Varie, 14 febbraio 2002
BONDI Enrico
BONDI Enrico Arezzo 5 ottobre 1934. Laureato in chimica. Manager. Ex amministratore delegato di Parmalat (2005-2011, prima commissario straordinario) • «Ufficiale di lungo corso dell’industria nazionale […] manager grigio e schivo, dal carattere poco propenso alle pubbliche relazioni» (Vittorio Malagutti). «Custode dell’ortodossia dei conti, tagliatore di sprechi, di teste e di note spese. Stakanovista, anche quando vuole curare gli ulivi nella tenuta d’Arezzo, sua città natale. Enrico Bondi dopo aver salvato dal baratro la Montedison, dopo aver fatto la Telecom di Tronchetti Provera e avere vinto la battaglia del matrimonio Sai Fondiaria, a 68 anni suonati, si avvicina all’ennesima sfida: rimettere in piedi e sotto la luce del sole e delle banche la gestione finanziaria della Parmalat. Uomo schivo. Poche apparizioni mondane. Entra alle sette e ed esce per ultimo, ricorda chi ha lavorato con lui. Riservato. Forse fin troppo, deve aver pensato chi nella primavera del 2002 gli aveva piazzato una cimice sulla macchina di rappresentanza della Telecom. E lui, per non dare nell’occhio ed evitare altre brutte sorprese, si era fatto dare la più piccola vettura del parco macchine della compagnia telefonica e per giunta senza le orecchie indiscrete di un autista. Di sè ha sempre detto di capir poco di scienza economica e molto di chimica. Materia nella quale si è laureato e poi affermato, ad inizio carriera, alla Snia e alla Gilardini, quando era della Fiat. Decisionista e allergico alle intrusioni di campo. Quando arrivò alla corte di Salvatore Ligresti, prima di accettare l’incarico di amministratore delegato della Premafin ed avventurarsi nella battaglia Sai-Fondiaria, era l’agosto 2002, fu molto chiaro: “Ingegnere - spiegò a Ligresti - lei faccia l’azionista che io faccio l’amministratore delegato con pieni poteri”. In soli sei mesi, con il professor Paolo Ferro Luzzi, raggiunse il traguardo nonostante le resistenze di una grossa fetta del capitalismo italiano e gli ostacoli Consob, Antitrust e Isvap. Ma quando don Salvatore volle mettere il cda in mano ai figli, per Bondi aveva smesso di fare l’azionista di maggioranza puro e semplice. Il manager, quasi da un giorno all’alto, se ne andò. Rovesciando il tavolo ma senza fare troppo rumore. Qualcuno, ispirandosi anche la suo fisico, asciutto e scavato, lo ha definito “l’asceta della disciplina contabile”. Il caso della Montedison, vicino alla voragine della bancarotta, era il 1993 dopo la gestione Ferruzzi-Gardini, sta lì a dimostrarlo. Bondi è uomo che ha sempre goduto dell’incondizionata fiducia di Mediobanca, soprattutto di quella di Cuccia prima e di Maranghi poi con il quale mise a punto la rivoluzione vincente del gruppo di Ravenna. Dalla chimica all’energia, quasi una piccola Enel. E con la spinta di Maranghi è arrivato anche a dar una mano forte a Tronchetti Provera impegnato nella ristrutturazione dopo l’opa contro Colanninno-Gnutti. Alla Biccoca ci stette tredici mesi, intensi. Tronchetti Provera fece di tutto per trattenerlo, ma Bondi e Maranghi, avevano deciso che la missione Ligresti era più importante. Per soli altri sei mesi. Sembrava potesse approdare alla Fiat ma poi non se ne fece nulla. E quando tutto lasciava pensare alla pensione arrivò la chiamata dalla Lucchini, siamo nel luglio scorso, per il piano di Lazard che ha scongiurato l’insolvenza del gruppo siderurgico» (Federico Monga, “La Stampa” 10/12/2003). Dall’agosto 2002 per sei mesi amministratore delegato della Premafin di Salvatore Ligresti. «Ha preso in consegna Montedison distrutta dalla gestione Ferruzzi quando il titolo valeva 10 lire, e l’ha riconsegnata a 5.500 lire […] Appena entrato in Telecom, ha “licenziato” l’auto blu per guidare