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 2002  febbraio 14 Giovedì calendario

BOLLEA Giovanni

BOLLEA Giovanni Cigliano (Vercelli) 5 dicembre 1913, Roma 6 febbraio 2011. Neuropsichiatra. L’innovatore della neuropsichiatria infantile italiana del dopoguerra. Si è formato a Losanna, Parigi e Londra. Ora è professore emerito all’università La Sapienza di Roma. Fondatore e direttore dell’Istituto di neuropsichiatria infantile di via dei Sabelli a Roma, promotore di innumerevoli iniziative a favore dell’infanzia. «Nel ’46, un ragazzo nell’Italia devastata dalla guerra, le strade piene di sciuscià, ragazzi allo sbando, bambini con gli occhi ancora pieni della paura dei bombardamenti. Cosa posso fare per quei ragazzi?, mi chiedevo. Volevo curarli. Fu il mio maestro, il professor Ciarletti, a scegliere per me, mandandomi in Svizzera a studiare neuropsichiatria. Ma quella cosa un po’ strana e nuova, per me era un po’ scienza e molto impegno sociale, e mi appassionò. Non mi sono mai pentito» (Michele Smargiassi, "la Repubbica" 8/6/2003) • «La gioia incomparabile che gli procura aiutare qualcuno a crescere non l’ha mai nascosta. Al punto che, non contento di dedicarsi ai bambini e agli adolescenti, ha fondato l’Alvi, Alberi per la Vita, associazione per il rimboschimento dell’Italia, senza spesa pubblica. Questa forza travolgente, Giovanni Bollea, l’ha avvertita dentro di sè fin dalla prima infanzia. Ama citare un ricordo molto significativo, legato a quel periodo quando, scolaro di sette anni, andò in visita con la sua classe al Cottolengo di Torino. La suora che faceva da guida ad allievi e insegnanti, nel mostrar loro la stanza dei piccoli affetti dagli handicap più gravi, commentò: “Vedete, questi sono i bambini che per primi andranno in Paradiso”. E il piccolo Bollea, indignato e combattivo, di rimando: “Perché invece non li curate?”. [...] “Più si diventa vecchi e più si ha la sensazione di tornare indietro, alle proprie origini. Come un fiume che si avvicina alla sorgente, dove l’acqua è limpida”. Ma quanta strada ha fatto quel “fiume”. Nasce a Cigliano Vercellese e vive la prima infanzia a Torino, nel popolarissimo quartiere di Porta Palazzo. Conosce la gente della strada, persone segnate dalla miseria, fisica e morale, dalla fatica di vivere partendo svantaggiati. E proprio in questo habitat matura, in lui, il primo germe di una coscienza che lo porterà a considerare la sua missione a tutto tondo, nell’esaminare il disagio della psiche, senza prescindere dal contesto sociale. Perché ha scelto di occuparsi proprio dei bambini? “Nel ’47, subito dopo la guerra, ho incontrato una gran quantità di piccoli che soffriva, costantemente preda dell’angoscia per il conflitto che era stata costretta a vivere. Per questo ho incominciato. Per loro. L’anno prima ero stato scelto tra i sei italiani per frequentare un corso di psichiatria infantile, a Losanna. Tornato dalla Svizzera, ho iniziato a lottare per mettere in atto i miei progetti”. E lotta è sempre stata per Bollea. A viso aperto, ma senza tentennamenti. Figlio, amatissimo, di un padre con la testa piena di ideali e con la propensione a perdere tutti i denari in imprese destinate a non avere futuro, e di una madre dolcissima, con il senso pratico che permise alla famiglia di tirare avanti, il giovane Bollea, liceale, alle cinque del mattino andava nel pastificio di via Po, ereditato dalla bisnonna. Aiutava la mamma a fare la pasta e alle otto correva a scuola. Del resto, che coraggio e determinazione siano doti dell’uomo lo conferma la sua storia. Nel luglio del 1938, si laurea in medicina, a Torino. Il 5 agosto dello stesso anno, sposa Renata Jesi, ebrea romana, sfidando le leggi antisemitiche promulgate il 15 luglio. Si specializza, quindi, in malattie nervose. Come visse il periodo del fascismo, professore? “Basti pensare che, durante la guerra, fui costretto a nascondere i miei figli...”. Nella campagna di Russia, il giovane medico opera i suoi compagni, senza l’ausilio di anestetici. E aiuta se stesso e altri grazie alla forza di volontà e a particolari tecniche di respirazione. Durante la ritirata, è costretto a ripercorrere la strada disseminata di cadaveri dei soldati per mettersi in salvo. Finita la guerra, decide di fare qualcosa per aiutare i più piccoli. Nasce così, a Roma, l’Istituto di Neuropsichiatria infantile più avanzato d’Europa. Non senza difficoltà. Perché Giovanni Bollea, già alla fine degli anni Quaranta, credeva che occuparsi del malessere di una persona fosse materia a soggetto interdisciplinare. Fu una vera e propria rivoluzione? “Sì, introdussi l’idea del trattamento in équipe: psichiatra, psicologo e assistente sociale collaboravano insieme nel prendersi cura di un caso sotto tutti i punti di vista. Questa scelta, all’inizio, non fu ben accolta negli ambienti medici”. Bollea e i suoi collaboratori dovettero fare i conti con non poche resistenze. Vennero accusati di praticare una medicina annacquata e inquinata da troppe discipline. Ma le critiche non ottennero altro risultato se non quello di stimolare ancor più la scuola di pensiero che si andava formando attorno a chi aveva avuto l’ardire e la fantasia di creare qualcosa di nuovo. Che, intanto, incominciava a dare buoni risultati sui pazienti. Tale e tanto era il desiderio di aiutare i bambini. E, forse, in questa vocazione c’era l’eco di una propria sofferenza lontana. Qual è il primo ricordo molto brutto, della sua vita, che le viene in mente? “Quando, a tre anni, vidi partire mio padre per la guerra”. [...] Quando, a 70 anni, tenne la sua ultima lezione all’Università La Sapienza, c’erano quasi trecento persone accalcate nell’aula: studenti, medici, ex pazienti, assistenti sociali e anche un bimbetto in pigiama, scappato di nascosto dalla corsia. Fu un lungo, caloroso applauso che segnò il “finis”. E il professore, allora come oggi, non si vergognò della sua commozione”» (Daniela Daniele, “La Stampa” 10/12/2003).