varie, 14 febbraio 2002
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Blair Tony
• (Anthony Charles Lynton Blair) Edimburgo (Gran Bretagna) 6 maggio 1953. Politico. Leader del Partito laburista dal 1994 al 2007, lo ha portato alla vittoria nelle elezioni del 1997, assumendo dallo stesso anno la carica di primo ministro, riconfermata nel 2001 e nel 2005 e mantenuta fino al 2007. Tra gli artefici dell’accordo di pace del ”98 con il governo dell’Irlanda del Nord, ha perseguito una politica estera filostatunitense . Ha definito superate alcune storiche divisioni fra destra e sinistra sulla regolamentazione del mercato del lavoro. ritenendo la flessibilità indispensabile in questo campo. Dal 2007 inviato speciale per il Medio Oriente del «quartetto» formato da Usa, Ue, Russia e Onu (Garzantina Universale, 31 agosto 2008) • «[...] Dopo avere riportato i vecchi laburisti al potere, alla fine della lunga stagione di Lady Thatcher, Blair ha rappresentato la ”terza via”, con il cancelliere Schröder, Clinton, Prodi, D’Alema, Rutelli, Veltroni. Dopo l’11 settembre, l’adesione alla guerra al terrorismo, la scelta di inviare truppe in Iraq al fianco del presidente George W. Bush e le mosse non felici nel giustificare l’attacco trasformano il premier inglese in un mostro. Da modello diventa spaventapasseri [...] Salvo poi vedere Tony Blair rivincere le elezioni per uno storico terzo mandato, recuperare il favore popolare e, dopo le stragi di [...] Londra, assumere la guida morale della battaglia contro il terrorismo, senza le asprezze ideologiche dei neoconservatori, impugnando forza e saggezza. [...] Blair è socialista del dopo Guerra fredda. Profondamente religioso, persuaso che ”il rapporto che esiste tra me e il mio Creatore debba restare privato”. la storia della sinistra etica scozzese, lievitata dai valori di comunità, dove gli individui crescono e prosperano insieme. La sua evoluzione, da giovane dirigente di periferia a primo ministro, non nasce però da un gioco di consulenti, da trucchi di propaganda. [...] la maturazione di un secolo di storia laburista, eternamente divisa tra riformismo e massimalismo, tra difesa dei ceti popolari e negligenza verso i ceti medi, responsabilità in politica internazionale contro generico pacifismo, dove all’ex impero inglese altro ruolo non restava che scendere ogni tanto in piazza per deprecare le scelte militari delle ex colonie americane. Delle radici antiche Blair mantiene la linfa del ”bene-male”, non esitando a schierarsi nella lotta alla criminalità: perché se nelle metropoli i ricchi hanno sempre il modo di proteggersi, sono i poveri, i lavoratori, a trovarsi esposti alla violenza urbana. Contro un cliché di sinistra simpatizzante – alla Fabrizio De André – con i piccoli malfattori, Blair intuisce che interi quartieri e generazioni, donne e anziani, hanno paura e tocca alla sinistra ripresentare la sicurezza come diritto civile. Il ”New Labour” di Tony Blair e del suo compagno-rivale e cervello economico Gordon Brown realizza prima di tutte le altre sinistre europee e con una profondità pareggiata solo da Bill Clinton, che il crollo del Muro di Berlino e la fine delle ideologie non seppelliscono solo il comunismo, ma incrinano anche il liberalismo classico e la socialdemocrazia. La sua preoccupazione è mantenere il successo economico delle riforme di Lady Thatcher e i risultati (Brown ne è l’artefice, Blair incassa il merito) sono sintetizzati in poche, per noi stupefacenti, cifre ”una crescita media del prodotto interno lordo del 2,7% dal 2000... il 3,1% per il 2004” doppio della media di altri Paesi europei. Da nemico il mercato diventa opportunità. Anziché attardarsi al decrepito dibattito ”più Stato o più mercato?” che ancora rallenta l’Italia, Blair utilizza una formula sintetica, rilanciata dal Dioscuro Brown nel discorso