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 2002  febbraio 14 Giovedì calendario

Bobbio Norberto

• Torino 18 ottobre 1909, Torino 9 gennaio 2004. Filosofo. Si è impegnato nel rinnovamento degli studi giuridici liberandoli dalla tradizione idealista e spiritualista e ponendo particolare attenzione al rapporto tra diritto e società. Senatore a vita dal 1984, è presente nel dibattito culturale su posizioni di socialismoliberale. autore di numerosi saggi e ricerche storiche: tra le sue opere più recenti, L’utopia capovolta, Destra e sinistra, Eguaglianza e libertà, De senectute (’liberal” 30/7/1998). «Lo studioso di politica e filosofia del diritto più importante del dopoguerra italiano. Professore emerito dell’Università di Torino dal 1984, è uno dei più grandi teorici della democrazia del XX secolo. In sessant’anni di attività accademica ha esplorato numerosi temi dell’etica, il diritto e la politica, concentrandosi sulla teoria e la pratica della democrazia. Uno dei filoni fondamentali del lavoro di Bobbio, per il quale egli è uno dei teorici di riferimento del ”socialismo liberale”, è stata l’elaborazione di una sintesi fra la difesa delle libertà individuali propria del liberalismo, i diritti umani e le regole democratiche. Dopo aver preso parte alla lotta antifascista durante la Resistenza, ha seguito da vicino le complesse vicende della Prima Repubblica, nonché la difficile transizione verso la Seconda. Analista imparziale della politica italiana fin dagli anni Cinquanta, ha difeso con tenacia le libertà civili e messo in risalto le aspettative e le aspirazioni dei cittadini nelle moderne democrazie, riuscendo a mantenere alto l’ideale di una società più libera, più civile e più giusta attraverso le trasformazioni della democrazia italiana. Nella sua attività di pubblicista non ha mai cessato di ribadire il significato della lotta contro il fascismo e in difesa della libertà e la giustizia. Questa scelta affiora anche nei suoi articoli giornalistici, la maggior parte dei quali è apparsa sul quotidiano torinese ”La Stampa”, al quale collabora fin dal 1976. Dalla sua colonna rivolge con insistenza un duplice appello: in primo luogo, verso la società civile, affinché sviluppi maggiore partecipazione. Nei confronti della classe politica, perché agisca con più trasparenza e responsabilità. L’enfasi sulla partecipazione e la trasparenza ha radici antiche. Negli anni giovanili di Bobbio la città di Torino fu un barometro dell’attività intellettuale e il cambiamento osservato con interesse sia dall’Italia settentrionale che dall’Europa. Le iniziative culturali e intellettuali che si svilupparono nella capitale subalpina fra il 1920 e la fine degli anni Cinquanta, corrispondono a una fase di intensa attività politica e furono caratterizzate dalla cultura militante. Secondo Bobbio, questo tipo di cultura non si traduce in azione politica immediata, anche se ne trae ispirazione e se in certe condizioni può acquisire una dimensione politica. Una cultura militante deve poggiare essenzialmente su solide basi morali. una cultura impegnata in un dibattito costante, unica condizione nella quale una tradizione culturale può sopravvivere e perpetuarsi. Nel corso degli anni ha più volte invocato la fine del multipartitismo all’italiana, ritenuto il principale fattore di instabilità politica. Quando le elezioni politiche del 1996 si conclusero con la vittoria della coalizione guidata da Romano Prodi, salutò su ”Le Monde” ”la fine dell’anomalia italiana”. Finalmente era avvenuto l’atteso cambiamento ma ”la vera novità, ancora più importante per l’evoluzione della democrazia in Italia, è l’alternanza”. Secondo lui un altro tratto distintivo del concetto di democrazia si ritrova nella sua analisi delle ”promesse non mantenute” e degli ostacoli che costantemente compromettono l’efficacia dei processi democratici. Se la democrazia si definisce innanzi tutto come la partecipazione del numero più ampio dei cittadini al processo decisionale e in secondo luogo come metodo pacifico per la risoluzione dei conflitti, è evidente che le promesse mancate riguardano soprattutto la prima definizione. Per Bobbio questa relativa ”insoddisfazione” dimostrerebbe che la democrazia è ”difficile” proprio in virtù dell’incompletezza. La nozione di democrazia si allarga a vasti segmenti della società civile, dentro e fuori dagli stati. In questo senso, anche se il numero di stati democratici cresce e il sistema internazionale diventa più democratico, le spinte sia globali che locali pongono costantemente nuove sfide. Una delle principali è rappresentata dalla questione dei diritti umani. Bobbio sostiene che il riconoscimento e la tutela dei diritti umani, che sono la conditio sine qua non per la sopravvivenza della democrazia, sono il