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 2002  febbraio 14 Giovedì calendario

BOSSI Umberto

BOSSI Umberto Cassano Magnago (Varese) 19 settembre 1941. Politico. Eletto al Senato nel 1987, alla Camera nel 1992, 1994, 1996, 2001, 2008 (Lega Nord). Ministro delle Riforme nel Berlusconi II (2001-2004), delle Riforme federalistiche nel Berlusconi IV (2008-2011). Maturità scientifica, dopo esperienze nel Partito democratico d’unità proletaria e nei Verdi nel 1983 fonda la Lega lombarda e nell’86 la Lega nord. «Sin dalla più tenera età ha sentito l’esigenza di conciliare le due anime del nordismo: quella lombarda e quella veneta. Infatti si iscrisse a Medicina a Pavia e a Legge a Padova, non concludendo tuttavia né l’uno né l’altro corso. All’epoca non aveva ancora fondato la Lega, ma la Lega esisteva già, come sostiene lui con toni da scultore: a lui bastò levare la sovrastruttura che c’era attorno perché la creatura avesse forma. Cominciò a predicare il federalismo riscuotendo grandi successi, ma non ebbe mai modo di realizzarlo. Passò alla secessione riscuotendo uguali consensi ma anche uguali risultati. L’unica secessione in vista è quella della Liga veneta dalla Lega Nord. Nel frattempo lo storico campo di Pontida è stato smantellato da costruttori senza scrupoli e il prato venduto a zolle come quello di San Siro dopo i mondiali di calcio; il Parlamento padano è stato sciolto; tutta l’acqua del dio Po riposta nell’ampolla è evaporata e si è condensata in nubi, cosicché piove, governo ladro. A Bossi sono rimasti il fedele Roberto Calderoli (che al matrimonio gli ha offerto sidro anziché champagne in ossequio alle nozze celtiche e alla lungimiranza padana) e il figlio Eridanio, che non sa che cosa significhi il suo nome, ma sa che fa schifo» (Pietrangelo Buttafuoco, “Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 3/10/1998). «“La Lega deve essere politicamente scorretta, perché se anche noi leghisti fossimo politicamente corretti, in questo Paese non cambierebbe mai nulla”. È tutto qui, il nocciolo di Bossi e del suo percorso politico. Nella scelta dichiarata e vantata di esser senza regole. Nel linguaggio, nelle alleanze, nella tattica. Nel sostenere, dal fronte dell’antipolitica, la più politica di tutte le strategie: il fine giustifica i mezzi. Con un limite netto che deve essergli riconosciuto anche dagli avversari: mai violenza, mai bastoni. A parole sì, il senatur le ha sempre sparate grosse. Una volta lo registrarono mentre diceva ad Alberto Mazzonetto, il segretario provinciale della Lega di Venezia che era intercettato: “Avremo tutti il mitragliatore in mano, sarà una soddisfazione enorme portarmene all’altro mondo il più possibile di questa merda vivente”. Un’altra ringhiò: “La mia donna e i miei figli devono sentire l’odore della polvere da sparo”. Un’altra ancora: “Noi i fascisti di Fini li attaccheremo sempre: li teniamo sotto il tiro del nostro Winchester”. E via così, a seconda dei nemici del momento: “L’esercito albanese ha lasciato le caserme e le armi incustodite. Se capitasse in Italia noi sapremmo cosa farne”. “Berlusconi vorrebbe vedermi ma se mi telefona gli faccio sentire il rumore del rullo del revolver”. A chi gli rinfacciava di essere un cattivo maestro, tuttavia, ha sempre risposto che neppure l’assalto al campanile di San Marco del ’97 era riconducibile a lui, che anzi lesse sulle prime l’episodio come “una cosa che puzza di servizi”. A un congresso al Palavobis, appioppò a Stefano Galli, il segretario di Como autore d’una mozione sul “diritto alla legittima difesa”, una pubblica bacchettata: “Il nostro fratello padano, certamente in buona fede, confonde l’amore per la Padania con qualcosa d’altro. Noi non siamo nazionalisti: siamo patrioti. Noi siamo per l’amoooore! La violenza la lasciamo allo Stato italiano! Siamo gandhiani. Ué, bestia, hai capito?”