alla Cass Business School del 2003: ”La politica industriale più adatta a favorire il successo nell’economia globalizzata è aiutare i mercati a far meglio il proprio lavoro. Questa è la nostra ricetta... noi sosteniamo i mercati aperti invece del vecchio protezionismo... invece di guardare con sospetto all’impresa e agli imprenditori... dobbiamo incoraggiare chiunque voglia misurarsi con l’impresa, da qualsiasi ceto sociale”. Lady Thatcher aveva detto ”cancellerò il socialismo inglese”: la Storia, ironica come sapeva Hegel, ha visto i laburisti talmente trasformati dal thatcherismo da diventarefinalmente vincenti a lungo. La guerra civile della sinistra europea sull’Iraq cancella le conquiste di Blair e ne sterilizza la lezione agli occhi degli ulivisti. Calmate le passioni del 2003 [...] forse gli oppositori di Silvio Berlusconi potranno rivedere la lezione di Blair: perché vincere le elezioni è fatica umana, governare fatica diabolica. E il diavolo Blair l’ha fatto con saggezza, incidenti, successo» (Gianni Riotta, ”Corriere della Sera” 26/8/2005). «[...] Tony Blair ha [...] un forte senso di quello che è ”normale”, popolare, non elitista. Tony Blair, che pure è un prodotto quasi da laboratorio della comunicazione moderna, tuttavia non ne sposa il senso di condiscendenza verso il popolo: quel fastidioso atteggiamento del ”vi-spiego-io-cosa-dovete-pensare” che nella sinistra europea altro non è, in fondo, che una eredità del vecchio concetto di avanguardia. Blair è invece, fino alle ossa, fino al disgusto a volte, un perfetto mimo dei mores correnti - un riproduttore di sensibilità attuali, dalle mode ai modi, che gli permettono di rispecchiare e di rappresentare la medietà della società attuale. Ovviamente questo non gli permette di avere sempre la ”gravitas” dell’intellettuale (tradizionale aspirazione di tutti i leader della sinistra continentale ancora impicciati fra la decrittazione di Carlo Marx e Rifkin) ma in compenso gli dona rappresentatività immediata. ”Senza cerniere” direbbe Erica Yong, con una frase vecchia ma efficace. [...] Blair dà valore prioritario e assoluto alla unità della sinistra. A costo di piegarsi [...] e a costo anche di manipolare altri, come ha fatto sempre. Così ha sempre evitato il collasso. [...] non importa quanto sia cinico, ha sempre tenuto in mente l’importanza dei Valori. Piacere o meno, la sua è una famigliona, la sua vita non ha scandali, la sua bussola rimane quella dei valori della classe media. [...]» (Lucia Annunziata, ”La Stampa” 5/5/2005). «[...] La supremazia di Re Tony è tanto più straordinaria se si considera la vasta antipatia che suscita. Quando andò al potere la prima volta nel 1997, Denis Healey, vecchio laburista navigato, lo battezzò ”La Principessa Diana della politica”, alludendo non alla fragilità della principessa ma alla sua inesauribile popolarità. Oggi, più che la principessa Diana, Blair è il principe Carlo, scontroso, rigido, distante. Chi è Tony Blair? Conosciamo la sua maschera, il sorriso smagliante da ragazzo degli esordi, il lampo diabolico negli occhi della sua maturità prebellica, le espressioni più cupe e crucciate degli ultimi tempi, ma è sorprendente che[...] resti un po’ un enigma, assumendo sempre atteggiamenti diversi, come il Messaggero Anglosassone di Lewis Carrol che ”salta su e giù e si dimena come un’anguilla”, il suo vero carattere sfuggente e arduo da definire. Sapevamo fin dall’inizio che aveva un po’ l’ossessione di avere tutto sotto controllo e un briciolo di opportunismo. Sapevamo anche che era incoerente: il leader di un partito socialdemocratico che non usava mai la parola ”socialismo”. [...] Questi erano i titoli di Blair: onestà, affidabilità, competenza. Le quotazioni dei primi due hanno subito qualche duro colpo. Ma se non è onesto, chi è allora Tony l’affidabile? Agli occhi