Varie, 14 febbraio 2002
BONATTI Walter
BONATTI Walter Bergamo 22 giugno 1930, Roma 13 settembre 2011. Alpinista • «La prima volta che si presentò all’esame per diventare maestro di sci fu bocciato. Era appena tornato da una spedizione sul K2, quella mitica del ’54, dunque in montagna ci sapeva andare. Eppure lo bocciarono. Inesperienza, dissero, e tecnica approssimativa. Ci riprovò e alla fine riuscì ad ottenere il patentino. Con quello nel ’56 partì per la traversata delle Alpi: 1.700 chilometri senza neppure uno “strappo” con un mezzo meccanico (jeep o funivia), sci sempre sotto ai piedi o sulle spalle (che è anche peggio), seguendo per 66 giorni gli itinerari più classici dello sci alpinismo. Adesso che ha scalato tutto, ricorda quella traversata “come una delle mie imprese di montagna più belle. Devo tantissimo allo sci: mi ha fatto fiato e gambe” [...] “Chiunque può scalare però arrampicarsi è un gesto, mentre l’alpinismo è una filosofia. Le prove severe della montagna insegnano a essere se stessi: non si può barare”» (Daniela Monti, “Corriere della Sera” 22/11/2001) • «Ti puoi salvare dalla morte, non dall’Italia. Puoi evitare che ti si congelino mani, piedi, cuore, ma non che si sbrini la memoria. Puoi scampare una condanna a morte dove chi firma la tua uccisione ti lascia solo: a crepare con la gola secca, pugnalato dal buio, dal freddo, dalla disperazione. A 8 mila metri il corpo ha bisogno di 5 litri di liquido al giorno e tu nella tasca della giacca hai solo tre caramelle, che devi sputare, perché sei senza saliva. Se n’è andata anche quella, insieme a quelli che dovevano darti un riparo, insieme alla sensibilità che non senti più, insieme alla lucidità che galleggia nel vuoto, ti manca l’ossigeno e cos’è quella piccola bava alla bocca? Nevica polvere, il vento ti entra ovunque, ti ansima nei polmoni, è una tormenta solida, che non ti fa respirare. Hai il cervello secco, la gola secca, ma una paura umida. Da bianco sei diventato blu, a meno 25, la vita è pronta a lasciarti. Puoi scavare un gradino di sessanta centimetri nella neve ghiacciata, puoi poggiare la schiena su un fianco della montagna, far penzolare le gambe nel vuoto. Puoi sopravvivere alla più grande notte shakesperiana della tua vita, piena di orrore, di follia, di tradimenti, ma non alla menzogna che ha deciso di fabbricare un’impresa eroica, la conquista del K2. Puoi, puoi, puoi. Sperare nella verità, che il mondo non rida dietro al tuo paese, alle sue ridicole relazioni ufficiali. Credere che sia venuta l’ora di fare l’orlo alla giustizia. Non vuoi la tua pace personale, già ottenuta, forse, chiedi solo il riconoscimento di una storia che ha portato l’Italia in cima al mondo, la correzione di un torto che ormai è una cisti, sta lì e non se ne va, come quasi tutti i misteri del paese. Non è un tuo problema, dovrebbe essere un problema di tutti: quante Ustiche, anche nello sport? Anche se non è morto nessuno. Mezzo secolo fa. Puoi e speri, scrivi anche al presidente Ciampi. Poi non puoi più, fare i conti con la smemoratezza delle istituzioni che solo una cosa ricordano: tu sei il bastardo che voleva uccidere gli eroi, fa niente se erano piccoli, falsi, bugiardi. Tu sei quello ostinato, da prendere a calci in faccia. Il K2, la seconda montagna più alta del mondo, nel gruppo del Karakorum, nel 2004 festeggia i cinquant’anni. È stata l’Italia a camminarci sopra per prima, nel ’54. Dopo un assedio di due mesi e dopo il trasporto di 16 tonnellate di materiale. L’anno prima una spedizione britannica aveva conquistato l’Everest. Era un’Italia che aveva bisogno di una rivincita, di scrollarsi la vergogna del fascismo, il suo essere miserabile. Si mosse il governo, De Gasperi, partì l’operazione politica. “Si doveva servire la patria”. Non c’erano ancora gli sponsor, si doveva obbedire, non fiatare e firmare un accordo che ti costringeva al silenzio. “Per il bene della spedizione”. Era una spedizione