. Quando si vantò d’aver fermato lui “trecentomila bergamaschi stavano per ribellarsi con le armi allo Stato”, Stefano Benni lo prese per i fondelli con una poesiola: “Eran trecentomila bergamaschi con fucili e cannoni / o forse eran tremila armati di forconi. / O forse eran cinquanta / ultrà dell’Atalanta. / Vabbè ero io da solo / però avevo un punteruolo”. Ganassa e volgare, in realtà, in questi anni lo è stato senz’altro. Ma è proprio la capacità istrionica di tenere insieme mille cose e mille contraddizioni senza farsene travolgere lo stupefacente prodigio di questo animale politico capace di intercettare alcuni temi con un tempismo raro. Un giorno gli storici saranno costretti a interrogarsi su Bossi come su una specie di messia laico, popolare e popolano. In grado di appellarsi al “popolo che si alza alle quattro di mattina” senza aver mai lui lavorato se non per dieci mesi all’Aci. Di attaccare frontalmente i “politici di professione” pur essendo questa la sua sola professione. Di accusare i suoi avversari di essere degli imbroglioni infischiandosene di chi gli ricorda le feste di laurea date senza mai essersi laureato o la prima candidatura elettorale vissuta sotto la qualifica “il dentista Bossi Umberto”. Di presentarsi volta per volta come la novità pur essendo entrato in Parlamento perfino prima di qualche comprimario della Prima Repubblica. Di definirsi un “cattolico tradizionalista” pur avendo celebrato come un antico druido matrimoni celtici. Di presentarsi come “un umile servitore del congresso” pur reggendo il partito col pugno di ferro del capo accentratore che negli anni lo ha spinto a liberarsi di tutti quelli che lo avevano contrastato, a partire da otto su dieci dei fondatori del Carroccio. Di attaccare il Papa polacco perché ha detto due frasi in romanesco ai parroci romani e insieme di andare in tivù a recitare lui in napoletano con Massimo Ranieri: “Io vulesse truvà pace; ma na pace senza morte. / Una, mmiez’a tante porte,/ s’arapesse pè campa. / Pecché, insomma, si vuò pace...”. Il “suo” popolo, che nelle aree pedemontane era stato per decenni un popolo bianco, gli ha sempre perdonato tutto. E lo ha sempre seguito con la dedizione fideistica riservata ai profeti. Quando appoggiava i magistrati di Milano benedicendo i suoi deputati che sventolavano il cappio alla Camera e quando attaccava Di Pietro (“Si candidi al Sud perché se si candida al Nord gli regalo una valigia di cartone che fa rima con terrone”) dopo esser stato condannato per aver preso i soldi di Raul Gardini. Quando giurava che la Lega non sarebbe mai andata al governo “coi puzzolenti fascisti” e quando un mese dopo entrava a Palazzo Chigi insieme agli uomini di An. Quando diceva “Berlusconi è un brutto mafioso che guadagna i soldi con l’eroina e la cocaina” e quando tornava ad allearsi con lui definendolo “il nuovo Carlo Magno europeo” e liquidando la scelta di far cadere il suo primo governo come “un equivoco”. Quando corteggiava i piccoli produttori del Nord e quando faceva pubblicare alla “Padania” titoli contro l’“egoismo” delle fabbriche che chiedono extracomunitari. Sempre. E questo è stato il prodigio del “guerriero” oggi alle prese con la più difficile delle sue battaglie: avere imposto alla politica italiana, al di là dei sussulti xenofobi talora inaccettabili e di ogni giudizio di merito sul progetto, la “questione del Nord” e il grande tema del federalismo. Grazie all’agilità politica e al bombardamento di ultimatum che solo lui può permettersi, alla spregiudicatezza con cui sostiene che “per avere quel che voglio sono disposto a trattare anche con la mafia e la camorra”, al rapporto di totale fiducia con la “sua” gente. E alla straordinaria capacità di trasformare in vittorie, o almeno nell’arroccamento che consolida, anche le sconfitte, le delusioni e le ritirate. Dalla secessione al “governo sole”, dalla promessa della conquista leghista alle regionali del 2000 di “tutte le regioni del Nord” al faticoso cammino