14 febbraio 2002
Tags : Carlo Bo
Bo Carlo
• . Nato a Sestri Levante (Genova) il 25 gennaio 1911, morto a Genova il 21 luglio 2001. Critico letterario. «Il critico letterario più autorevole del nostro Paese, Magnifico rettore dell’Università di Urbino, senatore a vita per i suoi alti meriti culturali [...] Uno dei più grandi esponenti della cultura italiana [...] Il saggio professore, il critico cui la cultura italiana guardava come a un oracolo[...] Aveva spiegato: ”Tutto quello che avevo da dire come studioso l’ho detto in un arco di tempo che arriva al 1945. Quel che è venuto dopo è stanchezza, delusione, erosione della fede nella letteratura”. E poi, imprevedibilmente, con l’umiltà di un grande, aveva aggiunto: ”Mi rammarico del tempo perduto, degli studi che non ho fatto”» (Matteo Collura, ”Corriere della Sera” 22/7/2001). «Aveva scritto le prime recensioni nel 1932 e aveva avuto cattedra di letteratura francese a Urbino nel 1938, a ventisette anni; nel 1947 divenne magnifico rettore di quell’università. La passione per la letteratura sbocciò all’improvviso. In famiglia non c’erano precedenti: il padre notaio, la madre una casalinga borghese, il fratello notaio come il padre. ”Il momento decisivo - raccontò - fu in liceo. Venne a insegnare greco per una supplenza il poeta Camillo Sbarbaro. Un giorno, lasciò in sospeso la lezione di greco e si mise a commentare Alla stazione del Carducci, quell’ode che comincia ’Oh quei fanali come s’inseguono...’. Fu una questione di pochi minuti, ma in quei minuti credo di aver capito cos’era la poesia”. Seguirono gli studi universitari a Firenze, dove divenne amico soprattutto di Tommaso Landolfi. Conobbe anche Montale e il gruppo che frequentava il caffè delle Giubbe Rosse. Si laureò con una tesi su Huysmans, scrisse il suo primo libro, un saggio su Rivière, cui seguì un’opera su Sainte-Beuve. ”Era un libro enorme - precisava con ironia - che nessuno ha mai letto. Ne regalai una copia a Montale, che lo portò a casa sua a Genova. Seppi che, data la mole, uno dei fratelli di Montale se ne serviva per tenere la piega dei pantaloni”. Nel 1939 uscirono gli Otto studi, che rivelarono il suo interesse per la letteratura contemporanea, in particolare per l’ermetismo. Quell’anno fu chiamato alle armi come soldato semplice. Aveva già i capelli tutti bianchi, per i commilitoni era ”il nonno”. Divenne amico di Giuseppe Olmo, nativo di Celle Ligure, un campione del ciclismo, quasi imbattibile nelle volate. Fu congedato dopo sei mesi: ”attitudine militare ridotta”, cioè sedentario. Nel ’44 la famiglia lasciò Sestri Levante per Milano: bisognava far perdere le tracce. Il padre era ricercato per il suo antifascismo, il fratello Giangiacomo era un capo partigiano. E da allora Milano divenne la città di Bo. Con tutti gli scrittori, con tutti i poeti e i saggisti che aveva conosciuto avrebbe potuto mettere insieme una storia segreta della letteratura contemporanea: si limitava a qualche divertente aneddoto, per esempio sulla timidezza di Carlo Emilio Gadda» (Giulio Nascimbeni, ”Corriere della Sera” 22/7/2001). Ha scritto Giovanni Raboni: «Nel corso della sua lunga vita è stato, lo sappiamo, molte cose: teorico della letteratura e moralista, giornalista e grande accademico, pensatore e cronista, saggista e critico militante; e ha diviso con assoluta equanimità (ma trovando tempo e modo per esercitare a fondo un’altra e certo non separata passione, quella per i poeti spagnoli del ’900) il suo talento di lettore e di interprete fra la letteratura francese moderna (che è il campo dei suoi studi giovanili e della sua carriera universitaria) e quello della letteratura italiana contemporanea (che fu, negli anni Trenta e Quaranta, il punto d’applicazione privilegiato della sua militanza o, meglio ancora, del suo straordinario, inimitabile ”diarismo” critico). Ma non è tanto per l’ampiezza dei suoi interessi, né solo per la versatilità e la geniale spregiudicatezza dei mezzi espressivi (dal saggio all’articolo di giornale, dall’impegno ”esterno” del traduttore, del curatore, del prefatore a quello interiore e quasi segreto, appunto, dell’autore di un diario intermittente e tuttavia mai veramente interrotto), che è potuto