Varie, 14 febbraio 2002
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Botero Fernando
• Antioquia (Colombia) 19 aprile 1932. Pittore • «Un giorno di tanti anni fa, quando era ancora adolescente, nella natia Medellin di Colombia, bella (allora), cattolicissima, tradizionale, piena di cento chiese, Fernandito andava a scuola di tauromachia, per desider io e passione di uno zio che gli faceva da padre, al posto del papà che gli era morto quando aveva solo quattro anni. Erano quindici aspiranti toreri, anzi aspiranti matadores, come buona parte dei ragazzi colombiani della sua età. Il fatto è dunque che un toro riuscì a liberarsi dal locale macello, che riuscì a scappare in piazza, che l’insegnante di tauromachia pensò che fosse un’occasione per sperimentare in vivo le arti che aveva insegnato ai ragazzi. Solo che, racconta con una fragorosa risata Fernando Botero, uno solo se la sentì di affrontare quel toro così vero, quattordici scapparono a gambe levate, e tra quei quattordici c’era lui, che quel giorno capì la sua vera vocazione: meglio gli acquarelli. [...] Volume è la parola chiave per Fernando Botero. Quella con cui spiega la sua pittura e le sue scelte. Tutta colpa, o merito, di Firenze [...] dove arrivò ventenne per studiare, sull’onda di un incontro fortuito, in una libreria di Madrid, con La regina di Saba di Piero della Francesca. A Firenze lui – che, pittore giovane e povero, aveva già dipinto in Messico un’ormai celebre chitarra con il foro centrale piccolo piccolo, obesa in senso relativo, eccentrica – scoprì quello che ”la pittura bidimensionale” del ventesimo secolo non gli comunicava. Oltre che di Piero, si è innamorato di Giotto, Masaccio, di Paolo Uccello, dei volumi rappresentati nella loro pittura. E si è sentito autorizzato a usare, accanto al tratto apparentemente naïf, alla eredità che gli viene dai murales latinoamericani, questa enfasi sui volumi nella sua pittura, ”con la libertà più estrema, con le scelte più radicali che consente l’arte moderna”. La sua libertà lui se l’è presa con i volumi ”come Matisse ha fatto con i colori. Perché ci sono quei rosa o quei blu in natura?”. E ha formato il suo credo. ”Credo alla figurazione, al volume, credo nella pittura a olio”. Crede soprattutto che non valga la pena di arrabbiarsi per il trattamento un po’ sopracciglioso con cui, in netto contrasto con la sua popolarità generalizzata, viene accolta la sua opera dalla critica. ”Tutti quelli che vivono o operano secondo un’idea diversa da quella dell’establishment producono qualche forma di reazione. Un artista deve produrre qualcosa che in questo momento non si fa. Ed è normale che la critica resti a volte spiazzata. Vent’anni fa certe reazioni mi facevano male. Ma quando uno studioso come Werner Spies, che è stato il direttore del Beaubourg, scrive una presentazione come quella che ha scritto alla mia opera, be’, peggio per quelli che reagiscono con furia, addirittura con odio, mai comunque con una reazione tranquilla, a mio successo. Anzi, ci rido su”. Ne ha tutte le ragioni. A partire dalla Monna Lisa all’età di dodici anni a sorpresa acquistata dal Metropolitan Museum di New York nel 1960, quando aveva appena raggiunto un po’ di notorietà, le sue opere sono approdate a una trionfale mostra al Hirschhorn Museum of Modern Arts, hanno invaso i boulevard parigini e gli spazi fiorentini, e sono ora state donate da lui al suo paese, assieme ad altre opere di artisti spesso importanti che lui stesso ha collezionato. [...] Lui non definisce i suoi personaggi dei grassoni. La sua pittura, ribadisce, è il trionfo del volume. ”Cerco di spiegarmi. La bellezza dell’arte non ha niente