di molti ex sostenitori è uno che l’ha scampata bella visto che ha dato avvio ad una guerra sulla base di una fragile menzogna e, quando le critiche alle sue decisioni si sono intensificate, se l’è cavata aggrappandosi al potere, mentre molti, forse tutti, i suoi predecessori avrebbero dato le dimissioni. quasi doloroso oggi ricordare i giorni inebrianti della ”cool Britannia” quando attorno al numero 10 di Downing Street aleggiava un fascino da tabloid, un’aura da terzo millennio. L’aura da pop star funzionava anche all’estero: quando Blair andò in visita a Mosca nel 1997 e fece un tragitto in metropolitana le ragazzine russe strillavano come le fan dei Beatles negli anni ”60. L’’Economist” in un reportage sul primo congresso post elettorale del partito citava la frase di un anonimo osservatore: ”Potrebbe proclamare la strage degli innocenti e otterrebbe una standing ovation”. Beh, Blair ha ordinato una strage, ma nessuno si è alzato in piedi ad applaudire. E il mistero resta: perché Blair si è associato alla guerra di Bush? Perché non ha preteso che agli ispettori Onu fosse permesso di portare a termine il loro lavoro e che si formasse una vera coalizione antiSaddam, come, col tempo, si sarebbe sicuramente potuto fare? Perché tanta fretta? Perché ha sottoscritto l’unilateralismo di Bush e l’agenda di Wolfowitz improntata all’ideologia? Forse perché ha in comune con Bush una profonda fede religiosa e i due hanno deciso di imbarcarsi in una nuova crociata? No, troppo semplice. Perché credeva nei rapporti falsati dell’intelligence? No, neppure questa ipotesi è plausibile perché i suoi hanno manipolato al massimo l’intelligence per giustificare la guerra. Un ex assistente di Clinton [...] ha posto la questione in questi termini: ”Blair ha venduto l’anima al diavolo senza neppure preoccuparsi di ottenere qualcosa in cambio”. una prospettiva quasi tragica, con Blair nel ruolo di chi ha sbagliato credendo di far bene, sacrificando il suo buon nome per nulla, un Faust puritano condannato all’inferno senza aver prima sperimentato le delizie terrene. Si potrebbe quasi provar simpatia per un personaggio simile, ma riuscirebbe più facile se Blair desse segno di un qualche rimorso. [...]» (Salman Rushdie, ”la Repubblica” 26/4/2005). «[...] il premier laburista più longevo della storia britannica [...] Bella forza, si dirà: il partito laburista non ha neppure un secolo, sicché non ci vuol molto a strappare un primato. Invece Blair ha già titolo per passare alla storia, almeno del Labour: è stato l’unico leader capace di vincere due elezioni di seguito [...] Che poi Blair passi alla storia tout court, ancora, non si sa. ”Quest’uomo politico ambiguo”, come lo chiama con diffidenza l’agenzia France Presse [...] Non diventerà il premier più duraturo di tutti i tempi, perché nemmeno lui pensa di stare al governo più di Sir Robert Walpole, colui che fece costruire Downing Street e ne fu inquilino dal 1721 al 1742. Il confronto con Walpole è stuzzicante perché quel precoce uomo politico (entrò in Parlamento a 25 anni, Blair a 30) aveva molto in comune con il successore odierno. Walpole era ”whig”, apparteneva cioè al partito riformista dell’epoca (poi liberale) che s’opponeva ai conservatori d’allora e d’oggi, i Tories. Ma anche Blair è ”whig”, perché ha riportato il Labour Party, scrostandone lo statuto ed esiliandone il massimalismo, alle origini. Anzi, agli antenati. Walpole, bravissimo negli intrighi e supremo tatticista in Parlamento, mandò i Tories all’opposizione per mezzo secolo, bruciandone i leader uno dopo l’altro, prima di sbarazzarsi degli alleati. Non è ciò che vuol fare Blair (a quanto dicono) con l’amico-rivale Gordon Brown, pure oggi? E il confronto col passato porta alla seconda osservazione. Walpole dominò con la personalità e con un’oratoria tagliente, come Blair, ma