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 2002  febbraio 14 Giovedì calendario

Bourgeois Louise

• Parigi (Francia) 25 dicembre 1911, New York (Stati Uniti) 31 maggio 2010. Scultrice • «Piccola, con gli occhi bruni, che come un radar captano quello che le succede intorno, i capelli lisci e ancora scuri, un paio di scarpe da ginnastica slacciate e un pullover color fuxia, si concede ai suoi ospiti. un rito che rinnova da vent’anni. Ogni domenica pomeriggio, alla stessa ora, apre la porta del palazzetto in cui vive a Chelsea per ricevere artisti e aspiranti artisti di ogni parte del mondo. Sono tutti ragazzi, che accorrono dalla maestra a sentire cosa ne pensa del loro lavoro. A sua volta lei aveva fatto lo stesso con Fernand Léger, quando cominciò a muovere i primi passi nel mondo dell’arte a Parigi negli anni trenta. La prima volta che Léger vide un suo pezzo le disse: ”Sei interessata non a una superficie piatta, ma alle tre dimensioni”. A lei bastò per prendere coraggio. Il suo non è stato un percorso facile per due motivi. Primo, per la depressione che l’ha accompagnata per tutta la vita e che ha cercato di metabolizzare trasformandola in arte e secondo per il trauma subito da bambina, che si è portata dentro come un’ossessione. Suo padre, mentre lei e i suoi fratelli erano piccoli, per dieci anni era stato l’amante della loro governante, una ragazza arrivata dall’Inghilterra. Secondo la migliore tradizione borghese tutti sapevano tutto. Compresa la madre. Questa ipocrisia, questo doppio tradimento da parte di chi si doveva prendere cura di lei, non lo perdonerà mai. Nemmeno adesso che ha novant’anni. Per tutta la vita ha cercato di liberarsi da quest’ossessione, che ha ipnotizzato la sua mente. Ha esplorato la sessualità maschile, femminile, ha raffigurato deformandoli enormi genitali, o ragni mostruosi e deformi, che simbolizzano la figura materna. […] Mentre il mondo dell’arte ufficiale si inchina al suo lavoro, lei nel suo antro, con l’aiuto di un paio di assistenti, continua a produrre ogni giorno, rispettando una disciplina rigida, che le viene imposta solo da se stessa. In realtà continua ad esplorare il suo inconscio per cercare di trovare una via di scampo da quel tunnel buio da cui non è mai uscita. ”La mia scultura è la mia psicoanalisi”, dice senza trincerarsi dietro al mistero. dura, intransigente, curiosa, appassionata. Il mondo gira intorno a lei. Così i ragazzi, alcuni armati della baldanza dei vent’anni, altri imbrigliati nei complessi di insicurezza, pure questi tipici dell’età, si rivolgono a lei come a un giudice supremo di cui aspettano il verdetto come viatico per il loro viaggio. Non si accorgono, che Louise, come un Caronte dantesco, che avvinghia la coda intorno al corpo per indicare il girone dell’inferno al quale sono destinati, con un sadismo tipico di una vita passata senza amore giudica e sentenzia senza pietà. Appena si accorge che qualcuno ha una briciola di talento, come una spugna cerca di assorbire linfa vitale da instillare poi nelle opere, che continua a produrre con la cadenza di un metronomo. Questi giovani, che accorrono da ogni parte sono per lei il ponte con il resto del mondo, il mezzo per sapere cosa succede fuori, che poi non le interessa più di tanto. O meglio le interessa solo se ruota intorno a se stessa. ”Qual è la differenza tra uomo e donna nell’arte?”, chiede a Myriam, che le sembra la più baldanzosa. E la ragazza: ”Gli uomini sono più ossessivi. Le donne più isteriche. Non pensano prima di agire”. La faccia di Louise si trasfigura. Ha la stessa espressione di un gatto, che ha appena mangiato un pesce. Ma è una frazione di secondo, perché poi passa avanti. I pomeriggi in casa sua, a cui assistono anche curatori di musei, che diventano amici suoi e sperano prima o poi di scoprire tra questa piccola folla di ragazzi il genio, sono come corride. Lei è al tempo stesso torero e matador. E le banderillas con cui infilza il giovane toro di turno sono idee, giudizi ed impressioni. Da sei anni Pouran Esrafily, un’artista iraniana, che Louise aveva conosciuto quando era andata a fotografarla nel 1977, registra tutto quello che succede fra le sue mura. Pouran ha girato fino ad oggi cinquecento ore di pellicola e ne ha selezionate solo due. Un concentrato, che verrà presentato al pubblico americano prima e internazionale poi col titolo: Sunday Salons at Louise Bourgeois, salotti della domenica da Louise Bourgeois. Cosa verrà fuori da questo film? ”Verrà fuori lei”, è sicura l’autrice, ”con tutta la sua capacità di dare forma alle sensazioni”. Il motto della Bourgeois è lo stesso di Socrate. ”Conosci te stesso” è stato il suo pane quotidiano. Per raggiungere lo scopo ha messo specchi in tutti