varie, 14 febbraio 2002
BONAVIRI
BONAVIRI Giuseppe Mineo (Cosenza) 11 luglio 1924, Frosinone 22 marzo 2009. Scrittore. «Scrittore regolarmente tradotto all’estero (Cina compresa) è autore che in Italia gode di una solida posizione a livello critico; posizione che ne fa un punto di riferimento letterario importante, anche se ineluttabilmente elitario. Nonostante i suoi temi popolari e la sua vena poetica che attinge alla memoria di un mondo primigenio e (apparentemente) semplificato. Siciliano d’origine e potremmo dire di ispirazione, è tuttavia autore di ardua collocazione al di là del puro dato geografico. Buona parte della sua produzione narrativa sembra voler disegnare un mondo mediterraneo, dove gli echi arcaici si fondono in atmosfere di fiaba d’Oriente. Sicilia, dunque, ma anche deserti e oasi d’Africa e d’Asia, in una dimensione dove il tempo viene sintonizzato sull’incombente mistero cosmologico» (’Corriere della Sera”, 28/1/2002). «Siciliano di Mineo, dove trascorse l’infanzia, è approdato in seguito ad altre residenze (dalla Catania degli studi superiori e dell’università, al Piemonte monferrino di Casale dove fece il servizio militare come ufficiale-medico, alla Ciociaria di Sora e Frosinone dove ha esercitato a lungo la professione come cardiologo e dove tuttora vive), ma è rimasto sempre legato alla forza magnetica delle impressioni natali e addirittura prenatali, alla memoria prima e primaria dell’origine, all’enorme tempo dell’essere. Autore di una cinquantina di opere, dall’esordio einaudiano del 1954 con Il sarto della stradalunga (replicato dieci anni dopo con Il fiume di pietra) alle ”fiabe folli”, E il verde ramo oscillò, scritte con la figlia psichiatra e pubblicate da Piero Manni, è un autore di continuità, nel senso che la sua opera non presenta tagli netti e forti cesure. Proprio a proposito del Sarto, fu Calvino a scrivere subito con convinzione a Vittorini, il 19 febbraio 1952: ” tutto scritto bene, con una continua inventiva di linguaggio e di spirito”. Da allora sono trascorsi cinquant’anni, ma la miscela è sempre e ancora quella, sia pure continuamente rinnovata al fuoco di molte altre fusioni. […] L’opera ”intera” di Bonaviri mira ad esprimere un mondo popolare e arcaico, fatto di formulari, filastrocche, cantilene, dialettismi, neologismi, cultismi, conciliando in una sorta di unità eterodossa e favolosa elementi disparati di civiltà. Ma più di tutto mira a sgranare un linguaggio che impasta l’ingenuità nativa e persino selvaggia con scelte di derivazione alta e preziosa. In poesia come in prosa a conciliare ”gli infiniti contrari del Visibile”, ”l’archetipa infinità di quanto è morto”, l’einsteiniana curvatura del tempo, la ricerca dell’’Ignoto”, il teatrino dei pupi e dei personaggi del paese di sempre, Mineo, nominati alla greca o alla saracena. Un intreccio (e un intrico) giocati sul doppio filo d’Arianna dei richiami sapienziali e delle invenzioni popolaresche, in immagini di un suo indubbio metamorfismo baroccheggiante. Come se le stesse parole fossero particelle in movimento perenne, continua vicenda di urti, ustioni, contaminazioni» (Giovanni Tesio, ”La Stampa” 11/6/2002). «Uno scrittore famoso. Tra i viventi italiani, uno dei più grandi: imprevedibile, raffinato, fantastico, ironico, surreale e insieme realistico e consapevole del male di vivere in un suo modo personalissimo che mescola immaginazione e biologia, letteratura e scienza, paese natale e spazi profondi dell’universo. Più volte candidato al Nobel, Bonaviri è autore di una quarantina di volumi tradotti in 17 lingue. ”Anche arabo, cinese e giapponese”. [...] suo padre, ”Settimo Emanuele, sarto ma anche poeta come tutti a Mineo, dove c’è la pietra della poesia fotografata da Luigi Capuana e una volta all’anno tutti venivano lì dai dintorni a recitare