in 21 anni combinò poco o nulla, a differenza di Blair, che invece non dorme mai. O no? L’attività politica è stata frenetica, ma il bilancio è prematuro. Prendiamo l’educazione, bandiera della prima campagna elettorale: nelle scuole c’è stato qualche miglioramento (solo l’inizio, oppure troppo poco?) e nelle università un forte aumento delle tasse (ma a Oxford e Cambridge non basta). La sanità è ancora nel guado di una riforma grandiosa, che non lascia intuire lo sbocco. L’adesione all’euro è una promessa dimenticata, anche perché oggi bisogna convincere i sudditi a votare questa nuova Costituzione: vista da qui l’Europa resta il dinosauro Oltre Manica, malgrado l’europeista Blair. E l’immigrazione, benché le frontiere dell’isola siano sigillate, sta cambiando le città britanniche: la società multietnica ha portato in dote i saporiti ristoranti esotici, ma è proprio quel che si voleva? [...] Saranno i posteri (sempre loro) a dire se sta alla pari con i grandi premier moderni, quali Asquith, Atlee, Churchill e Thatcher. Certo, gli si chiedeva di meno: non rifondare la Gran Bretagna, non vincere la Battaglia d’Inghilterra, ma solo far riprendere fiato dopo il ciclone thatcheriano. E lui l’ha fatto, imparando da tutti: fu Bill Clinton a spiegargli come sedurre i ceti medi, quelli che ancora lo voteranno a maggio, fu Alan Greenspan che lo convinse a dare l’indipendenza alla Banca d’Inghilterra. E fu Alistair Campbell che gli mise in bocca le parole giuste quando, all’alba del 31 agosto 1997, una domenica, piombò su Londra la notizia sconvolgente che sbaragliò i tabloid: Diana era morta. Blair andò in tv e, in foto che riviste oggi lo mostrano giovanissimo, la definì ”principessa del popolo”. Un capolavoro politico, insuperato» (Alessio Altichieri, ”Corriere della Sera” 6/2/2005). «’Non so che cosa sia quel giovanotto, ma di certo non è un laburista”, disse James Callaghan, l’ultimo primo ministro laburista prima dei 18 anni di egemonia parlamentare e ideologica dei Conservatori, conquistata grazie alla decisiva rottura della signora Thatcher con la politica del consenso e con la gestione del declino. Una rottura grazie alla quale dopo il 1979 la Thatcher purgò la malattia britannica. Ora il partito conservatore è analogamente ridotto a dibattersi tra estremismo, ideologie superate e imitazioni poco plausibili del primo ministro Blair, che l’Economist chiama ”il miglior primo ministro conservatore”; uno che anticipa desideri e paure di quel 60 per cento della popolazione - Middle England - che oggi si autodefinisce classe media. Questa neo-classe media era stata quella degli allora lavoratori specializzati che la Thatcher aveva ”rubato” ai Laburisti. Come ha sempre cercato di fare Montgomery, Blair fa ”ballare i nemici alla sua musica”. Nel frattempo l’altro nemico, la tribù laburista con questo suo Capo estraneo che ne oltraggia sistematicamente i tabù, ne riscrive i testi sacri e ne ridicolizza gli sciamani, si trova nella stessa situazione confusa dei Conservatori - non volendo ammettere che il fascino di Blair consista non tanto nell’essere Neo-Laburista quanto Non-Laburista. Quando Blair entrò alla Camera dei Comuni come il più giovane parlamentare laburista, nel 1983 , il partito aveva appena perso rovinosamente con una piattaforma elettorale descritta come ”il più lungo biglietto di suicidio” della Storia. Blair non ha mai dimenticato che le politiche del vecchio Labour spinsero suo padre, nato povero e diventato avvocato e professore con i suoi soli sforzi, ad aspirare a un seggio conservatore in Parlamento. Toujours l’audace , ”sempre l’audacia”, intimava Napoleone. [...] Blair ha poco tempo per le tradizioni e non ha paura del futuro, sebbene si preoccupi del posto che occuperà nei libri di storia: Churchill e la Thatcher sono prestazioni eccezionali difficili da