Varie, 14 febbraio 2002
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Boulez Pierre
• Montbrison (Francia) 25 marzo 1925. Compositore. Direttore d’orchestra • «[...] Incarnazione della coscienza critica del Novecento musicale, come direttore, offre interpretazioni esemplari soprattutto dei compositori del secolo scorso, in particolare di Webern, di cui ha registrato l’opera omnia. Inoltre ha un rapporto specialissimo con Wagner, che ama rileggere coniugandolo al futuro. Asciutto e illuminante il suo Mahler, calibrato e ritmicamente rigoroso il suo Bartòk, strutturalmente limpido il suo Stravinskij (leggendaria la sua incisione del Sacre du printemps). Mancano dal suo catalogo Bach, Mozart e Verdi, che considera ”retorico, ripetitivo e pieno di zum-pa-pa”. Sempre originale nelle scelte, estraneo a cedimenti romantici, e teso alla più assoluta trasparenza analitica [...] è anche uno straordinario animatore ed organizzatore, abile nel promuovere progetti di diffusione della musica nuova. Due, in particolare, sono le creature che testimoniano la sua vitalità sperimentale: il Centro Ircam di Parigi, rivolto alle più avanzate ricerche sui linguaggi musicali, e l’Ensemble InterContemporain, che ha finito per definirsi il gruppo della musica moderna per antonomasia» (Leonetta Bentivoglio, ”la Repubblica” 2/9/2005). «Compositore d’avanguardia, direttore d’orchestra ascetico e cerebrale, nume tutelare della musica contemporanea[…] carattere poco allineato e molto polemico […] con la sua terra d’origine ha avuto spesso un legame burrascoso. Ai tempi di De Gaulle, quando Malraux, ministro della Cultura, rifiutò il suo progetto di modernizzazione della musica, Boulez se ne andò sbattendo la porta. ”E sono rimasto via per oltre vent’anni. In esilio volontario all’estero, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti... E poi in Germania, dove ho addirittura preso casa, appena fuori Baden Baden, ai limiti del bosco”. In Francia tornerà solo con Pompidou. E stavolta con tutti gli onori. Per lui lo stato francese creerà l’Ircam (Istituto di ricerca acustico musicale) e l’Ensemble Intercontemporain. Ed ancora lui sarà la pietra miliare su cui, nel ”95, edificare la Cité de la Musique. Pace fatta quindi. Ma non del tutto. Tant’è che ai suoi vitalissimi 80 anni Boulez preferisce brindare altrove. […] ”A Bartok, ai suoi concerti per pianoforte, devo la scoperta di molti concetti chiave. Tra me e il pianoforte c’è sempre stato un rapporto speciale, che non ho con nessun altro strumento. Io compongo a tavolino. Un suono lo si pensa, lo si ascolta dentro di sé. Ma se ho dei dubbi è al piano che vado a sperimentarlo”. Figlio di un ingegnere, laurea in matematica, Boulez ammette di aver utilizzato parte di quel bagaglio per comporre la sua musica. ”Ho usato le proprietà delle permutazioni cercando di andare oltre le soglie della dodecafonia. Ho voluto sperimentare le leggi della riscrittura: creare ogni volta qualcosa di diverso con gli stessi materiali mi affascina”. Una sorta di evoluzionismo musicale ben evidente, ad esempio, in Anthèmes. ”Un piccolo pezzo per violino, via via cresciuto in altre forme. In realtà […] è il sistema con cui gli agricoltori fanno gli innesti: prendono un ramoscello, lo inseriscono in un albero e viene fuori una creatura nuova. Ogni opera nuova per me è un innesto vivo sul tronco del passato in un’operazione di continuità e rinnovamento che da un lato mi permette di saggiare i miei limiti, dall’altro di tendere all’assoluto, alla perfezione ”matematica’”. Si potrebbe anche chiamarlo ”riciclaggio”. ”Perché no?”, risponde. ”Lo faceva anche Mahler. Tutta la sua musica è