Varie, 14 febbraio 2002
BOY GEORGE
(George Alan O’Dowd) Bexley (Gran Bretagna) 14 giugno 1961. Cantante • «[...] stato una delle icone del pop negli Anni Ottanta con i Culture Club. Nato a Londra da una povera e numerosa famiglia di origini irlandesi, espulso da scuola da ragazzino, ha iniziato una vita da vagabondo tra Londra e Birmingham facendo il commesso, il vetrinista, il modello, il costumista, il diisegnatore di moda. All’inizio di carriera si fa chiamare Lieutenant Lush, nel 1981, mette su una sua band, la Sex Gang Children, poi, con il bassista Mikey Craig, il chitarrista Roy Hay e il batterista Jon Moss forma i Culture Club. Diventa Boy George e accentua gli ambigui tratti uomo/donna con un curioso cappello e un trucco che lo contraddistingue in tutto il mondo. Ingaggiati dalla Virgin, i Culture Club ottengono il successo con Do you really want to hurt me: il disco vende milioni di copie e lancia il fenomeno Boy George, trasgressivo ma rassicurante. Due anni dopo arriva Colour by numbers trascinato dal successo clamoroso di Karma Chamaleon, il punto più alto della carriera dei Culture e di Boy George: il significato del testo, una specie di filastrocca per bambini, è tuttora un mistero ma la musica funziona a meraviglia . Boy George occupa le prime pagine dei giornali scandalistici, comincia a circolare la notizia che ha una storia d’amore con Jon Moss (raccontata nel libro Take it like a man). Nel 1986 le prime indiscrezioni sulla sua dipendenza dall’eroina quando un suo caro amico, il tastierista Michael Rudetski, viene trovato morto di overdose nel suo appartamento. Indiziato da Scotland Yard, braccato dai giornalisti, George non riesce a riprendersi e non ci riuscirà più malgrado i tanti tentativi e l’amore dei fan» (r.ita., ”La Stampa” 9/10/2005). «Pittoresco talento degli anni Ottanta […] L’androgino della new wave […] Ha vissuto momenti d’oro (gli anni iniziali dei Culture Club) e circostanze in cui è stato a un passo dal fare la stessa fine di Freddie Mercury (il periodo della grande paura dell’Aids, il terrore per una carriera solista senza certezze). Lo ha salvato la sua mania di buttarla sempre in burla. […] Un gioco, in fondo, è stata tutta la sua vita, o almeno così l’ha sempre presa lui. Anche quando sembrava poter diventare un simbolo della controcultura. Era sulle copertine di tutti i tabloid (’in pratica sempre nella spazzatura, una volta ho visto una signora indiana che incartava un ciuffo di sedani con la mia faccia: ho capito tutto”, disse ai tempi di Karma Chameleon), ma non si faceva ingannare: ”Sempre lì che non sai mai se la gente ti ama o ti disprezza. Credo che la maggior parte del mio pubblico, anche ai tempi dei Culture Club, mi detestasse, ma poi non riusciva a trattenersi dal comprare le nostre canzoni”. Da qualche anno, preda di un sano eclettismo, gira il mondo anche come dj» (Enrico Sisti, ”la Repubblica” 15/8/2002). «All’appuntamento con gli Ottanta, il diciottenne George O’Dowd si era presentato con una cameretta tappezzata con le foto dei suoi eroi (David Bowie, Bette Davis, Little Richard), un armadio stipato di etichette Vivienne Westwood e vestaglie orientali, un pugno di amici punk, il libero accesso ai club della Londra più giusta, con preferenza per il Camden Palace e un progetto: ”Improvvisamente era giusto essere ricchi, famosi e non avere vergogna”. Ad attenderlo, il destino di diventare l’icona [...] di un decennio a cui molti non perdoneranno proprio la mancanza di vergogna. Insieme al destino la attendeva un pubblico di ”quindicenni, sedicenni educatissimi e truccatissimi, con le mamme e i papà sulle gradinate ad attenderli, un po’ abbattutti nel pensare che ogni generazione ha la Liz Taylor che si merita”, come scrisse Pier Vittorio Tondelli nell’84. Ricco e famoso, Boy George lo divenne con i suoi Culture Club: Mickey Craig, Jon Moss e Roy Hay ovvero ”un irlandese gay, un nero, un ebreo e un anglosassone”. Una parabola rapidissima la loro: il terzo singolo Do You Really Want to Hurt Me scalò la classifica britannica nel settembre 1982, poche mesi dopo era secondo negli Usa, il primo album Kisisng to be Clever fu un successo mondiale, il secondo Colour by Number vendette sei milioni di copie. Tre anni dopo From Luxury to Heartache segnava la fine scandita da lite, eroina, gelosie. [...]» (Stefania Ulivi, ”Sette” n. 47/1998).