seguire. Egli possiede, tuttavia, la necessaria combinazione di alta ambizione e arte della bassa politica. L’attrattiva popolare di Blair, le sue convinzioni religiose e i suoi valori morali provengono ciò nonostante dal suo passato. Possiede fascino e sa come servirsene ma, come notò subito Kinnock, è un ”Bambi con i denti d’acciaio”. Le sue convinzioni interiori e i suoi valori sottoscrivono la spietatezza mai scalfita dal sentimentalismo, perfino con i suoi alleati più vicini come Peter Mandelson. Blair non è nato nella tribù laburista come Gordon Brown e la sua stessa moglie Cherie. I suoi eroi sono i grandi liberali, come Gladstone, Lloyd George e Beveridge. La sua filosofia politica proviene dal Communitarianism del teologo scozzese John Macmurray. Vorrebbe forgiare il partito laburista in uno strumento che esprima non soltanto le aspirazioni dei nuovi ceti medi, ma che metta anche gli svantaggiati in condizione di raggiungerli nella prosperità. Gli slogan sono: Il lavoro ti fa bene e Più impari, più guadagni . Laddove la Thatcher pensava che l’ingiustizia sociale fosse il prezzo da pagare per il libero mercato, Blair crede che l’ingiustizia sociale sia uno spreco di risorse umane e finanziarie sia per gli schiavi incatenati dell’assistenzialismo sia per i contribuenti. Un’economia forte e una società stabile si rafforzano a vicenda. Per il consumatore/elettore di Blair, non esiste una divisione manichea tra lavoro e capitale, pubblico e privato; proprio come Blair vede, in ultima analisi, un’unità d’intenti e finalità sia nel Protestantesimo che nel Cattolicesimo, nella Cristianità come nell’Islam. Con il 9/11 - il 9 novembre dell’89, cioè il crollo del muro di Berlino - sono cadute le ideologie ma non i valori. Per Blair, comunque, essi sono diventati ancor più gli obiettivi che guidano gli strumenti pragmatici della politica - e della guerra. La questione fondamentale adesso è come fare a mantenere il valore della solidarietà senza farla diventare collettivismo. Blair ha ”rubato” ai conservatori la moralità (legge e ordine), il risparmio (economia) e l’autonomia (difesa) per dirigere un Paese dove il crimine è in calo, l’economia è la più in crescita nel G8, e che intraprende a ripetizione e con successo interventi militari ”morali”. Berlusconi, l’uomo d’affari che si è dato alla politica, ammira Blair. E Blair il politico ammira gli uomini d’affari di successo e intende, si dice, cimentarsi con business importanti quando avrà smesso di condurre il Paese. Esiste comunque un consenso politico sul fatto che, se la morte prematura del ”laburista vecchio stile” John Smith, nel 1994, non gli avesse fornito l’occasione di diventare capo del partito, allora un Blair frustrato dall’assenza di un’agenda politica ”neo-laburista” avrebbe presto lasciato la politica per dedicarsi all’industria o alla finanza» (’Corriere della Sera” 17/8/2004). «Forse nessun altro leader politico europeo delle ultime generazioni ha avuto il fascino e il carisma mediatico di Tony Blair, e la stessa innata capacità di dividere, soprattutto a sinistra: da quando, negli anni Novanta, ha iniziato la sua battaglia per prendersi il partito laburista e cambiargli radicalmente i connotati, e soprattutto da quando, nel ”97, è entrato a Downing Street, in tutta Europa, e anche in Italia, per una sinistra è stato un modello, persino un mito, per l’altra l’avversario da battere, e magari un incubo. […] Le due sinistre debuttano a Malmoe, nel giugno del ”97, al congresso del Partito socialista europeo. Modernisti di Londra contro statalisti di Parigi. Tony Blair contro Lionel Jospin. Lapidari entrambi. ”Sì all’economia di mercato, no alla società di mercato”, è la formula del neo primo ministro francese, convinto che ”le forze del mercato, lasciate a se stesse, minacciano il concetto stesso della nostra