanta fantasmagorica vita di fronte a una Corte. Poi nella polvere, si sa, è un fuggi fuggi globalizzato, tutti si smarcano, i giornali titolano ”Black rischia quarant’anni di galera”, party is over. E lui che ha detto, quando la discesa è cominciata: ”Non importa quanto abituati siate a descrivermi come vergognoso, disgraziato e centro dello scandalo, ma vi sollecito a contemplare la possibilità che io sia innocente”. [...] una vita sopra le righe, in cui i ritratti di Warhol non sono un vezzo giovanile, ma l’espressione di un desiderio pomposo di essere non soltanto un uomo d’affari, ma soprattutto e principalmente un uomo di cultura. Questo Black ha sempre voluto essere. Uno scrittore. Un biografo. Ossessionato dal senso della storia. Sa fare l’elenco di tutti i primi ministri britannici dal 1721 a oggi. Non ne sbaglia uno, non ne dimentica uno. Fin da piccolo si è innamorato dei grandi personaggi, Napoleone prima di tutti. rimasto folgorato dallo stile imperiale e su quello ha coltivato passioni e affari, adottandolo anche nel momento in cui c’era da governare un’azienda, tanto che se un dipendente osava scrivere una lamentela finiva multato per aver sprecato un foglio di carta; tanto che il suo più stretto collaboratore David Radler – ex editore del Chicago Sun-Times che, già condannato per frode [...] ha accettato di testimoniare contro Black per farsi ridurre la pena – era solito entrare nei giornali che la Hollinger pensava di acquistare per andare subito a controllare le toilette: troppi bagni significano troppi dipendenti. Poi il fasto. Grazie alle relazioni di suo padre George, Black ha potuto godere dell’ingresso in un mondo privilegiato, anche se lo stesso papà è stato il primo a non voler un figlio scrittore, a imporgli il piglio da businessman duro e arcigno, con la tendenza a considerarsi padrone onnipotente. I fronzoli, gli eccessi, la sontuosità sono stati la sua risposta (rinvigoriti dall’arrivo di Barbara, sposata nel 1993 ma presente già da molto prima), tanto che alcuni amici si sono chiesti – poi, ovviamente, poi – il perché di quell’atteggiamento da parvenu, scambiando per mera ambizione ciò che Black ha definito – nella sua autobiografia del 1993 – ”tenacia sovrumana”. Nei salotti di Black sono passati i personaggi più importanti degli ultimi decenni. Era una calamita: Ronald Reagan, Margaret Thatcher, Valéry Giscard d’Estaing, Henry Kissinger, Richard Perle, la principessa Diana, direttori di giornali, di think thank, di centri culturali. Tutti hanno ricevuto e accettato inviti alle sue feste. Tutti possono raccontare com’era la casa a Palm Beach, quella a New York, quella a North Kensington a Londra, quella in Canada, a Toronto. Quel ragazzetto che odiava andare a scuola, che fu sospeso per aver rubato e distribuito un compito in classe, passò da proprietario di un quotidiano locale a magnate dei media, un tycoon alla Rupert Murdoch, eterno rivale tanto diverso, tanto più scaltro. Oltre a un centinaio di giornali locali, Black è diventato proprietario del Chicago Sun-Times, del National Post, del Catholic Herald, del Jerusalem Post, dello Spectator, del New York Sun (che ha fatto nascere, nel 2002), del Daily Telegraph. Non è stato un editore tradizionale: la fede conservatrice – con accesa tendenza neocon – e cattolica era incontenibile, così come la moglie. Ai suoi giornalisti ha sempre lasciato libertà, per poi occupare lo spazio delle lettere per bacchettare, criticare, accusare, arringare, strapazzare con il suo stile barocco. Lo scrittore, trasformatosi giornalista per la quotidianità, ha trovato la sua valvola di sfogo in un libro sul primo ministro canadese Maurice Duplessis, ma soprattutto nella gigantobiografia di Franklin Delano Roosevelt, pubblicata nel novembre del 2003, proprio nel momento in cui Black si era dimesso dalla guida della Hollinger, in seguito a un’inchiesta della Sec su un ”prelievo” improprio di 7 milioni di dollari, che si sarebbe poi trasformata in un’accusa di ”corporate kleptocracy”, la cleptocrazia d’azienda. In concomitanza con l’inizio della trafila giudiziaria – con accuse diverse ma sempre più o meno legate a fondi usati per uso personale – Black pubblicò milletrecento pagine di biografia del suo presidente-mito, del quale aveva conservato i discorsi: da adolescente li ascoltava e riascoltava facendo attenzione a non farsi beccare da papà, che Roosevelt non lo poteva vedere, e che una volta aveva minacciato il figlioletto: ”Se sento ancora questa voce da fogna in casa mia, ti spacco tutte le cassette, mi hai sentito?”