una Punto bianca […] Alla Premafin farà come sempre ha fatto: si chiuderà in ufficio per 12 ore al giorno, si toglierà la giacca e chiederà conti e resoconti. Vorrà conoscere tutti, dai fattorini ai manager, inseguirà il superfluo (per tagliarlo) e andrà dritto al nocciolo: alla “mission”, la strategia. Così ha fatto in Montedison e in Telecom. Osservando il basso profilo e garantendo - pur con disincanto toscano - fedeltà assoluta all’azionista. Ed è grazie a queste qualità che, nel 1993, viene “pescato” per la missione impossibile: salvare Montedison. Ad indicare il suo nome è il fondatore di Mediobanca, Enrico Cuccia, su suggerimento di Cesare Romiti. Per lui è la svolta. La vera sfida della vita. Ed è, in fondo, anche un ritorno: ha cominciato proprio lì, nei laboratori di Castellanza, per passare poco dopo a quelli di Porto Marghera. Una vera palestra, dalla quale escono i migliori tecnici del gruppo. Lui, però, sceglie un’altra strada. Va all’Ivi, Industria vernici italiane, quindi passa alla Snia, allora targata Fiat. Dalle provette alla gestione aziendale: viene promosso responsabile del settore chimico e amministratore delegato di alcune controllate. I suoi risultati gli guadagnano l’attenzione di Cesare Romiti. I rapporti fra i due diventano subito stretti. Nei primi anni ’90 la svolta. Prima passa alla Difesa e Spazio e diventa numero uno di Gilardini. Quindi il “salto” in Compart-Montedison. Si chiude in ufficio. Avrà carta bianca sia dal primo presidente Guido Rossi sia dal successore Luigi Lucchini. Inizia a scavare nella opulenza ravennate, nella eredità lasciata dai Ferruzzi costituita da fatture miliardarie, quadri e arredamenti comprati con i soldi dell’azienda, e da 30 mila miliardi di debiti. Procede nelle dismissioni, cerca una rotta, una missione per il gruppo. Punta sul “Calabrone” che vola nonostante sia una pesante conglomerata (dalla chimica alle assicurazioni, dalla editoria ai cantieri navali), quindi fa rotta sull’energia per l’uomo: dall’agroindustria alla elettricità. Infine orienta sforzi e investimenti sulla Edison, che passa da mille a seimila miliardi di lire. Conquista Sondel e Falck, spiazzando qualche gruppo straniero. Ma attira anche l’attenzione di chi capisce che dal salvataggio è nato un ghiotto boccone. Il fronte delle banche si sfalta, e l’assalto è inevitabile. Prima Zaleski, poi Edf, quindi l’arrivo della Fiat. È l’estate 2001. Indimenticabile. Su Montedison si profila una battaglia, la Fondiaria con un blitz passa dal gruppo alla Sai di Ligresti. Poi la sua mediazione favorisce l’accordo fra i nuovi “conquistatori” e Mediobanca. Ma in quelle poche settimane accade anche altro: non appena chiuso il passaggio di Montedison a Italenergia, arriva la seconda grande svolta nella Finanza italiana: Marco Tronchetti Provera rileva il controllo di Telecom. E siamo al 29 luglio 2001: Bondi compie un altro salto ed entra nella nuova squadra di comando di Olivetti-Telecom. Si trasferisce a Roma senza abbandonare austerità e profilo basso. Lesina dichiarazioni, evita la mondanità, si assicura l’ufficio più piccolo. Subito di lui si dice che è sul piede di partenza, che “offre”l’ombra di Tronchetti, che è uomo di chimica e non di telecomunicazioni. Lui, come al solito, non dà retta alle voci e lavora. Alle strategie, al piano industriale, gestisce l’uscita di alcuni manager di peso, e chiama solo pochi fedelissimi, fra i quali il responsabile alla sicurezza. Taglia costi, rivede la pubblicità. Non fatica a dialogare con i politici, carta indispensabile in un mondo regolamentato come quello della telefonìa. Forse, a questo punto considera la sua missione compiuta. E lascia, in grande accordo con Tronchetti Provera» (Sergio Bocconi, “Corriere della Sera” 31/8/2002).