della devolution nonostante avesse assicurato che “con la Lega le riforme si fanno subito per subito”. Ha detto un giorno Matteo Salvini, direttore di Radio Padania: “Nel consiglio federale il possesso palla è per il 95% di Bossi”» (Gian Antonio Stella, “Corriere della Sera” 12/3/2004). «Pur essendo tra gli uomini politici italiani il più imprevedibilmente immaginifico, Bossi ha sempre mostrato una certa ritrosia a parlare di sé. Non ce n’è troppo bisogno, d’altra parte: basta osservarlo mentre vive, o meglio mentre dà vita al suo personaggio. [...] quel vocione, quei vestiti stazzonati, improbabili, quei travestimenti di scena, giacche, cravatte, camicie verdi, t-shirt con scritte d’inusitato leghismo, ohè. Quella voce roca, quei gesti ferini, quell’energia così teatrale, drammaturgica. [...] Scenari incredibili. Il rito dell’ampolla, sul Monviso, l’acqua del Po raccolta con una specie di preghiera druidica. Il catamarano. I gazebo “della libertà”. Il muro intorno alla villetta di Gemonio, forse abusivo, forse no. Le nottate negli hotel di Ponte di Legno. Foto in piscina di lui che palpa una signorina. Ma anche le passeggiate con il codazzo a Montecitorio, a Roma ladrona. Pare di rivederlo una volta in un angolo di penombra, con Craxi ormai alla fine, e il leader socialista si commosse, a sorpresa, e anche Bossi ne fu turbato. Quanti ricordi buffi, anche, e grotteschi. Le sparate insurrezionali bergamasche; le falloforie contro la povera Boniver (“Ah, bonassa!”); la proposta di macellare sul posto la mucca Ercolina, per farne bistecche. Spezzoni di tg, di Porta a porta e di altri talk-show. In canotta “popolana”, su una spiaggia della Sardegna, mentre con un bastoncino disegna strani piani, stranissimi geroglifici sulla sabbia. E poi nel parco di Arcore, con Berlusconi che lo chiama “Umbertone” e gli mette la mano sulla spalla. E scherzano, i due, su un certo pigiama. Esagerato, grossolano, efficacissimo: le virtù politiche di questo tempo. [...] Anni orsono al concorso di Miss Padania la reginetta designata, Miss Camicia Verde, gli offrì il seno per l’autografo. Dopo la firma lui se ne stava lì in piedi, a braccia incrociate, con l’aria un po’ sorniona di chi sa che tutto, ormai, fa brodo, ma altre sono le cose che contano, la sua missione storica, l’energia che muove dal basso, dal popolo... Di recente quelle serate di Miss Padania sono andate in onda anche su RaiDue, con tanto di coro del Nabucco, e ancora una volta lui si è portato la mano sul petto. [...] Quando compie gli anni il quotidiano della Lega gli riserva due tre pagine di auguri. I cuori semplici gli dedicano poesie, ispiratissime dediche, “Tu, che come aquila voli...”. Una signora, che poi era la giornalista che curava quelle pagine della posta, confessò di non aver saputo resistere a un comizio, e di essere scoppiata a piangere. Un’altra militante gli attribuì poteri meteorologici: quando c’era lui veniva il sole. Un altro lettore, ancora, paragonò Bossi a Gesù Cristo. Ne seguì qualche polemica, doverosamente. Ma lui non ha mai scoraggiato questo tipo di afflati. Dal mondo dei suoi fedeli, d’altra parte, sembra che arrivassero gli auguri anche quando non era il suo compleanno. Nessun altro ha offerto così tanto da scrivere ai giornalisti. Nessun altro si è tirato appresso un’umanità così composita e pittoresca, la prima moglie cui fece credere di essere dottore (con festeggiamenti); la sorella e il cognato, con i quali ebbe terribili liti; il vecchio portavoce, Rossi, un ex giornalista dc che gli scriveva i discorsi e con cui pure, alla fine, ebbe a rompere; e tanti altri amici divenuti nemici, a volte di colpo. Mentre i nemici, come Berlusconi, divenivano alleati e magari saldavano anche i debiti alla Lega. E verrebbe da dire che è un mondo assurdo, quello di Bossi, quando invece è solo politica. La sua. La compiuta folklorizzazione della Seconda Repubblica gli deve moltissimo. Il