civiltà”. Blair, pochi anni prima, ha dato battaglia alla sinistra del suo partito e alle Trade Unions con una parola d’ordine quasi brutale: ”O ci modernizziamo o moriamo”. Adesso che ha vinto, e che un po’ in tutta Europa le sinistre sono al governo, non cambia registro: ”Gli elettori moderni non sono né indulgenti né pazienti. Non abbiamo un diritto divino a governare. Se non riusciremo a cambiare, saremo spazzati via. Giustamente”. E cambiare significa rinnovare radicalmente il modello socialdemocratico: ”Non riduciamoci a diventare un altro partito conservatore che difende lo status quo, che si erge contro il mondo sperando che il mondo se ne vada: non se ne andrà”. Cambierà, eccome, il New Labour, e Blair si proporrà come il campione del cambiamento. Addio lotta di classe, addio difesa acritica di quel tanto di Stato sociale lasciato in piedi da Margaret Thatcher. Equità e impresa ”devono andare mano nella mano”, dove c’è un diritto deve esserci un’assunzione di responsabilità. A molti, in Inghilterra e fuori, non solo nella Parigi di Jospin, che lo guarda in cagnesco, riesce difficile comprendere dove, come e perché il riformismo blairista si differenzi dal liberismo. Ma è molto più nutrita la schiera degli ammiratori, i libri dell’ideologo di Blair, Anthony Giddens, teorico della ”terza via”, diventano grandi successi editoriali. Al New Labour, nella sinistra europea, guardano con crescente simpatia gli olandesi e gli scandinavi. Poi è la socialdemocrazia tedesca a risolversi al gran passo: Schroeder, che ha un passato molto di sinistra, la riporta finalmente al governo, presentandosi come l’alfiere di una Neue Mitte , un nuovo centro. Assieme, Blair e Schroeder produrranno un documento politico e programmatico destinato a fare scandalo a sinistra: vi si legge, tra l’altro, che ”la flessibilità del lavoro è l’obiettivo stesso della lotta dei socialisti”. Neue Mitte e Terza Via sono sinonimi. Ma dire Blair, in questi anni, vuole anche dire Bill Clinton. Nella primavera del ”98, il premier inglese lancia ufficialmente l’idea di un superamento dell’Internazionale socialista, per dare vita, al suo posto, a un’Internazionale di centrosinistra, che comprenda anche i Democratici americani. I francesi sono, manco a dirlo, fieramente contrari. Gli italiani, invece, sono interessati: a Roma governa l’Ulivo, Center-Left, appunto, non una socialdemocrazia. Forse potrebbe nascere addirittura un Ulivo mondiale, come qualcuno va improvvidamente dicendo: a New York, negli stessi giorni in cui, a Washington, il procuratore Starr diffonde il testo dell’interrogatorio di Monica Lewinsky, Bill Clinton, auspice Hillary, incontra Blair, Romano Prodi e Walter Veltroni, che ha appena dichiarato il comunismo ”incompatibile con la libertà”. A Roma, i collaboratori di Massimo D’Alema (che è ancora a Botteghe Oscure) ridimensionano assai la cosa: un’iniziativa della First Lady. Un anno o poco più, e il quadro cambia. In Italia, dove Prodi è caduto, e gli è subentrato D’Alema, Fausto Bertinotti è rimasto quasi solo, dopo la guerra del Kossovo, a denunciare ”un nuovo ordine mondiale, dominato dagli Usa e fondato sulla guerra”. Di globalizzazione si parla assai, ma i no global sono di là da venire. L’America, l’America di Clinton, piace assai. Anche a D’Alema, convinto che ”il socialismo debba aprirsi ad altri riformismi”, e già abituato a parlare in pubblico di Clinton come di Bill, e di Blair come Tony. A Firenze, il 21 novembre del ”99, l’Ulivo mondiale, o come altrimenti lo si voglia definire, fa la sua prima comparsa ufficiale. La scena, anche se ci sono tutti i partiti socialisti che contano, e se seduto in platea c’è pure Prodi, è dominata, appunto, da Bill, da Tony e da Massimo: Jospin è riuscito ad ottenere soltanto che, nel titolo del convegno, non si parli di Terza Via, ma più