l’evoluzione sempre più sofisticata di un’unica idea originaria”» (Giuseppina Manin, ”Corriere della Sera” 25/3/2005). « esploso sulla scena musicale nel 1946, a ventun anni, con una Sonatina per flauto e piano che riusciva a coniugare i ritmi di Stravinsky con le armonie di Schönberg. Nel suo capolavoro, Il martello senza maestro del 1951, superò Stockhausen e Cage e si impose come ”il miglior compositore della sua generazione”, secondo il giudizio di Stravinsky. Parallelamente alla composizione, ha intrapreso presto anche una fortunata carriera come direttore d’orchestra, che l’ha visto per lunghi anni sul podio della New York Philarmonic e della Bbc Symphonic Orchestra, e gli ha fruttato il premio Wolf del 2000 e ben 17 Grammy Awards. Da venticinque anni dirige e presiede l’Ircam, l’Istituto di Ricerca e Coordinazione Acustica e Musicale che ha sede al Beaubourg di Parigi […] ”Mio padre era ingegnere, e voleva che seguissi le sue orme. Così mi sono laureato in matematica a Saint Etienne, nella provincia dove sono nato, e poi ho fatto un anno di preparazione a Lione per l’cole Politechnique […] Avevo interesse e talento per la matematica e mi è sempre piaciuto studiarla, a patto che non diventasse un obbligo che mi distogliesse dalla musica. Avevo e ho una grande ammirazione per i matematici, per il modo in cui la loro mente lavora, per come ragionano su cose che inventano. Questo mi sembra il loro aspetto più creativo […] Da giovani si vive nel proprio mondo, isolati dagli altri, sconosciuti o non presi seriamente. Poi si produce qualcosa, si diventa parte di una comunità, si scopre di non vivere in una nicchia. D’altronde, per cambiare il passato bisogna conoscerlo, non si può solo pensare al proprio lavoro”» (Piergiorgio Odifreddi, ”la Repubblica” 16/9/2002). «Monumento della musica contemporanea francese ma non solo […] ”Quando i compositori hanno poche idee entrano nelle biblioteche e sfruttano solo quelle degli altri. Penso che sia più interessante ”bruciare’ le biblioteche […] Sia chiaro, le biblioteche sono importantissime, voglio semplicemente dire che i musicisti devono avere lo sguardo al presente e al futuro, senza farsi schiacciare dal peso della tradizione. Non dobbiamo pensare alla storia come qualcosa in cui ci sono state ”età dell’oro’, ma abituarci a vedere la musica come qualcosa in continua transizione […] In linea di massima fino ad ora le sale da concerto sono state concepite come dei semplici ristoranti, con degli orari d’apertura molto rigidi. Penso che dovrebbe aumentare molto l’attività intorno ai concerti, soprattutto nei week-end, offrendo al pubblico diversi approcci con la musica. A Londra, ad esempio, esistono i ”discovery concerts’: nella prima parte un brano in programma è spiegato e analizzato con degli esempi musicali; in seguito è eseguito per intero, in modo da fissare nella memoria gli elementi analizzati. Mi sembra un’esperienza interessante. Poi penso che occorra una giusta miscela tra repertorio e musica contemporanea. Ad esempio, io ho accettato di eseguire un concerto al Mozarteum di Salisburgo, solo a patto che insieme con Mozart fosse eseguito anche Schoenberg. In questo i grandi musei possono insegnare molte cose. Trovo importante anche proporre interpretazioni diverse di uno stesso brano, in modo da sollecitare nel pubblico uno spirito critico. Incrementerei le registrazioni di musica contemporanea, per stimolare gli interpreti e offrire la possibilità di creare archivi sonori […] Gli interpreti sono pigri: a giudicare dai programmi di tanti illustri solisti, sembra di vivere ancora alla fine dell’Ottocento! Eppure in Italia avete musicisti