Senatùr ha cominciato con “La Lega ce l’ha duro” e ha finito per dare vita a una cosmogonia. Da solo, anzi litigando con tutti, ha lanciato una divinità, il dio Po. Un simbolo, la ruota solare. Degli antenati, i celti. Un colore, il verde. Un sogno, l’indipendenza della Padania, espressione geografica e politica di assoluta indeterminatezza. E poi se n’è andato al governo. [...] Anche da ministro Bossi ha seguitato a dire e a fare cose temerarie, incredibili. [...] padronanza mediatica, una dimostrazione di quell’abilità spettacolare che gli ha permesso di infrangere i codici simbolici, le ingessature ideologiche, lo stile politico quale era stato fino al momento in cui il personaggio di Bossi è divenuto un elemento del paesaggio italiano. E tutto senza che mai, sia ben chiaro, gli si potesse dare dell’ingenuo. Minacce sì, risate pure, volgarità quante se ne vogliono. Ma dopo aver ingannato Andreotti per il Quirinale nel 1992 - una vecchia storia di voti promessi e poi negati - Bossi ha anche immaginato, pianificato e realizzato disegni politici da togliere il fiato a tutti: il primo governo Berlusconi, per dire, affondato in nemmeno 24 ore. Ed è da allora che Scalfaro l’ha capito, che D’Alema gli fa i complimenti, che Fini non si fida, che Prodi che gira a largo, e tutti i più grandi leader trattano con lui come si può trattare sotto una spada di Damocle. O sotto lo spadone dell’Alberto da Giussano, il guerriero medievale che Bossi pose a simbolo della Lega, e pare che si fosse ispirato al marchio delle biciclette Legnano. E tutto sempre accade con la partecipazione straordinaria di Umberto Bossi, anche quando non c’è. Quante volte l’hanno dato per morto. Quante volte se l’è cavata. Per certi versi la vita pubblica di un paese finisce per affezionarsi ai suoi protagonisti più bizzarri. E fra questi, indubbiamente, il Senatùr si conferma il più sperimentato. Una risorsa narrativa che a partire dalla metà degli Anni Ottanta non solo ha conquistato la scena e se l’è tenuta, ma soprattutto l’ha trasformata e anzi l’ha stravolta, fino a renderla irriconoscibile. Chi l’avrebbe detto vent’anni orsono. Ma forse il vero mistero, la ragione di questa sorpresa che tanto ha contribuito a renderlo pericoloso, è il Bossi sconosciuto, il Bossi di prima. Politicamente, un figlio di nessuno. Un autodidatta. Un capopopolo, come ne nascono certe volte in Italia di furbi e spietati. Un populista da XXI secolo. Nato e cresciuto tra la pianura brianzola e le colline del Varesotto, una specie di Far West negli anni degli sconvolgimenti sociali, della campagna che si fa industria. L’infanzia e l’adolescenza a sgranocchiare pannocchie, “el formentòn”. L’ha raccontato bene Daniele Vimercati, in un libro molto bello, Vento del Nord!, l’unico in cui Bossi abbia accettato di raccontarsi a fondo. La nostalgia della campagna, un mondo perduto per sempre, Cassano Magnago come la via Gluck, i capannoni al posto delle coltivazioni. È lì, forse, la frattura da cui nasce la Lega. Lui piccolo teppista, gli scherzi, le cattiverie: una volta con la sua banda “pisciammo dentro il serbatoio” di un motorino, e poi gli danno fuoco. Correva forte. A 14 anni, dalle parti di Gallarate, incontra il velocista Ottolina e lo sfida: “Ero emozionato, scattai come una molla. Fino a 60 metri gli tenni testa, poi mi lasciò indietro. Mi diede cinque metri, non di più”. Chissà se è vero. E le balere, la musica, le ragazze, le donne. Tante. Piace, Bossi, per quella sua franca brutalità maschile. Le signore dei salotti di Roma e di Milano impazziscono solo a sapere che c’è, “anche se poi lui è capace di ammazzarle con un rutto” chiosava il gallerista amico Pilippe Daverio. Un’immagine forte, e però in fondo adatta a chi ha portato molto in là la soglia della decenza politica. Il prezzo che si paga a dare corpo e veste alle inquietudini, alle pulsioni profonde di un pezzo di società. Un lavoro faticoso, una