genericamente del ”riformismo del XXI secolo”. L’impianto dell’iniziativa (preparata come un grande evento mediatico, Roberto Benigni compreso) è blairista al punto che D’Alema, provocando le ire dei sindacati, annuncia agli astanti, nel suo intervento, che è venuto il momento di porre mano, in anticipo, alla riforma delle pensioni. E gli applausi si sprecano quando Blair enuncia, scandendo le parole, uno dei capisaldi della sua filosofia: ”Quando l’Europa e gli Stati Uniti si parlano, il mondo sta meglio”. Non c’è che dire: a questo assunto il primo ministro inglese resterà fedele. Anche quando Clinton lascerà la Casa Bianca a George Bush jr., di Ulivi mondiali non si parlerà più, la sinistra non sarà più al governo in molti Paesi europei, dalla Francia di Jospin all’Italia di Prodi, D’Alema e Amato, e prenderà dimensioni sempre più vaste un movimento, quello no-global, fortemente intriso di antiamericanismo. Blair non cesserà per questo di essere, se non proprio un mito, un punto di riferimento molto importante, anzi, il più importante, per le componenti più dichiaratamente riformiste della sinistra europea: se le elezioni è tornato a vincerle, anzi, a stravincerle, un motivo ci sarà pure. Il quadro cambia, e di parecchio, dopo l’11 settembre. O, più precisamente, quando comincia a prendere sempre più corpo la prospettiva di un intervento militare in Iraq. Per una parte vasta della sinistra, quella che scende in piazza, è la conferma di un giudizio antico: Blair è il cagnolino degli americani. Per i riformisti, il discorso è più complicato, fatto di contestazioni per l’intervento e di apprezzamenti per il tentativo di contenere l’unilateralismo degli Stati Uniti e per il forte impegno per imporre il negoziato, anzi, la pace in Medio Oriente: nonostante la divisione feroce creata dalla guerra, il motto blairista secondo il quale ”quando l’Europa e gli Stati Uniti si parlano, il mondo sta meglio” mantiene intatta la sua verità, e forse la rafforza. Ma il rapporto non è più quello di una volta. A Londra, nel luglio 2003, il vertice del Center-Left (ci sono D’Alema, Amato e Rutelli, e new entry di grande rilievo, come il brasiliano Lula) non può che registrare, e diplomatizzare, i dissensi: la Terza Via segna il passo. E infine, atroce, il caso Kelly, l’impopolarità crescente del più popolare dei leader della sinistra europea, le sue difficoltà crescenti in primo luogo nel partito, il suo annaspare davanti alla domanda feroce di un giornalista. Forse rialzerà la testa, Blair, e comunque darà tutta la sua battaglia, perché è un combattente politico vero e orgoglioso, come ha dimostrato […] Ma adesso nella sinistra europea, e anche in quella italiana, ”blairisti” si dicono davvero in pochi» (Paolo Franchi, ”Corriere della Sera” 21/7/2003). «Arrivato a varcare la soglia dei ”big five-O”, i gloriosi 50, potrebbe tirare un bilancio di questo tipo: alla guida del Labour dal 1994, il bravo figlio di mamma Hazel e papà Leo è riuscito subito a rinnovare il partito, eliminando la Clausola 4 che lo rendeva dipendente dalle Unions; lo ha guidato per due volte successive a un trionfo elettorale, consentendogli di battere il record storico di due pieni mandati consecutivi; i conservatori, che negli anni ”80 inflissero al Labour umiliazioni inaudite, sono ai piedi della croce […]; l’economia britannica ha vissuto uno dei suoi boom più lunghi […]; il paese ha combattuto due o tre guerre vittoriose» (Paolo Passarini, ”La Stampa” 7/5/2003). «L’hanno definito ”l’uomo del miracolo” perché è riuscito a spodestare dalla guida del Paese i conservatori di John Major e dell’ormai leggendaria Margaret Thatcher, riportando i laburisti al potere dopo 18 anni di opposizione. il primo maggio 1997 quando diventa il nuovo premier inglese. Una carriera politica, iniziata nel 1983, che lo ha portato dritto a