Varie, 14 febbraio 2002
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Bradbury Ray
• Waukegan (Stati Uniti) 22 agosto 1920. Scrittore • «[...] è stato per la fantascienza ciò che Chandler è stato per il giallo: le ha dato, cioè, un’anima. d è stato anche la vivente dimostrazione che la grande letteratura del secondo Novecento non puù sfuggire al confronto con la narrativa pulp. con i generi più popolari e commerciali di racconto [...]» (Antonio D’Orrico, ”Sette” n. 43/2000) • «In uno dei quartieri occidentali di Los Angeles, apre la porta della sua casa gialla. Ha indosso un paio di pantaloni corti consunti con una camicia in tinta e la cravatta. Cammina appoggiandosi ad un bastone da quando un attacco cerebrale l’ha recentemente lasciato lievemente menomato. Seduto nel salotto le cui pareti somigliano alle incisioni dei suoi libri - vedute un tantino scure ma incantevoli – l’autore di Fahrenheit 451 inizia a parlare, a parlare da lasciare stupiti. ”E’ il mio ruolo nella vita, quello di collezionare metafore”, così lui definisce la propria creazione, circa trenta libri, seicento racconti, pezzi teatrali e adattamenti per il cinema e la televisione. Un’opera che gli è valsa la medaglia della National Book Foundation per il suo contributo alla letteratura americana. All’età di ottantuno anni, i bianchi capelli arruffati, lavora a pieno ritmo, sempre nella grande città californiana dove quest’originario del Middle West si trasferì assieme alla famiglia quando aveva tredici anni. E sempre su una semplice macchina per scrivere, qualche volta anche a mano perché, pur non rifiutando la tecnologia, non nutre alcuna fiducia nei computer. […] Fu Truman Capote, allora capo redattore della rivista ”Mademoiselle”, ad insistere per pubblicare sul numero di ”Halloween” del 1946 un racconto dalla cui trama è nato, cinquant’anni più tardi, Ritornati dalla polvere. […] ”Due fatti hanno segnato la mia vita: quando ho scoperto di essere vivo, a dodici anni, guardando i peli sul dorso della mia mano; è incredibile, nessuno me l’aveva mai detto, la vita è un vero mistero, che strana sensazione! Ma un anno più tardi, vedendo delle persone morire in un film di cow-boy, ho capito che ciò poteva finire. Sono stato preso dal panico! Come evitarlo? Uccidendomi? Ma se mi uccido, faccio il gioco della morte!... Ho cominciato a scrivere quando avevo dodici anni e questo conflitto tra vita e morte non mi ha mai abbandonato. […] Questo scambio continuo nella mia esistenza, quello tra la vita e la morte, e di come mi sento bene ogni volta che vinco - diciamo ogni volta che finisco un racconto o un poema e lo imbuco nella cassetta della posta”. Nel 1999, dopo l’attacco cerebrale, ”stavo in ospedale e non potevo muovere la parte destra - rammenta Bradbury. - Allora ho chiamato mia figlia, che mi fa da segretaria, e ho riveduto con lei il manoscritto completo di un romanzo che avevo appena terminato. Presto sono stato in grado di alzarmi e camminare, ma non riuscivo ancora scrivere. Mi sono sforzato di firmare uno dei miei libri, ma non potevo farlo che con il pollice intinto nell’inchiostro! Quei libri devono essere una vera rarità oggi. Mi ci sono volute sei settimane per imparare di nuovo a scrivere ed ho dovuto imparare di nuovo anche a parlare perché la mia dizione era terribile. Tuttavia, dieci settimane dopo, su una sedia a rotelle, ho fatto la mia prima conferenza, e davanti a dei medici per giunta. Che ne dice?”. Nella casa californiana che divide con la moglie Marguerite, la routine del lavoro quotidiano appare gioiosamente semplice. ”Quando mi sveglio, la mia musa, che ho soprannominata il mio demone appassionato, mi fa la predica su quello che devo fare ogni mattino; eh sì! Anche la domenica! Chiamo tutto questo il mio teatro mattutino – ”my morning theater’ -, un momento in cui, non ancora sveglio e non più addormentato, le metafore si accalcano nella mia testa e diventano storie. Mi sveglio sempre pieno d’idee”. Ecco un autore al quale l’ispirazione non fa difetto. ”La vertigine della pagina bianca si manifesta quando ci si deve mettere a scrivere cose che sarebbe meglio non scrivere! - dice divertito -. Geneticamente, Dio ha fatto di me un collezionista di metafore; è un dono che non si insegna... Mi sono sempre piaciuti i miti, mi sono innamorato dell’Egitto quando avevo tre anni - ricordo ancora quella maschera dorata scoperta nella tomba di un re nel 1923. Come non rimanerne affascinato? Amavo il gobbo di Notre-Dame de Paris, ho visto il Fantasma dell’Opera a cinque anni e simpatizzavo per Quasimodo, non perché fossi un bambino brutto, ma la grottesca agonia di qualcuno il cui amore non è contraccambiato e mendica riconoscenza in modo così esagerato mi ha segnato per sempre. Molto presto, ho visto il film The Lost World (Il mondo perduto), animato dallo stesso illusionista di King Kong. Poi mi sono innamorato del circo, dei maghi, dai sette anni in poi. Ma nella pratica non ero bravo perché non mi allenavo. Allora sono diventato mago delle parole […] Sono un autore popolare che si è nutrito di pulp e scriveva per un penny a parola... Ho fatto fantascienza soltanto una volta, in Fahrenheit 451, dice del suo libro più noto e portato sul grande schermo da François Truffaut -. Come nella maggior parte delle mie storie, Cronache marziane immaginano un mondo fantastico e persone che non esistono. Ma Fahrenheit è molto reale - i libri che bruciano, la stupidità delle persone - perché la fantascienza parte sempre dalla realtà”. L’universo lo appassiona, ha pianto quando l’uomo è sceso sulla Luna, ma non posa gli occhi solo sulle stelle: si interessa alle città e al loro funzionamento. Si dimentica spesso che di recente ha lavorato come consulente in urbanistica per numerosi centri commerciali di Los Angeles, la Glendale Galleria e il Westside Pavillion o la Horton Plaza di San Diego. […] Che Bradbury sia un accanito ottimista? ”E’ una parola che non amo; preferisco parlare di attitudine ottimale. Se siete al colmo delle vostre passioni, ogni giorno della vostra vita, allora sarete felici. La speranza risiede in ciò che si è già fatto”, dice colui che talvolta, di notte, scende in soggiorno e rilegge la sua prosa con grande contentezza. ”Ma non mi vanto, è la mia musa che li ha scritti! […] Ho due regole basilari nella mia esistenza. Una è ”The hell with it!’ - Al diavolo! - e l’altra: ”Fai quello che devi fare!’”» (Claudine Mulard, ”La Stampa” 15/1/2002).