esperienza allo spasimo. Un partito costruito su misura come una comunità di credenti, e come tale in tutto dipendente dal leader, senza alcuna parvenza di democrazia interna. Nessuno più autoritario di Bossi, leader carismatico, interprete e profeta, salvatore in quanto servitore del popolo. Creatore di moderni antagonismi, dai meridionali agli islamici, passando per le oligarchie finanziarie e gli intellettuali. Un capo assoluto» (Filippo Ceccarelli, “La Stampa” 12/3/2004). «Quando nel ’92 entrai nella sua anticamera, in via Arbe, c’erano quelli di “Time” ancora sbalorditi. Li aveva ricevuti in un abito nocciola a quadrettini e una cravatta a fiori. Molto soddisfatto. Sei anni prima friggeva le patate nelle feste di paese e andava ad attaccar manifesti della Lega di notte. Ed ora ecco arrivare gli inviati dei più famosi giornali del mondo per capire se questo tipo occhialuto, nasuto, scarruffato è un nuovo dittatore o un innocuo federalista come dice di essere. E invece è un’altra cosa ancora, un casciabal con il fiuto per la politica. È il mio turno, si toglie la giacca e la cravatta e mentre io tiro fuori carta e penna è già partito per le sue favolose memorie: “Ma come, non sai che sono un elettromedico? Io se vuoi ti fabbrico un laser. Ero nell’équipe del professor Zuffi all’ospedale di Varese, quello dei trapianti di cuore, studiavamo il cuore alle alte temperature. Non volevo entrare in politica, ma quando tu capisci una cosa, ne sei certo, come fai a piantarla. Noi avevamo capito che il centralismo politico era in crisi, che era basato su un automatismo fasullo: se hai i soldi comperi il consenso, se hai il consenso vinci le elezioni e ottiene il potere, se hai il potere trovi nuovo denaro. Un circolo magico, infallibile e invece è bastato mettere un bastone in quell’ingranaggio per farlo saltare”. E in questo diceva il vero. Anche allora la Lega politicamente era poca cosa, fuori del potere economico, fuori dalla cultura ma per il semplice fatto di esistere, di togliere voti ai partiti storici: democristiano, socialista, comunista, faceva cadere il principio della loro necessità, diceva che il re della partitocrazia era nudo, suggeriva al Cavaliere di Arcore, che di soldi ne aveva e molti, come arrivare al potere. Era presuntuoso e ambizioso il giovanotto nasuto e scarruffato, non voleva aiuti di concorrenti, non voleva dare contenuti seri al suo vago lombardismo [...] Contarono anche le qualità istrioniche dell’uomo, la voce cavernosa, il brutto che piace alle donne, il parlar chiaro, blasfemo, irridente, il genio della battuta: “Andreotti? L’unico gobbo che porta sfortuna”, “Roma ladrona”, “Napoletani, basta lamenti, ditecelo voi che cosa possiamo fare per voi”. Inventava poco la Lega, parlava a vanvera il suo leader nasuto, ma coglieva anche delle verità: “Parlate sempre di mutamento e poi vi stupite che gli unici che hanno cambiato veramente qualcosa trovino consensi?”. Erano una banda sgangherata quelli della Lega ma la partitocrazia era un edificio marcio che aspettava solo per cadere che qualcuno le desse una spinta. E venne giù, si frammentò la “balena bianca” democristiana, scomparve il socialismo craxiano dei congressi e dei garofani, incominciò l’avventura berlusconiana di Forza Italia, il partito azienda. I leghisti non erano simpatici agli italiani dabbene. Quell’onorevole Leoni, per dire, che apre l’amministrazione leghista di Varese in dialetto: “El caciass ca gh’em incoeu l’è de trouà un accord de programma ch’al sciarisa a la nostra gent quai in i rob ca gh’em inteziun de fa”. Sono rozzi come il loro capo i leghisti e lui lo è in modo brutale: “Dalla Chiesa? Un fesso con un bel nome”, “De Mita? Brutto di giorno e di notte”, “Andreotti, voleva tuffarsi nella fontana del Quirinale ma gli abbiamo tolto l’acqua”. E le lodi del folclorismo più vieto, dello scarpinasc il raviolone delle osterie comasche, i militanti in costume con l’elmo