sembrarci e anzi sicuramente essere, per molti di noi, in anni decisivi e irripetibili, un maestro. No, la ragione - la questione - era più di fondo, più di sostanza; e aveva, anzi a che fare con quel profondo, oscuro, in qualche modo magmatico coesistere e intrecciarsi di passione estetica e passione morale, culto della purezza della parola e certezza o bisogno della sua impurità, desiderio di annullarsi nell’infinita specificità della poesia e impulso a ”usarla”, la poesia, per le necessità e i tormenti della propria inquietudine esistenziale e religiosa, cui lo stesso Bo si riferiva con il titolo (rapidamente passato in proverbio e quasi altrettanto rapidamente frainteso o caricaturato) di un suo famoso saggio giovanile, Letteratura come vita (poi compreso in quegli Otto studi che rimangono, a più di sessant’anni di distanza, non solo una delle opere fondamentali di Bo, ma anche una delle più belle prove di scrittura saggistica del secolo). Questo era, questo ci parve, negli anni confusi e meravigliosi del dopoguerra, l’insegnamento di Bo: che la letteratura bastava e, nello stesso tempo, non bastava a se stessa; che la sua ”autonomia” era, nello stesso tempo, un valore da difendere a costo della vita e una finzione da smascherare con qualsiasi mezzo; e che si poteva, forse si doveva essere, contemporaneamente - come lo stesso Bo, in effetti, era, e sempre più si sarebbe dimostrato - un adepto della poesia ”pura” e uno che cerca altrove (nell’interrogazione morale, nella ricerca religiosa, magari nelle scelte d’ogni giorno) il senso e la misura del proprio esistere. Che importanza poteva avere, allora, che Bo fosse stato il principale sostenitore, se non addirittura l’inventore dell’’ermetismo” e a noi, di quindici o vent’anni più giovani, esso apparisse invece come un’idea e una pratica da superare, forse da combattere? Ad affascinarci, in lui (come del resto, nel suo amico e antagonista Vittorini, con il quale Bo intrattenne ai tempi del Politecnico alcune memorabili e fraterne polemiche, lui difendendo il suo cristianesimo di sempre, l’altro il suo presunto marxismo...), era il fecondo, stimolante convivere fra un amore assoluto per la ”cosa” (la letteratura, la poesia) e una disperata, vitale, insopprimibile disponibilità verso tutto ciò (l’ansia religiosa o l’impegno politico o, semplicemente, la vita) cui essa, nell’atto stesso in cui sembra assorbirlo, misteriosamente e illimitatamente rimanda. Maestro di verità in quegli anni, Bo sarebbe poi rimasto fino all’ultimo maestro di stile. Non c’è un solo brano, un solo rigo della sua prosa (e non parlo solo dei suoi non moltissimi libri, ma anche della sua sterminata produzione giornalistica) che non porti il segno di un’agilità espressiva prodigiosa, capace di ospitare abissi di allusività e suggestione dentro formulari ritmico-lessicali di quasi provocatoria nonchalance» (Giovanni Raboni, ”Corriere della Sera” 22/7/2001). Da un’intervista di Antonio Gnoli per i suoi 90 anni: «Non mi è rimasta neppure quella forma di vanità che ti fa godere delle cose più effimere. Mi sento un morto fra i vivi [...] Lasciatemi morire in pace [...] Non ho paura della morte ma del morire. questo spegnersi lentamente che è terribile [...] Non ho messaggi da lasciare ai posteri, non ho intuizioni folgoranti. Ho l’impressione che ci siamo riempiti la testa di ’novecento’, come se fosse una lozione per i capelli [...] Vuol davvero sapere che cosa significa per me fare oggi un bilancio serio, onesto, pulito su che cosa è stata la mia vita? Ebbene quel bilancio, glielo assicuro, è deludente, assai deludente [...] Quella sorta di lungo tradimento che è stata la mia vita. E poi la mancanza di carità vera... [...] Sono stato incapace di fare la sola cosa per cui valeva la pena impegnarsi: scrivere per raccontare la vita [...] soprattutto mi pesa il confronto con i poeti [...] Col tempo ti accorgi che quella che è stata una scelta è stato un passaggio obbligato, un modo per difendersi dal talento che non hai [...] Mi riconosco due o tre meriti: aver tradotto Lorca e averlo fatto conoscere in Italia, di aver parlato tra i primi del surrealismo e di aver inventato l’ermetismo» (’la Repubblica” 24/1/2001).