problema centrale del mondo contemporaneo. Da Kant discende la sua idea secondo la quale l’importanza attribuita alla dignità umana è un segno premonitore del progresso morale della società. La teoria dei diritti di Bobbio s’ispira inoltre al Rousseau del Contratto sociale, nonché a Hobbes, Locke e altri giusnaturalisti. Secondo Bobbio i diritti naturali sono diritti ”storici”, nati in momenti diversi e soggetti a trasformazioni ed espansioni. Dopo la seconda guerra mondiale la teoria dei diritti umani si è evoluta principalmente in due direzioni: l’universalità e la moltiplicazione. Nel diritto internazionale l’universalità è considerata il punto di partenza per trasformare il diritto tradizionale ”delle genti” in diritto ”individuale”. Potenzialmente questa trasformazione riconosce all’individuo la facoltà di mettere in discussione il proprio Stato per qualsiasi questione riguardante i propri diritti. In teoria ogni individuo è cittadino non soltanto di un solo Stato ma anche del mondo. La moltiplicazione dei diritti umani viene vista come un fenomeno sociale. Questa analisi spiega l’origine dei diritti, i rapporti con la società nonché il nesso fra il mutamento sociale e la comparsa di nuovi diritti. Il classico diritto alla libertà si è esteso ai diritti politici, sociali e di altro tipo, con il fine ultimo di difendere i tre valori fondamentali della società: la vita, la libertà e la sicurezza economica. Per Bobbio questa estensione dei diritti umani fornisce una prova storica della compatibilità fra socialismo e liberalismo. Egli sostiene ottimisticamente che oggi più che in passato viviamo e lavoriamo in un universo di ”valori condivisi”, quelli della democrazia liberale, intesi come ”regole del gioco” della convivenza democratica. Queste regole presuppongono il riconoscimento dei diritti umani e puntano ad eliminare l’uso della forza nella risoluzione dei conflitti sociali. Se ci soffermiamo ad osservare la lotta per i diritti in una prospettiva storica, noteremo che via via ci sono stati diversi fronti e tre controparti fondamentali: il potere religioso (la Chiesa), il potere politico (le guerre di conquista) e il potere economico (il capitalismo). Oggi le minacce per la vita, la libertà e la sicurezza arrivano dal potere scientifico e dalle sue molteplici applicazioni tecniche. Le società moderne sono caratterizzate dal progresso rapido e irreversibile e dalla trasformazione tecnologica e tecnocratica su scala globale. Di conseguenza, sia nel dibattito all’interno degli stati che in quello internazionale si affacciano nuovi diritti, che Bobbio chiama ”di terza e quarta generazione”. In sintesi, Bobbio colloca il nesso fra diritti, democrazia e pace alla base della convivenza democratica fra gli stati e dell’ulteriore democratizzazione internazionale. Tuttavia, è anche consapevole del fatto che, in virtù del principio di non interferenza, il sistema internazionale non garantisce una tutela adeguata dei diritti umani perché si arresta sulla soglia degli stati sovrani. L’estensione globale dei diritti umani può realizzarsi soltanto se gli individui hanno diritto a ricorrere dinanzi a tribunali più alti di quelli del proprio stato. Rompere la tradizione del jus publicum europaeum significa che non soltanto gli stati o le entità collettive ma anche le persone diventano soggetti del sistema internazionale. Nei suoi scritti sulla democrazia nei rapporti fra le nazioni ribadisce l’idea secondo la quale, in virtù della democratizzazione non omogenea della vita internazionale, nel secolo ventesimo (e quindi anche in quello successivo) la vera sfida alla democrazia interna di uno stato arrivi dall’esterno. Secondo questa teoria la democrazia del futuro non può prescindere di una dimensione cosmopolita. In questo senso l’aggettivo ”cosmopolita” si riferisce sia a tutti gli stati che alle polity, ovvero, a tutte le comunità politiche organizzate, e riguarda una polity universale. Questo principio, che mette in luce la necessità di una legge in grado di governare i rapporti sovranazionali, forma parte del discorso della teoria cosmopolita, che rifiuta le divisioni territoriali e politiche (patria, nazione, stato) e afferma il diritto dell’individuo a proclamarsi cittadino del mondo. La matrice della nozione bobbiana di un diritto cosmopolita che potenzialmente coesiste con quello nazionale e quello internazionale si trova in Per la pace perpetua di Kant» (Teresa Chataway, ”La Stampa” 17/9/2002). «Maestro del dialogo e del dubbio, scavatore inesausto nella profondità delle parole e dei concetti, virtuoso dell’ossimoro come risorsa preziosa per svelare una verità nascosta, il filosofo torinese sembra subire, nella sua vecchiaia, un destino davvero beffardo. La lucidità intellettuale con la quale per oltre mezzo secolo