Downing Street. E nel cuore degli inglesi. Il suo slogan?: ”Il tempo delle parole è finito. ora di fare”» (’Sette” n.51/1997). «I giornali inglesi si divertono a pubblicare le sue foto prima e dopo l’arrivo a Downing Street, per dimostrare come stia invecchiando a vista d’occhio. Non è solo questione di stress. Il fatto è che si è convinto di poter lavorare per cinque […] Sta sconvolgendo secoli di prassi governativa britannica anche a danno dei ministri che funzionano. L’apprezzato Jack Straw deve sfoderare sorrisi di circostanza mentre l’amico Tony gli ruba la scena […] E il soave David Blunkett è obbligato ad accarezzare il cane-guida mentre il premier sale sul podio per perorare le ragioni del pur ottimo ministro (non vedente)» (William Ward, 19/8/1999). «Grazie all’intelligenza politica e al suo carisma personale, il partito laburista ha conquistato il potere due volte di seguito per la prima volta nella storia del Regono Unito […] Il 2001 sembra essere l’annus mirabilis per lui. A giugno ha stravinto le elezioni generali, umiliando i rivali politici. […] Ma, soprattutto, nelle quattro settimane dopo l’11 settembre è riuscito ad accrescere il proprio capitale politico più di qualsiasi altro esponente della coalizione occidentale. La sua condanna degli attacchi all’America è stata più immediata e sentita rispetto a quelle dei colleghi europei, come è stata più sicura e meno equivoca la sua offerta immediata di piena collaborazione militare, logistica e dell’intelligence. Come nessun altro politico ha afferrato il senso del momento […] I frutti immediati si sono visti soprattutto negli Stati Uniti, dove viene accolto come un eroe di statura quasi churchilliana. Ha ricevuto ben due standing ovation dalle camere congiunte a Washington, è stato omaggiato continuamente da George Bush e dai suoi consiglieri, mentre i media americani lo hanno adottato come nuovo beniamino. ”L’alleato più intimo” per il ”New York Times”, ”il migliore ambasciatore degli Stati Uniti all’estero” per il ”Wall Street Journal”» (William Ward, ”Panorama” 11/10/2001). «Il ”megafono dell ”Occidente ” […] è l ”ultimo ”grande comunicatore” che ci sia rimasto. La sua ambizione è maggiore: costruire una nuova ”dottrina” globale per la comunità internazionale, che sia interventista ma anche progressista, inflessibile ma politicamente corretta. Bush è il leader degli americani, Blair vuole diventare l’ideologo di ”Euramerica ”, questa nuova versione dell ”Occidente che ha bisogno del mondo arabo se vuole vincere la battaglia mortale con il nemico fondamentalista. La chiave della ”dottrina ”Blair è ecumenica e intrisa di zelo morale; proprio come lui, cristiano fervente ma lettore ed estimatore del Corano. L ”obiettivo è estrarre il Bene dal Male, la pace dal terrore, la giustizia dall ”ingiustizia. Solo una forte ispirazione religiosa può far dire a un uomo politico che dall ”attentato di New York deve nascere un mondo che curi le cicatrici dell’Africa, impedisca un altro Ruanda, risolva la tragedia del Congo,dia una patria ai palestinesi e il pane agli afgani, rammendi il buco dell’ozono e porti la Gran Bretagna nell’Euro […] Mettendosi ”spalla a spalla ”con Bush, ha conquistato la posizione migliore per esserne ascoltato. l ”unico leader straniero trasmesso in diretta tv negli Usa. Entra direttamente nel dibattito interno all’Amministrazione […] D’altra parte, essendo un europeo, può dire cose che Bush non può dire: sì a Kyoto, sì a uno Stato per i palestinesi. […] Prepara il terreno a quella che si dice sia la sua aspirazione: diventare il primo presidente eletto dell ”Unione Europea allargata all’Est […] Talvolta le vere ”colombe ”sono i ”falchi”. Fu Churchill a ottenere la pace facendo la guerra; non Chamberlain, predicando una pace che portò alla guerra» (Antonio Polito, ”la Repubblica” 10/10/2001).