a che vedere con la bellezza della realtà. La Battista Sforza di Piero della Francesca è una donna bruttissima, ma il suo è il ritratto più bello della storia della pittura. bello il modo in cui viene rappresentata. Ecco, io non faccio ”donne grasse’: mi interessa la possibilità offerta dall’esaltazione dei volumi, dalla monumentalità, anche in pittura, dalla rappresentazione fatta con uno stile e una precisa coerenza tra l’ambiente circostante e le mie figure, con attenzione ai particolari”. Il Boteromorfismo, appunto» (Irene Bignardi, ”Il Venerdì” 4/4/2003). «[…] Taluni di coloro che non amano il suo lavoro dicono: il mondo è pieno, strapieno di mostri, c’era proprio bisogno che Botero ve ne aggiungesse altri, sia pure dipinti o scolpiti, come le sue donnone, obese dalle gambe corte e dagli occhi spenti? ”Se le donne da me dipinte o scolpite fossero così repulsive come dicono taluni dei miei critici, non si capirebbe perché esse vengano acquistate dai musei. Io sono l’artista vivente che ha più opere nei musei […] i direttori dei musei si intendono d’arte molto più dei critici, che sono in gran parte degli asini. […] Anzitutto io non faccio distinzione fra donne e uomini, anche i miei uomini sono obesi come le donne, anzi persino i miei vescovi, i miei angeli o arcangeli. Io li dipingo o li scolpisco così per ragioni puramente artistiche, come i pittori e gli scultori greci. Gli atleti e le figure femminili dei maestri greci si ammirano per la loro bellezza formale, non per la loro intelligenza o per la loro anima. La psicologia o la psicoanalisi c’entrano poco con l’arte […] In arte la bellezza e la bruttezza hanno valori inversi, antitetici rispetto alla realtà. La Battista Sforza di Piero della Francesca era in realtà una donna bruttissima, orrenda, mentre il suo ritratto è il più bello di tutta la storia della pittura. Con la mia teoria riabilito le donne brutte, le quali dovrebbero erigermi un monumento. Non dipingo o scolpisco le donne perché grasse, ma dipingo e scolpisco le donne secondo le possibilità offerte dalla monumentalità e dall’amplificazione dei volumi e degli spazi, con una precisa ricerca stilistica e con una gran cura dei particolari […] Vengo accusato di deformare il corpo femminile in maniera oscena, ma anche Raffaello praticava la deformazione, con qualche anno di anticipo rispetto a Picasso […] Nella realtà la magrezza è un elemento della bellezza, tutto il contrario di ciò che avviene in arte. […] Io distinguo gli artisti in due categorie: quelli che mi piacciono visivamente, e quelli dai quali imparo qualcosa. Fra quest’ultimi, oltre i maestri già citati, metterei Vermeer e Rodin, pur se Rodin, che alla sua epoca era considerato una sorta di Michelangelo francese, è molto calato negli ultimi vent’anni. Fra i primi, ben pochi, forse Matisse e Picasso […] Il de Chirico metafisico ha influenzato un gran numero di pittori moderni. Una volta lo incontrai in una galleria parigina. Era sdraiato su una poltrona, ma aveva una espressione così annoiata che scoraggiò ogni mio impulso di avvicinarlo. Bacon era un bravo pittore, ma non ho nulla da imparare da lui. Lucien Freud idem. Guttuso era un pittore di grande forza. Marino Marini era più bravo di Manzù e di Greco, ma anche Manzù e Greco erano dei buoni scultori. Di Manzù acquistai un cardinale, di Greco una delle sue figure di donne […] I miei critici dicono che io non avrei sensibilità sociale, ma io mi sono occupato della violenza sin da giovanissimo ed ho donato la mia collezione, in cui figurano dei Picasso, Matisse, Renoir, al nuovo Museo Nazionale di Bogotà”. […]» (Costanzo Costantini, ”Il Messaggero” 22/3/2005).