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 2002  febbraio 14 Giovedì calendario

BOCCA Giorgio

BOCCA Giorgio Cuneo 18 agosto 1920, Milano 25 dicembre 2011. Giornalista • «L’incarnazione del cronista italiano militante, fazioso, che ha combattuto tutte le guerre, vincendo anche quelle che i suoi momentanei compagni di battaglia invece perdono. La genialità di saper ballare la danza dell’indignazione, un po’ più a lungo e un po’ meglio degli altri, lo rende insostituibile. Nel 1979 disse di sé a Walter Tobagi: “Il giornalismo è un po’ come lo spettacolo, come il ballo, il teatro. Devi saper ballare, devi saper recitare, non puoi ingannare i tuoi colleghi. A volte la marcia può essere molto lenta, ma chi sa durare riesce”. La sua stagione migliore è legata all’esperienza del “Giorno”, il suo servizio più importante fu l’intervista al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un vero testamento politico che segnò, per molti anni, la battaglia contro la mafia. Indimenticabili alcuni suoi servizi sul terrorismo. Risultano invece grotteschi alla rilettura certi apocalittici racconti, come quando, più di vent’anni fa, incazzato e perduto su un’autostrada di Los Angeles, credette di vedere nell’auto la fine di tutte le civiltà. O quando raccontò di aver incontrato sulla Catania-Palermo, assolata e deserta d’estate, una donna che faceva l’autostop e che, sotto mille veli neri, si rivelò bellissima e naturalmente lo sedusse. Scrive su “Repubblica” e sull’“Espresso”, non è mai stato direttore e tuttavia vuole esercitare un controllo ideologico sui giornalisti più giovani che, spesso, nei suoi articoli bastona senza generosità. Mitici il suo familismo e il suo attaccamento al denaro» (Pietrangelo Buttafuoco, “Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 3/10/1998). • Al “Giorno” arrivò dall’“Europeo”: «Nel ’60, mi pare, con Baldacci non ho mai lavorato. Mi voleva, ma ho preferito entrare con Italo Pietra. Baldacci, giornalisticamente, era troppo lontano da me. Io venivo dalla cronaca, lui dalla politica. Mi ricordo ai funerali di De Gasperi, per caso ero nella cabina vicino a quella da cui Baldacci telefonava il suo servizio. Sembrava di ascoltare un ministro. Lo ammiravo, ma non mi assomigliava. Con Pietra invece ci riconoscevamo, stesse esperienze, partigiano come me, era stato venti mesi in montagna, ci si intendeva al volo. Il Giorno di Baldacci era anche un giornale-spettacolo, con Pietra aveva i piedi più piantati per terra. È stato una rivoluzione del giornalismo. Prima, per fare un esempio, nessuno si sarebbe mai sognato di fare un servizio su una fabbrica, le vicende sindacali erano ignorate. Col “Giorno” s’è incominciato a fare del giornalismo concreto, a occuparsi delle faccende concrete del Paese. Mi ricordo il mio primo servizio, a Vigevano, il boom delle calzature. Cominciava così, più o meno: “Mille fabbriche, nessuna libreria…”, roba mai scritta prima. E scritta in un italiano diverso, per farsi capire da tutti. Il rapporto con l’Eni e Mattei era strettissimo. Lo consideravo un partigiano, non mi dava fastidio il condizionamento. Quando affidò ai suoi partigiani la costruzione del metanodotto da Piacenza a Milano che certi comuni non volevano consentirgli di fare, e quelli lo costruirono in una notte, be’, lo trovai entusiasmante. Le cose cominciarono a cambiare con la morte di Mattei, nel ’62. All’Eni era arrivato Cefis, che era contro la politica di Mattei, e aveva il compito di riallacciare con gli americani. Negli anni Settanta la destra Dc si era reimpossessata del giornale. Con Gaetano Afeltra, il vero direttore era Moro. Nel 1975 me ne andai» (“La Stampa” 20/4/2006) • «Quando lavoro per me è tempo libero. Lavorare è la parte più divertente e centrale della mia vita. Come diceva Barzini, fare il giornalista è meglio che lavorare. […] “Non” lavoro dieci-dodici ore al giorno. A casa mia. E quando comincio ad annoiarmi smetto. […] Andai nel Bangladesh dove c’era un’inondazione e dormii per due notti sulla tolda di una nave. È un mestiere simile a quello di un attore. L’attore pensa che morirà sul palcoscenico, il giornalista che non smetterà di scrivere nemmeno nel momento della malattia. […] Il momento più felice è stato quando lavoravo al “Giorno”. Eravamo dentro la società italiana. Avevo l’impressione che quello che scrivevo contava per la gente. […] Non ho voluto dirigere un giornale perché non ero capace di farlo. Io voglio rispondere solo delle mie azioni e poi ci vuole troppa pazienza. Il migliore direttore per me fu Italo Pietra, che non era un giornalista ma un mediatore. […] Sono un ottimo padre, ma ho scoperto alla mia veneranda età che non lo sono solo per ragioni sentimentali ma anche per narcisismo. Sono un risparmiatore paranoico di soldi, perché penso che lasciare ai propri figli dei soldi sia importante […] Il mio maestro assoluto è Vittorio Foa» (Alain Elkann, “La Stampa” 1/2/1998).