poesie? Le poesie di mio padre, L’Arcano (vede che parole difficili conosceva) indagano il rapporto misterioso tra padre e figlio. Io le ho raccolte e pubblicate postume. [...] Io volevo diventare medico ricercatore, per questo - primo della mia famiglia a fare l’Università – nel ”43 scelsi Medicina. Ma c’erano guerra e miseria, servivano soldi, poi nel ”64 morì mio padre. La vita mi ha trascinato a Sora, dove tre volte alla settimana facevo turni di trenta ore consecutive. Non era un vero ospedale, era un’infermeria. La gente mi moriva tra le mani. Ho imparato a fare l’aborto. Sono entrato nei labirinti del dolore umano, ho appreso la caducità unica e sola della vita. Ho imparato che la legge etica che ci dovrebbe dominare tutti è l’umiltà, l’affetto verso gli altri. Mentre è proprio il contrario. Per sei anni ho sofferto di crisi depressive, per dodici anni i pochi letterati che mi avevano letto non mi avevano visto in faccia. Quando pubblicai Il fiume di pietra, in cui dei ragazzi prendono in giro fascisti, tedeschi e mezzo mondo, lo portai a Leone Piccioni alla Rai. Gli piacque. Ma io avevo preso mezza compressa di un farmaco, il ”Fobican”, e improvvisamente non ero più io, ero diventato un altro. Da allora ebbi paura a viaggiare, e per tre-quattro anni non mi mossi più. Solitudine, superlavoro, depressione. Ne sono uscito scrivendo e accumulando libri. I libri erano le trincee, al di là dei libri sparavano. Cominciai col mettermi un libro un tasca e fingevo che quel libro fosse mia madre che mi diceva: ”Su, Peppino, non ti scoraggiare”. Ora mi è rimasto uno sdoppiamento fra sera e mattina. La mattina sono più giovane, la sera sono sperso fra le stelle, si appannano i fasci elettromagnetici che girano intorno all’idea di Dio [...] Io penso che la vera linea di displuvio tra il presente e un passato solo apparentemente vicino sia nel 1969, quando l’uomo mette piede sulla luna. Si affaccia e vede la Terra. Fino ad allora l’uomo era vissuto con la testa a terra. E infatti le prime divinità erano ctonie, del sottosuolo. Ma se guardi i cieli stellati, o se guardi la Terra da fuori hai una visione diversa: ti senti sradicato dal pianeta, immerso in una realtà elettromagnetica o termonucleare come il Sole. Avere scoperto i buchi neri significa che ora si sa che esiste un universo non visibile, di massa e peso enormi. Ci vuole una visione del tempo diversa dal passato. Io lo chiamo ”il tempo a margherita”. C’è un tempo psicologico (breve, se sei felice), un tempo fisico, misurabile dai fisici con campi di forze attrattive e repulsive, un tempo planetario, legato al sole. Poi ce ne sono altri: una cellula è un cosmo chiuso in sé da una membrana attraverso cui passano ioni elettrizzati. C’è un tempo dei pesci, uno degli uccelli. Nei buchi neri è un tempo iugulato, ristretto, addensato, misurabile in miliardi di anni [...] Noi vivevamo nel ”catoio’, un’abitazione-stalla dove essere umani e animali si mescolavano. Per la profilassi non è raccomandabile, ma per la vita affettiva sì. Noi maschi ci masturbavamo insieme, e il catoio diventava un salotto letterario: ci raccontavamo fiabe, scherzavamo, ridevamo, ci misuravamo il pene, più lungo, meno lungo. Toccavamo le vulve degli animali. Era anche una conoscenza primordiale della fisiologia. una visione biologica totale della vita, animali e persone. I bambini hanno affetto per una asinella, ma conoscono anche il sesso. Le passano il taglio della mano sull’apertura vulvare, e lei ci guardava grata [...] ho scritto poesie sui batteri più comuni che disturbano voi donne, sono andato a vedere come vivono nelle vostre mucose. Una poesia l’ho scritta sui tampax... non ho mai sentito di nessuno che abbia fatto una poesia su un batteriogramma vaginale. Almeno una strada l’ho aperta”» (Laura Lilli, ”la Repubblica” 19/6/2004).