eccellenti, come Abbado, Pollini, Chailly, che ormai sono seguitissimi ovunque, anche quando eseguono la musica d’oggi […] Ci sono molti giovani compositori interessanti. Io sono molto esigente, la musica ”facile’, tanto di moda oggi, non m’interessa […] Cosa significa fare il compositore? Mi viene in mente una frase che scrissi molti anni fa: significa tentare di realizzare un dialogo tra la realtà e l’utopia […] Ho sempre trovato grande sintonia tra la mia musica e quella di Berio”» (Luca Della Libera, ”Il Messaggero” 13/11/2002). «[…] Nell’orizzonte della musica contemporanea non appare altra figura altrettanto complessa e lineare, creativa e costruttiva insieme, capace di fare, intellettualmente autorevole, politicamente rispettato, da qualunque governo, che ci pensa due volte prima di pestargli i piedi. ”Se André Malraux manderà queste musiche all’Esposizione Universale di Montréal per rappresentare la Francia, si farà ridere in faccia (se fera rire au nez)!”, dichiarò negli Anni Sessanta in polemica con lo scrittore, allora ministro della Cultura. ”Io rifiuto di collaborare con chiunque dipenda dall’organizzazione ufficiale della musica”. Non era, allora, e non sarà poi vero, ma l’affermazione dell’autonomia e della responsabilità, dunque del potere (l’unico) concesso all’artista era netta. Sarà il presidente Georges Pompidou a ritessere la tela. Rispetto al nostro Paese, la differenza è lampante: Boulez, alla protesta, anche all’invettiva, ha sempre fatto seguire la realizzazione, faticosa, battagliera, ma spesso vincente, di un progetto. E ha saputo trovare, in più di un’occasione, un interlocutore responsabile, persuaso della necessità di avere una strategia anche nel campo dell’organizzazione della cultura, senza limitarsi a sparare qualche razzetto a effetto. L’Ircam, un centro di ricerca sulla musica elettronica ancora di riferimento; l’Ensemble Intercontemporain, orchestra da camera dedicata al repertorio nuovo e nuovissimo; i concerti del ”Domaine Musical”, che per molti anni hanno offerto un punto di vista privilegiato sulla creatività internazionale: tre storiche realizzazioni di Boulez. Nel 1979, ricevendo il premio Siemens, ricordò un proverbio portoghese amato anche da Paul Claudel: ”Dio scrive dritto servendosi di linee curve”. Ammise di averlo sempre fatto suo, non perché si credesse Dio (come gli rimprovera qualche critico francese, inevitabilmente invaso dal suo protagonismo): ”Io non posso rappresentarmi l’esistenza senza gli eccessi e i pericoli di una dispersione, purché al centro di un’attività multiforme permangano la fermezza della direzione e l’acutezza dello sguardo!”. Se non è ”funzione sociale” questa. Nato nella regione della Loira, a diciott’anni è a Parigi, allievo di Olivier Messiaen, a venti viene assunto come ”direttore musicale” della Compagnia teatrale di Jean-Louis Barrault e Madeleine Renaud: nonostante questa esperienza, fondamentale anche per la sua futura, apprezzatissima carriera di direttore, l’ebbrezza del teatro non lo stordirà mai. Spicca, in un catalogo di opere numeroso e vario, l’assenza di un titolo d’opera, linguaggio così amato invece dal suo coetaneo e amico Luciano Berio. Come se l’astrazione del pensiero e del linguaggio cara al maestro francese - che per alcuni anni, con la musica, studiò anche matematica - non potesse posarsi, materializzarsi, in un’azione scenica, risolvendosi invece in modo compiuto nella teatralità del gesto sonoro e della voce. Il palcoscenico rappresenta e fissa, la sua musica invece si irradia, respira, freme, esplode e si ricompone, materia sempre fluida, come i versi di Mallarmé, il poeta