. Per anni una stanza di una delle magioni è stata dedicata ai memorabilia di Roosevelt. Il Daily Telegraph è stato il bambino prediletto di Conrad, il trampolino di lancio nella superba società londinese. Il terzo, ultimo passo della carriera di Black, partita dal Canada, rimbalzata in America – la casa a Palm Beach, duemila quadrati, un giardino di rose, uno di erbe medicinali, nove stanze da letto, sette bagni, piscina, fontana da 2 milioni e mezzo di dollari, un tunnel rivestito di piastrelle diretto alla spiaggia privata ha suggellato il pedigree da americano – e coronata nel Regno Unito, con l’acquisto, nel 1985, del Telegraph Group, su ”consiglio” di Andrew Knight, allora direttore dell’Economist. Le pagine di uno dei quotidiani conservatori più venerabili d’Inghilterra sono diventate la rocca di Black, da cui sferrare gli attacchi politici e contro i nemici, soprattutto quell’australiano che, piano piano, diventava sempre più irriverente e ubiquo. Le riunioni della Hollinger – che, da quando Barbara è diventata moglie di Conrad, non si sono mai svolte senza di lei, tranne in casi eccezionali, di solito l’imminenza di un party – sembravano consessi da centro studi, si discuteva più di medio oriente che di budget, e regolarmente terminavano di fronte a un ottimo vino in un ottimo ristorante, secondo il gusto di Black, soldo, cultura e sfarzo insieme, senza distinzioni. I dipendenti non amavano il nuovo editore, troppo parco con gli stipendi e troppo invischiato con il mondo politico americano, soprattutto quello emergente, sfrontato e ”assalito dalla realtà”, che si sarebbe poi consolidato negli anni 2000. Quel marchio da avventuriero più che da re filosofo ha fatto infuriare Black migliaia di volte. Nel 1994, quando la Hollinger si quotò in Borsa, Black cedette parte delle azioni del Telegraph a istituzioni della City a un prezzo piuttosto alto: dopo un mese – di festeggiamenti – dimezzò il prezzo del quotidiano in una battaglia con il Times già da quindici anni nelle mani di Murdoch, e le quote crollarono. La City reagì con stizza, il canadese divenne malvoluto, si narra che un pezzo grosso gli disse: ”Non potrai mai più pranzare in questa città”. Black furibondo si scagliò contro l’ipocrisia inglese e quell’insopportabile piglio borioso con cui veniva maneggiato, ma poi decise di trasferire di nuovo l’haedquarter della Hollinger a Chicago. Dopo un anno era di nuovo lui, Black sulla breccia, con la voglia di investire e movimentare il mercato mondiale dei media, soprattutto quello più conservatore. Non a caso il suo modello di riferimento era William Randolph Hearst, cui si è ispirato Orson Welles in ”Citizen Kane” Lo scontro con Murdoch era inevitabile, anche se non si è mai consumato in modo sanguinoso. Troppo diversi per arrivare alle mani. Black tende alla filosofia e all’ideologia, Murdoch è un pratico, è uno che – come scrisse nel 2003 l’Economist, appena dopo le dimissioni del ”barone Conrad” – riesce a conquistare gli ”swing voters”, che appoggia Tony Blair ma, appena può, lo minaccia di abbandonarlo per andare con i Tory. E comunque per Murdoch il business guida la politica, l’esatto contrario di Black, con il quale condivide soltanto il proamericanismo e l’antieuropeismo. Murdoch ha usato il potere sul mercato editoriale inglese per sfondare nella televisione americana, Black ha usato quello stesso mercato – complementare – per raggiungere il suo obiettivo primario: essere un intellettuale, non un uomo d’affari. L’apice di tutto ciò è stato il titolo di Lord, nel 2001, tanto ambito da arrivare a creare un caos ai limiti della crisi diplomatica con la madre patria canadese. Una legge del 1919 – la Nickle resolution – impedisce i reali d’Inghilterra di onorare con titoli aristocratici i cittadini canadesi. Black tentò di ottenere la doppia cittadinanza – canadese e inglese – per poter essere insignito del titolo di Lord come britannico, e citò il governo dello Stato del Canada in tribunale quando questa tattica fallì, ”per aver causato imbarazzo pubblico”, convinto che fosse tutto un magheggio del premier di allora, Jean Chrétien, indispettito dai toni critici dei giornali conservatori di proprietà