ha spaziato nei campi più diversi del diritto, della filosofia, della scienza politica non pare aver suscitato un’analoga acribia interpretativa sui suoi studi. Si è preferito, invece, con l’alibi di un diritto di critica che nessuno ha mai negato, usare la sua figura strumentalmente, per fini di diretta campagna politica e culturale. Da una parte, sintomo di un provincialismo intellettuale che non riesce ancora a sopportare l’ingombro del personaggio, la sua scomodità concettuale e morale; dall’altra, la prova di come sia difficile accettare e proseguire una lezione così impervia, su e giù dalle «montagne russe» di una straordinaria finezza d’ingegno. [...] Molti sarebbero gli insegnamenti che gli studi di Bobbio forniscono all’analisi culturale d’oggi, dal concetto di politica come funzionamento delle istituzioni, per cui l’imparzialità è la condizione fondamentale della cittadinanza, a quello dell’eguaglianza delle opportunità, postulato della libertà in una democrazia. Oppure, il suo rifiuto di militare tra gli adepti della polemica partitica, durante la guerra fredda, tra comunisti e anticomunisti. Un rigetto di quell’’odio teologico” tra avversari politici tanto di moda anche all’inzio di questo nuovo secolo. Una particolare riflessione, forse, meriterebbe la concezione del ruolo dell’intellettuale, secondo Bobbio» (Luigi La Spina, ”La Stampa” 4/11/2003). «Filosofo della politica e del diritto, si è distinto, in piena era staliniana, in un celebre dibattito con Palmiro Togliatti sul rapporto tra libertà e giustizia (poi ripreso nella raccolta einaudiana Politica e cultura) in cui lo studioso riusciva incredibilmente a conciliare il suo amore per la libertà con la certezza che il modus operandi del procuratore moscovita Vishinsky incarnasse la quintessenza dello Stato di diritto. Allievo di Gioele Solari e seguace del maestro Augusto Monti incontrato nelle aule del mitico liceo D’Azeglio di Torino, si avvicinò agli ambienti di Giustizia e Libertà e prese il nome di battaglia ”Bindi” durante la Resistenza, a pochi anni di distanza dalla stesura di alcune compromettenti lettere del Duce scritte con l’intento di perorare la propria causa accademica e da qualche tempo riesumate dagli avversari politici che tendono a vedere in quelle improvvide missive un segno di incoerenza nel fulgido percorso antifascista del più autorevole editorialista della ”Stampa”. Il quale, nel 1990, al tempo delle rivelazioni sul cosiddetto ”triangolo rosso”, lanciò sulle colonne del quotidiano torinese lo slogan ”chi sa, taccia”. Maestro del pensiero veneratissimo dalla sinistra post comunista, ha scelto negli ultimi anni la linea dell’indignato silenzio» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 3/10/1998). «Norberto Bobbio è sempre stato eccentrico rispetto alla stragrande maggioranza di noi, perché - è vero - ha avuto un eclettismo assolutamente fuori norma: giurista positivo e filosofo, liberale e socialista, discepolo di Locke e seguace di Mosca e di Pareto. Ma desumere - come mi pare si faccia - dalle matrici eclettiche del suo pensiero che si tratta di un pensiero contraddittorio, significa essere in qualche modo deduttivamente prigionieri delle pareti entro le quali, a differenza di lui, si è lavorato. Naturalmente nessuno la mette così e gli argomenti forniti a mo’ di prova ci sono e cercano di essere motivati. Ma non li trovo convincenti e penso che al fondo giochi l’idea, sbagliata, che Bobbio abbia cercato di muoversi in un universo troppo ampio, che si sia incuriosito di troppe cose e che alla fine, proprio questo, abbia perso il filo delle necessarie coerenze. Io la vedo in tutt’altro modo e penso che le contraddizioni che emergono da Bobbio non siano sue, ma degli spicchi, spesso enormi, della realtà su cui egli lavora. Si dirà che questo è il classico espediente retorico per non dispiacere al Maestro e per tacitare con uno svolazzo i suoi critici. Vediamo. La critica più diffusa è quella del presunto ossimoro su cui egli ha speso larghissima parte di sé, il socialismo liberale. una critica che trova alimento, da una parte in quel che rimane delle roccaforti ideologiche che hanno vissuto e cercato di far vivere come inconciliabili nel secolo scorso il socialismo e la libertà degli individui, dall’altra nella palestra filosofica dove da decenni vengono contrapposte come a loro volta inconciliabili la libertà e l’eguaglianza. Checché si dica, fra le roccaforti e la palestra ci sono sempre stati canali di comunicazione e gli estremismi con i quali, in sede filosofica, si sono escluse o l’eguaglianza o la libertà come secondo termine compatibile con quello dei due che si fosse prescelto come primo, mi sono sempre apparsi accanimenti logici ispirati più da passione che da ragione. un fatto che il muro