ufficiale, con una verità ufficiale. Gli ordini del giorno, 14, venivano trasmessi dal campo base da Ardito Desio, soprannominato “il ducetto” con dei bollettini. Alcuni anche discutibili: “Non avrò riguardo a mettere alla berlina chi per indisciplina, inerzia o per altri motivi ostacolerà o anche ritarderà il successo”. Il ragazzo che a 24 anni fu condannato a morte, a un bivacco notturno senza alcuna protezione a 8 mila metri, ora è un signore di 73 anni. Walter Bonatti non cerca niente, non vuole niente per sé. Solo che non vuole celebrare il grande imbroglio nazionale che si sta preparando, non ne può più della mistificazione, dei falsi eroi, di un prestigio mai sottoposto a verifica. E ha scritto e riscritto un libro K2. La verità, storia di un caso (Baldini Castoldi Dalai editore), appena pubblicato, per dire che l’Italia era ed è un paese sfatto. Anche quando sale in alto. Dove spesso al posto della verità c’è una bugia ufficiale. Sì. “Per il bene della spedizione”. E dove anche l’avventura dello sport non riesce ad essere pura, ma è inquinata dagli interessi politici e dall’ipocrisia. Dice l’uomo che non vuole festeggiare il K2: “Non m’interessa parlare della notte che cambiò la vita, che ha reso il mio carattere per sempre sospettoso e diffidente. Avevo visto la durezza della guerra. Il giorno prima con i miei amici, partigiani, giocavamo a calcio, il giorno dopo erano nella chiesetta, cadaveri, sfigurati in viso dagli scarponi chiodati. Ho visto la fucilazione dei gerarchi fascisti, ero a piazzale Loreto quando appesero Mussolini a testa in giù come un maiale, sapevo cos’era la cattiveria, ma ignoravo l’infamia. Ho aspettato due mesi che Compagnoni venisse a darmi una pacca sulla schiena, a dirmi che aveva fatto una fesseria, a chiedere scusa, perché può capitare di essere vigliacchi, ma deve anche capitare di ammetterlo. Invece niente, invece sono finito sul banco degli accusati, ero io la carogna, non loro che avevano mentito sull’uso delle bombole, delle maschere, sull’orario del balzo finale alla vetta”. E adesso Bonatti dice che il K2 è sempre più coperto di vergogna. Anche se è una montagna bella e importante, che uccide più dell’Everest. “Nella relazione ufficiale di Desio che il Cai ha accettato è sbagliata la quota del mio bivacco, quella del campo di Compagnoni e Lacedelli, l’uso e la durata delle bombole di ossigeno, niente affatto esaurito prima dei duecento metri di dislivello sotto il K2, e l’ora in cui dettero l’assalto alla vetta. E tutto questo perché? Perché l’impresa oltre ad avere successo doveva essere anche eroica. Far vedere che gli italiani erano stati non solo bravi, ma anche straordinari. Ne abbiamo fatto una montagna di merda, coperta di menzogne, perfino la stampa straniera ci chiede perché? E tutto questo perché non riusciamo ad essere un paese pulito, dobbiamo strumentalizzare le occasioni, la verità, sporcare gli uomini. L’Italia è un paese di complici, dove non esiste solidarietà tra onesti, ma solo scambio tra diversi interessi, dove il sogno di Desio doveva restare immacolato. Dove solo io potevo essere infangato, disprezzato, accusato. Non solo, ma qualsiasi controversia non viene mai affrontata, si preferisce accantonarla, non prendere la responsabilità di una scelta. Mentre oggi agli idoli sportivi imbottiti di droga tutto viene perdonato perché sono l’immagine del paese. E se solo guardo quello che passa in tv mi viene schifo: quelle persone sull’isola, che si fanno riprendere, quella buffonata. Con quale rispetto verso i padri dell’avventura, verso chi ha cercato frontiere e parole nuove come Melville, Jack London e Stanley? Io sul K2 in una notte del ’54 sono quasi morto, ma quello che mi ha ucciso è questo mezzo secolo di menzogna. Ho urlato così tanto quella notte nella mia disperazione che adesso non voglio avere più voce. La puzza del K2 la lascio a voi, io preferisco respirare”» (Emanuela Audisio, “la Repubblica” 8/10/2003).