in testa e la croce sul petto, le storie celtiche inventate, il lancio della pietra, l’ampolla di acqua della sorgente del Po, il parlamento padano in una villetta presso Mantova, la scuola padana, il futuro ministro Castelli che si sposa secondo un rito longobardo della regina Teodolinda. Gli intellettuali sparano alzo a zero sul tribalismo della Lega, sull’abominevole culturame degli indigeni padani, e in loro soccorso, impietosito, accorre Arbasino che ironizza su quel disprezzo “per le loro deplorevoli fabbrichette dedite solo alla produttività bruta. E ci sarà un abisso di stile nel passaggio da Pillitteri a Bossi?”. Circondata, isolata dalla buona borghesia milanese la Lega viene sconfitta alle elezioni amministrative, esce da piazza della Scala e torna nella periferia di via dell’Arbe e politicamente smette di correre da sola e finisce per salire sul carro di Berlusconi che ha simpatia per Bossi ma gioca con lui con la carota e il bastone, fingendo di temere i suoi ricatti e piantandolo quando si impunta. Così tira avanti minacciando sconquassi e tornando mogio all’ovile governativo. Finisce che il guerriero del nord Umberto da Giussano va al Festival di Sanremo a cantar una canzone napoletana in gara con Mino Reitano» (Giorgio Bocca, “la Repubblica” 12/3/2004). «Azzannando alla rinfusa alleati, avversari “come un pitbull senza guinzaglio”, la definizione di Mastella, il senatùr s’è esibito nelle sue paradossali specialità. Che consistono da un lato nell’arringare le plebi padane come se non fosse un membro importante del governo ma ancora oggi un capo dell’opposizione populista alla Dc; dall’altro nel cavalcare l’estremismo più isterico per trarne un modesto ma strategico vantaggio a danno della coalizione. Nel senso che con le sue sparate xenofobe e ora anche eurofobe, il senatore si procura qualche centinaio di migliaia di voti ma ne fa perdere qualche milione alla Cdl, come certificano le ricerche di questi mesi. E siccome l’uomo non è stupido né ingenuo, probabilmente è questo il suo calcolo. Negli ultimi 15 anni Bossi s’è mostrato abile a curare gli interessi della propria bottega elettorale, la Lega sopravvissuta a cento fallimenti e mille giravolte politiche, quasi quanto Berlusconi è stato furbo nel mettere in salvo le aziende» (Curzio Maltese, “la Repubblica” 17/8/2003). «[...] Dopo il diploma di scuola superiore si è iscritto alla Facoltà di Medicina dell’Università di Pavia, ma non ha completato gli studi. Ha fatto il muratore, ha lavorato in una lavanderia, ha suonato in un complesso rock, è stato dipendente dell’Automobile Club, scaricatore di frutta e verdura, assistente alla camera operatoria in un ospedale. Bossi è stato attratto dalla politica fin da giovanissimo, partecipando al movimento studentesco di sinistra durante il 1968. In seguito ha militato, in rapida successione: nel gruppo comunista Il Manifesto, nel partito di estrema sinistra Pdup, nell’associazione dei lavoratori cattolici di sinistra Arci, e nei Verdi. Nel 1979 ha incontrato Bruno Salvadori, leader dell’Unione Valdôtaine, il partito locale di maggioranza nella regione nord-occidentale della Val d’Aosta, e lo ha aiutato a diffondere nel Nord le idee autonomiste e federaliste. Nel 1984 Bossi ha fondato la Lega Lombarda, diventandone il segretario. Nel 1989 ha promosso l’unificazione del suo movimento con altri gruppi regionalisti nel Settentrione, formando la Lega Nord e assumendo la carica di segretario. Nel 1994 si è alleato con il partito di centrodestra di Berlusconi, per le elezioni della primavera, vinte da questa coalizione. Nel dicembre di quell’anno, però, è uscito dalla maggioranza, alleandosi con l’opposizione di centrosinistra e determinando, così, la caduta del primo governo Berlusconi. Bossi è sposato con Manuela Marrone e ha tre figli. Non parla inglese [...]» (da un rapporto della Cia; Maurizio Molinari e Paolo Mastrolilli, “La Stampa” 15/9/2005).