amatissimo. ... Explosante-Fixe... il titolo più evocativo delle opere di Boulez: la musica paragonata a una stella che si dilata bruciante e ritorna allo stato iniziale, sovrapponendo scritture su scritture, come strati geologici: ecco nascere Incises e Sur Incises, Anthèmes e Anthèmes 2. Sentieri iniziati, interrotti, ripresi, altre strade intraviste. Perché finire un’opera? ”I libri si finiscono solo per compiacere gli editori”, ha detto Borges. All’opera, Boulez ha dato contributi interpretativi memorabili, come la ”Tetralogia” diretta a Bayreuth nel 1976, centenario dell’inaugurazione del teatro voluto da Richard Wagner. Spettacolo, con la regia di Patrick Chéreau, che farà epoca, rilettura antieroica e antimitica della saga dei Nibelunghi, tutta storica e centrata sulla decadenza dell’aristocrazia e della grande borghesia tedesca: solo l’autorevolezza musicale di Boulez poteva reggere l’uragano di fischi, resistere alle critiche politiche. Vent’anni dopo, ad Amsterdam, la direzione del Mosè e Aronne di Arnold Schoenberg, questa volta con la regia di Peter Stein, combina al rigore della scrittura la palpitazione per l’interrogativo sulla distanza, l’assenza del sacro, con un respiro che, nelle stagioni ultimissime di Boulez, sembra divenuto più partecipe, più emozionato, anche se la lettura concettuale è ancora prevalente nel Parsifal del 2004, sempre a Bayreuth. La sua interpretazione del Rito della primavera di Igor Stravinskij che comprende e risolve lo spirito dionisiaco della musica nel nitore degli equilibri strumentali è stata a lungo prediletta, ma ora deve confrontarsi con la sfrenatezza panica, ebbra, di Valerij Gergiev: la pagana madre terra prende, nella bacchetta del maestro russo caucasico e nella rugosità ctonia del suono della sua Orchestra di San Pietroburgo, il sopravvento sull’estremo tentativo di Boulez di dimostrare che la ragione occidentale può dominare anche il magma stravinskiano. Oltre, lungo la traiettoria dell’ebbrezza, non può spingersi l’interprete finissimo dei classici della Scuola di Vienna: ”Alban Berg è stato per me il contrappunto e il contrappeso all’estrema chiarezza (clarté) di Anton Webern”. Dal suo scabro universo di suoni, così pudico e significante, Boulez proporrà, ai giovani maestri del dopoguerra, di ripartire: erano gli anni delle più aspre polemiche musicali e ideologiche, della ricerca di una sintassi musicale obbligatoria e rigorosa e lui, dopo aver dichiarato che ”Schoenberg è morto”, con la serie delle tre Sonate per pianoforte - la Seconda ci è stata svelata da Maurizio Pollini - propone un percorso più estroverso, violento e irregolare. A un termine, ”Sonata”, che appartiene alla storia della musica e al suo periodo classico, associa nello spartito quello di ”formanti”, inteso come ”principi generatori dell’opera considerati globalmente, ciascuno regolato dai suoi dati specifici”. la traduzione in musica dell’idea letteraria di ”opera aperta”, della sua ”necessità problematica”, anche mutevole però non casuale, non aleatoria: francese e illuminista, Boulez indica tutte le note, ordina, prescrive, mentre è affascinato dall’’action painting” statunitense, dai poeti che ”destrutturano la scrittura”, per poi ricomporla. La retta e le curve, il corpo, la sua ombra, il loro dialogo. Per volontà e per caso, titola un suo libro (tradotto in italiano, come gli altri, da Einaudi). Disilluso e tenace, artigiano ”furioso” e ricercatore dei più complessi sistemi elettronici di creazione e riproduzione del suono, il maestro rimane una stella fissa (...explosante...) del pensiero musicale forte di oggi, così minoritario» (Sandro Cappelletto, ”La Stampa” 21/3/2005).