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 2002  febbraio 15 Venerdì calendario

Brendel Alfred

• Wiesenberg (Repubblica Ceca) 5 gennaio 1931. Pianista. Trapiantato a Londra, mitteleuropeo per interessi e cultura, ha un repertorio pianistico immenso, che da Haydn arriva fino ai compositori moderni. Saggista, scrittore e poeta, ha ricevuto tre lauree ad honorem. La sua discografia è raccolta in un cofanetto che comprende 25 cd, L’arte di Alfred Brendel (’la Repubblica” 5/2/2001) • «La mia storia di pianista è totalmente atipica. Non sono stato un bambino prodigio. Non sono ebreo. Non sono dell’Est europeo. I miei genitori non erano musicisti. Ho una buona memoria, ma non fenomenale. Non sono un buon lettore a prima vista. In verità non riesco proprio a spiegare come ce l’ho fatta […] Devo a Beethoven l’inizio della mia carriera. Che non è partita subito, anzi. In principio progrediva con lentezza. Poi una sera mi capitò di suonare Beethoven nella Queen Elizabeth Hall di Londra. Era un programma poco popolare: neanche a me, tutto sommato, il concerto piaceva molto. Eppure il giorno dopo ricevetti proposte di contratti da ben tre industrie discografiche. Tutte insieme. Grottesco: mi sentivo come un termometro che scatta all’improvviso a una temperatura altissima, o l’acqua di un boiler che si mette di colpo a bollire così tanto che il vapore sembra esplodere» (’la Repubblica”, 8/2/2001) • «In un primo tempo mia madre si esercitava con me, coscienziosa com’era, si sedeva al mio fianco e badava che suonassi le note giuste. Poi, all’età di circa tredici anni, presi a fare da solo […] Quanto a esperienze assurde, a Zagabria non ne mancavano certo: i fascisti croati, i nazisti, la guerra. Ne ho ancora un ricordo assai nitido. Sentivo le voci di Hitler e di Goebbels alla radio. Alcuni miei parenti erano nazisti. Uno zio fu fucilato dalla Gestapo prima della fine della guerra. Una zia, invece, teneva infuocati discorsi filonazisti nella bassa Stiria, zona da cui veniva mia madre e dove io da bambino andavo sempre in vacanza e facevo il bagno nelle acque minerali. [...] Avevo quattordici anni quando finì la guerra. Ma naturalmente questi ricordi mi hanno influenzato anche in seguito. Ero per strada a Graz quando Hitler fece il suo ingresso in automobile, e fui testimone di una psicosi di massa. A Zagabria durante la guerra avevo sentito mormorare che nei pressi della città c’era un lager dove serbi, ebrei e zingari arrivavano e venivano uccisi. Sapevo anche che poco dopo la guerra i partigiani avevano a loro volta dei campi di concentramento dove ammazzavano quanti più croati possibile […] La mia prima insegnante era una donna cordiale ed energica che, pur essendo perfettamente in grado di farlo, non mi ha mai bacchettato perché non era necessario. Allieva di Max von Pauer, veniva dalla Germania, aveva sposato uno jugoslavo e rinforzò molto i miei mignoli. Mi insegnò un metodo per appoggiare il quinto dito in modo da sviluppare un forte muscolo nella parte esterna della mano. Ciò mi è stato assai utile anche in seguito, ma al tempo stesso mi ha reso rigido, e la signora von Kaan, la mia seconda insegnante di pianoforte, mi disse poi che dovevo rilassarmi. Non mi ha detto come farlo, semplicemente l’ha constatato […] Dapprima suonavo brevi canzoni popolari, e ogni tanto dovevo esibirmi davanti a un piccolo pubblico - e qui riuscii a cavarmela, mentre la bambina che la maestra aveva bacchettato no. Ricordo ancora come quella povera bambina si fosse bloccata. Sua madre era lì e le aveva promesso un anello in caso di riuscita. Poi naturalmente l’anello glielo regalò lo stesso, ma con un’espressione un po’ accigliata […] Ricordo che una volta a scuola eseguii la Fantasia in do minore di Bach. Riuscii a farlo senza fermarmi. Per un paio d’anni suonai le solite scale, arpeggi e studi. Poi a un certo punto smisi del tutto. Volevo che la comprensione della tecnica venisse dai pezzi e non che la tecnica si imponesse sui pezzi stessi […] A dieci anni andai da Franjo Dugan, l’organista della Cattedrale, il quale una volta mi portò su con sé nella cantoria. Era un uomo molto basso e doveva fare grandi acrobazie sulla panca per raggiungere la pedaliera. Mi faceva suonare e trascrivere tutte le cadenze in tutte le tonalità e in tutte le posizioni. Ciò mi ha dato un senso dell’orientamento sulla tastiera del pianoforte che mi è stato di grandissima utilità […] La letteratura per me è sempre stata di grande importanza nell’esperire il mondo, e ancor oggi sono convinto che il mondo, alla fin fine, lo si possa conoscere meglio attraverso i grandi romanzi che non con l’osservazione diretta degli uomini. E in ogni caso in una forma più concisa. Allora io leggevo molta poesia. Poi venne la lettura ideale dell’adolescenza, il Jean Christophe di Romain Rolland, che oggi è quasi completamente scomparso dalla circolazione, ma che allora rappresentava la grande esperienza di tutti i ragazzi. Seguirono Il lupo della steppa e Demian di Hermann Hesse, che ancora adesso vediamo in mano ai giovani. Nello stesso anno uscirono poi il Doktor Faustus di Thomas Mann e Il giuoco delle perle di vetro di Hermann Hesse. Li lessi ambedue