gli angoli della casa e specchi si ritrovano nel suo lavoro, anche nei ragni. Non per alimentare il suo narcisismo, ma per sviluppare la concentrazione in se stessa. ”Mi ha insegnato a guardarmi così come sono”, sottolinea la regista iraniana, ”e voglio che la gente riceva quello che ho ricevuto io”» (Fiamma Arditi, ”La Stampa” 17/12/2001) • «Rappresenta un caso esemplare nella storia dell’arte contemporanea, un percorso creativo che è riuscito a trascinare dentro di sé la propria biografia e condensarla nella forma finale dell’opera. […] ”Il mio lavoro è la sola comunicazione che ho con il mondo. l’unico modo che conosco e l’unico che mi interessa conoscere. La comunicazione implica che ci sia un mittente e un destinatario. Io sono il mittente e ciò che pensa il destinatario non è un mio problema. Dico ciò che ho da dire e advienne que pourra”. La sua opera ha sempre affermato l’identità dell’artista. La sua scultura, che non è mai monumentale, è una lettura del passato o un dialogo col presente attraverso il pubblico che riconosce l’intensità e la soggettività dell’autrice? ”Le mie opere sono la storia del mio passato che oggi ricompare forzatamente”. La sua opera implica vari piani percettivi, quello visivo e quello uditivo. ”Il piano uditivo è importante; la musica si lega all’inconscio più facilmente di quello visivo. In un primo momento il piano visivo era il più importante, e progressivamente la dimensione uditiva si è infiltrata nel mio lavoro perché qualche volta lavoro cercando di dormire. Questi elementi uditivi non sono necessariamente musicali, ma possono essere i rumori della notte, del traffico o della gente che litiga per strada”. La vita dell’artista non è fatta solo di creazione ma anche di creatività quotidiana, di passioni, incontri, scontri, discussioni e conversazioni. Gli appuntamenti domenicali che tiene nella sua casa di New York come incidono sul suo sistema di vita? ”Durante i saloni domenicali sono personalmente assente, ma ascolto attentamente ognuno dei presenti. Non mostro mai il mio lavoro”. Che differenza esiste tra il suo salotto domenicale ed ”americano” e invece quello europeo e francese, legato alla sua formazione, all’epoca della sua adolescenza? ”Non c’è mai stato alcun salotto nella mia giovinezza”. […] La creazione è un atto solitario, la conversazione è un atto collettivo. In che modo la storia ed il sociale incidono sulla sua opera d’artista? ”La storia penetra attraverso i media e si impone nella nostra vita. La storia ha un effetto ritardato sul mio lavoro, un effetto post-traumatico”. Lei ha dato sempre molta importanza alla vita quotidiana, alle passioni familiari documentate anche nel suo diario, perso sul treno quando aveva 12 anni. stato ritrovato nel 1996. Che impressione le fa a rileggersi dopo 72 anni? ”Montaigne diceva: ”connais-toi toi-même’. Più conosci su te stesso, buono o cattivo che sia, meglio è. Quando rileggo i miei diari, cosa che non faccio abitualmente, vedo le basi di ciò che sono”. La sua opera non è mai elaborazione di un lutto, semmai riesce a portare nel presente della forma aspetti di un passato problematico e nascosto. L’arte è sempre costruttiva? ”La mia arte risolve i miei problemi. I miei problemi cambiano e diventano sempre più piccoli. Le mot pitié m’a apaisée. Quando mi sento positiva verso gli altri mi sento exaucée”. Un pensiero nicciano riguarda la priorità della distruzione per poter costruire. L’arte è una catastrofe linguistica che de-costruisce ogni convenzione per poi proporre il proprio rinnovamento delle cose. questo anche il suo procedimento creativo? ”Ho sempre detto che la mia arte è come la potatura di un albero”. Un suo libro si intitola Destruction du père, reconstruction du père. Sembra alludere al problema dell’autorità ed alla emancipazione da essa. L’arte è uno strumento di emancipazione esistenziale? ”Ti riconcili e perdoni. Perdonare ti permette di dimenticare e di andare avanti. La mia arte è la ricostruzione di me stessa”. Lei pensa che la sua opera sia uno strumento anche di emancipazione sociale? ”Non ho questa pretesa”. L’artista ha un sesso, l’opera possiamo considerarla androgina? ”Tutta la mia arte ha a che fare con i problemi che si manifestano prima dei sessi”. La sua opera sviluppa un concetto di arte produttrice di energia o è anche un processo di conoscenza? L’arte tocca insieme il corpo e la mente? ”La mia arte è insieme energia e sensibilità, mente e corpo allo stesso tempo”. Lei rappresenta la congiunzione radicale tra cultura europea e quella americana. Possiamo considerare la sua opera come un siluro multiculturale lanciato oltre il 2000? ”Tutti i miei soggetti sono universali”» (Achille Bonito Oliva, ”la Repubblica” 7/10/2002).