della Hollinger. Black alla fine decise di rifiutare la cittadinanza canadese per potersi fregiare del titolo: divenne così Lord Black of Crossharbour, in nome di un quartiere (e di una fermata della metropolitana) vicino al palazzo del Daily Telegraph. Due mesi dopo si rese protagonista di un’altra vicenda diplomatica. In uno dei soliti party organizzati per festeggiare il titolo di Lord – dicono che questo pretesto fu utilizzato per almeno un anno per organizzare feste di ogni genere, come quella in maschera alla quale Black si presentò vestito da cardinale – l’allora ambasciatore francese in Inghilterra, Daniel Bernard, definì Israele ”un piccolo merdoso staterello”, causando una reazione al limite della violenza di Black. Dopo qualche settimana Bernard fu trasferito in Algeria. La passione per la politica e il viscerale desiderio di stupire con idee rivoluzionarie, portate avanti con amici potenti e altrettanto convinti, sono l’anima di Black. L’amicizia con Richard Perle, il falchissimo Perle – tra i più odiati da chi considera i neocon una setta satanica che si è impossessata di Pentagono e Casa Bianca – è la sintesi di un’appartenenza, di una famiglia allargata, dal medio oriente all’America, passando per la ricca Londra. Una gigantesca lobby con a capo quel gigante di Black, passato da pugile e presente da imperatore, e la moglie, l’inseparabile moglie, l’eccentrica moglie, ”Ladyship”, come l’hanno soprannominata i molti ex amici che – nel tempo della polvere – hanno cominciato a essere volgarmente ciarlieri. Barbara Amiel. Gli aneddoti su di lei sono talmente tanti da far credere che almeno metà non siano veri, altrimenti da queste parti l’amore per Barbara sarebbe totale. Conrad la racconta così, nella sua autobiografia: ”Bella, brillante, straordinariamente sexy”, una con cui condividere ”un’intensa affinità ideologica”, una che poi si è rivelata ”l’apice dei miei desideri più ardenti e assoluti”. Un sabato sera dell’autunno del 1991, sul divano della casa londinese di Barbara, Conrad dichiarò la sua passione, e lei ”ci rimase secca”. Si conoscevano da anni, era un’amica di vecchia data – nata nel nord di Londra da una famiglia ipercomunista con busti di Lenin per casa, era stata spedita dopo il divorzio dei genitori e il suicidio del padre in Canada – diventata col tempo giornalista aggressivissima e perfidissima (tipo Ann Coulter, ma meno bionda e più bella) e direttrice del tabloid Toronto Sun. Quando si sposarono, nel 1993, Conrad era il marito numero quattro. Il primo, uno studente, fu abbandonato dopo un anno di matrimonio; il secondo, un regista canadese, fu lasciato perché troppo geloso del di lei successo; il terzo, un imprenditore televisivo multimiliardario, che la portò a Londra, ma fu abbandonato per manifesta infelicità. Poi il riavvicinamento con Black, nella bella vita della capitale britannica, incontrato e rincontrato nei tanti dibattiti cui lei cercava di non mancare mai, e la dichiarazione d’amore sul divano. Al Telegraph non c’è giornalista che abbia vissuto l’era Black e che non parli, come prima cosa, di Barbara. Scriveva sul giornale – col vizio di non mettere mai il cognome delle persone, del tipo ”Henry è in città”, dando per scontato che si trattasse di Kissinger, naturalmente – si presentava alle riunioni di redazione, influenzava il modo di pensare di tutti, con l’arguzia da donna e la devozione conservatrice, negli occhi la voglia di godersi vita e potere. Si narra che nel suo guardaroba – ampio a tal punto che ”le eccedenze” occupavano ”stanze, giù sotto, vicino alla palestra” interna alla villa a North Kensington – ci siano almeno cento Manolo Blahnik e almeno venti Hermès Birkin (per lo più di coccodrillo) dichiarate a Vogue; poi, non si è mai negata un volo aereo per tornare a casa, in Canada, dal parrucchiere di fiducia. Una donna straordinaria. Tanto che la maggior parte di quei soldi ”prelevati a uso personale” per i quali Black è stato scaricato dagli amici e rischia 40 anni di carcere sono stati usati con o per Barbara. Che, pur definita da una giornalista radiofonica ”una sgualdrina viziata dalla società” (Lady Black rispose con una column memorabile), non si è mai sognata di rinnegare il marito né di dire che loro due hanno preso strade diverse. Semmai ha le valigie di Louis Vuitton per partire. Con Conrad» (Paola Peduzzi, ”Il Foglio” 26/11/2005).