costruito dalla passione, e dalle conseguenti ideologie, lo hanno saputo rompere autori di entrambe le sponde. Il che dimostra che da entrambe le sponde lo si è percepito come un muro sbagliato e che, in particolare, tale è apparso non solo ai liberali "passionevoli" (come tende ancora oggi a pensare la sinistra più intransigente), ma anche ai riformisti di provenienza socialista. Insomma, prima di Calogero, prima dei Rosselli, prima dello stesso Bobbio, c’era stato Bernstein. Ed è arduo considerarlo ancora oggi un rinnegato. Oggi poi, in tempi non più solo di filosofi della retorica, ma anche di filosofi dell’economia, da Albert Hirschman ad Amartya Sen, libertà ed eguaglianza appaiono assai più complementari di quanto non riuscissero ad apparire in passato. [...] In termini solo in parte diversi si pone una seconda questione che giganteggia nel pensiero di Bobbio, quella della difesa della democrazia liberale e della ripetuta constatazione della sua stessa "impossibilità" in presenza delle oligarchie e delle organizzazioni collettive che finiscono per prevaricare la libertà dei singoli. Intanto va detto che, se questa è una contraddizione, essa va imputata non soltanto a Bobbio, ma a un’ampia schiera di studiosi, e cultori, della democrazia liberale, da Robert Dahl a Ralf Dahrendorf, da Mancur Olson a James March e Johan Olsen; non a caso tutti autori che la democrazia liberale l’hanno studiata non nella fase elitaria delle origini, ma in quella seguita al suffragio universale. Secondariamente, e conseguentemente, va constatato che la stessa democrazia è, non meno del socialismo liberale, una potenzialità, un approntamento di spazi nei quali l’equilibrio è possibile, ma non è mai garantito da meccanismi di automatica espulsione dei fattori squilibranti o deformanti. Lungo tutto il ventesimo secolo è emerso che le organizzazioni rappresentative possono deformare la loro azione a beneficio di sé medesime piuttosto che dei loro rappresentati, che nei loro meccanismi interni possono addirittura comprimere la libertà dei singoli che attraverso di loro si dovrebbe invece esercitare, che la democrazia, quindi, può diventare equilibrio oligopolistico, generando tutti i comportamenti opportunistici che sono tipici di un tale equilibrio. Parlare, su queste premesse, di "impossibilità" della democrazia non significa negarla, significa negarne un inveramento da paradiso terrestre, sottolineare la sua permanente imperfezione e il bisogno non meno permanente che si difenda l’apertura dei suoi spazi. Ma insomma, la critica ai partiti che dalla metà degli anni ’70 accomunò buona parte degli autori (da Costantino Mortati allo stesso Bobbio) che li avevano salutati come veicoli della democrazia dei cittadini, non era forse argomentata con le entropie che i partiti avevano generato, con l’uso che facevano del consenso allo scopo prevalente di misurare gli spazi rispettivi di occupazione dello Stato, con la difficoltà di una effettiva partecipazione politica nella loro vita interna? Né dire questo era negare la democrazia o auspicare l’abolizione dei partiti ai fini di una democrazia migliore. Era richiamare alla necessità dell’antiruggine, in assenza di che, certo, le ossificazioni potevano distruggere tutto. E più tardi l’antiruggine viene usato, più possono andare in pezzi gli stessi pilastri ai quali lo si applica. Il che in buona parte è accaduto nella vicenda italiana dei primi anni ’90. Sin qui- come dicevo - Bobbio e la sua apparente contraddizione sulla democrazia godono di una compagnia numerosa. La vera domanda che mi rimane - e su di essa il Bobbio degli ultimissimi anni non ha avuto modo di lavorare in presa diretta - è quella che riguarda il futuro della democrazia nella società post-partitica, frammentata, individualizzata e fortemente affidata alle aggregazioni mediatiche, in cui stiamo entrando. Davanti ai rischi di una politica fondata soltanto su collanti emotivi e populisti ovvero su legami ferreamente categoriali, viene quasi da rimpiangerle le malformazioni della democrazia costruita sulle grandi organizzazioni della società industriale fordista. Almeno a quelle si poteva applicare l’antiruggine e si viveva nella ragionevole aspettativa di una ciclicità capace di ricostituire nel tempo l’equilibrio ottimale. Ma ora, ora che i partiti sono troppo deboli e non troppo forti, ora che il consenso dipende sempre più largamente dalla possibilità di raggiungere famiglie e individui attraverso i mass media e quindi dalle risorse di cui si dispone per farlo, ora che il dissenso sempre più si manifesta o con la simbologia della protesta o all’opposto con il ripiegamento nella vita privata, ora che siamo su questo crinale, qual è il futuro della democrazia?» (Giuliano Amato, dal volume Bobbio ad uso di amici e nemici).