subito, appena pubblicati, e in un pensionato per studenti eseguii i brani musicali citati nelle due opere, mentre una giovane pianista assai carina suonò qualcos’altro di contemporaneo[…] A Graz subito dopo la guerra, quando si era ancora molto poveri, fu aperta in città una centrale di scambio: un luogo dove la gente portava a valutare degli oggetti; in cambio davano dei buoni con cui ottenere, a parità di valore, altre cose esposte. Bene, ciò che presi allora con uno di questi baratti fu un vecchio scritto dadaista: l’Almanacco Dada con in copertina un Beethoven baffuto. Per me fu un’impressione forte, e tale è rimasta. All’Almanacco si aggiunsero gli scritti di Busoni. Entrai in possesso dell’edizione originale, che lessi da cima a fondo con grande entusiasmo. Poco dopo ci fu il Concorso Busoni a Bolzano. Vi partecipai diciottenne vincendo uno dei premi con un’esecuzione della Wandererfantasie di Schubert, che dovetti suonare alle undici di sera. E da lì qualcosa mi è rimasto. Mi è capitato recentemente di riprendere gli scritti di Busoni, e trovo che vi siano cose che sottoscriverei ancor oggi volentieri e altre che mi sono nel frattempo diventate estranee» (Martin Meyer, ”la Repubblica” 13/10/2002) • «Le mie poesie nascono con la qualità dei sogni. Il terzo dito indice emerse durante un volo per il Giappone, mentre ero in uno stato di dormiveglia. L’esperienza mi colse di sorpresa: fino a quel momento avevo scritto solo saggi. Cresce qualcosa d’inatteso: lo sono entrambi, il dito e il poema. come se scrivessi sotto dettatura: un dono sorprendente. Ogni poema parla dell’assurdità del mondo, che invece non mi sorprende affatto. I miei poemi hanno significati diversi, ma vivono tutti tra il senso e il non-senso. Non credo nelle esperienze mistiche, ma quando creo poesie c’è davvero qualcosa che giunge ad assalirmi. Accetto volentieri che siano i testi a dirmi quel che devo scrivere. Poi lavoro su di essi in modo critico. Uso me stesso come editor, e in questo ruolo sono assai severo [...] Niente a che vedere con il surrealismo. Piuttosto mi sento vicino ai dadaisti. Tutto nasce tra il sonno e la veglia. Il poema arriva da solo. Ma soltanto la prima versione. Il risultato finale lo ottengo dopo un lungo lavoro di editing, per cui cambio il testo una ventina di volte [...] La differenza tra il poeta e il pianista, o il saggista di musica, è quella che passa tra creazione e riproduzione. Come pianista e saggista ho a che fare con prodotti già esistenti, mentre i miei poemi sono fatti creativi, che nascono non solo dal mio rapporto con la musica, ma costituiscono l’esito di una vita in cui ho sempre lavorato con le parole. A differenza dei giovani poeti, che di solito hanno bisogno di tempo per sviluppare un proprio stile, il mio modo di scrivere esisteva fin dall’inizio. Ascolto il suono e il ritmo dei miei poemi in tedesco e in inglese, le lingue che conosco, ma non è la musicalità la prima condizione delle mie poesie. Non sono canzoni. Non sono cantabili. Sono parlate, e posso sentirne le parole in modo vivido. Il repertorio che eseguo come pianista ha un’essenza cantabile, mentre i miei poemi sono più vicini alla musica moderna. Il che significa: nessuna divisione della frase musicale in periodi regolari di quattro o otto battute, nessun uso funzionale dell’armonia. Molti dei miei poemi sono funny, che può voler dire sia buffo che disturbante. Essi sono entrambe le cose. [...] Una volta fui invitato a tenere una lecture a Cambridge, e scelsi come titolo la domanda: Does classical music have to be entirely serious? Cercavo di dimostrare come anche la musica assoluta, senza parole né gesti né palcoscenico, abbia in sé la possibilità di essere umoristica. Affermazione contestata da alcuni filosofi e musicisti. Eppure ci sono pezzi di Beethoven e Haydn che possono essere compresi nella prospettiva dello humour [...] Mozart può essere molto divertente nelle opere teatrali, ma non nella musica strumentale. Quanto a Haydn, è un sommo inventore di commedie. Parlando di Beethoven è ricca di humour, per esempio, la sua Sonata opus 31 n.1 in Sol maggiore. Come lo sono le Variazioni Diabelli, anche se tra di esse ce ne sono alcune serie in modo sublime. [...] Non credo in Dio. Lo uso come un target illusorio. Ho bisogno di un’istanza immaginaria per protestare: contro il fatto che Schubert morì a 31 anni, e che Masaccio, Keats e Bruckner morirono anche più giovani. Inoltre mi sembra imperdonabile che una vastissima parte dell’umanità soffra di ingiustizie immense. La mia metafisica è soprattutto ironica. Però mi piacciono le immagini degli angeli. Le trovo divertenti [...] I momenti più memorabili della sua carriera? Il mio primo concerto, a Graz, a 17 anni. Feci un programma strano, che recava il titolo La fuga nella letteratura pianistica. Seguirono recensioni entusiastiche, e da lì cominciò tutto. Penso inoltre alle mie lauree honoris causa a Oxford e a Yale. Il vertice come esecutore credo di averlo raggiunto a Salisburgo nel 2001, con l’integrale dei concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven insieme ai Wiener Philharmoniker e a Simon Rattle» (Leonetta Bentivoglio, ”la Repubblica” 2/9/2003).