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 2002  febbraio 15 Venerdì calendario

Brown Tina

• Maiden Head (Gran Bretagna) 21 novembre 1953. Giornalista. Direttrice di The Daily Beast, uno dei siti che, con l’Huffington Post, sta rivoluzionando il panorama dei media. Ex direttrice di “New Yorker”, “Vanity Fair”, “Talk”. «Ha sempre attirato in misura insolita i media, non solo in quanto celebrità lei stessa, ma perché le diverse fasi della sua carriera sembravano una parabola del loro tempo. Il suo “Vanity Fair”, settimanale patinato e scintillante era un simbolo della cultura VIP degli anni Ottanta. Quando nel 1993 assunse la direzione del “New Yorker”, la più prestigiosa rivista letteraria e culturale americana, scuotendone le auguste tradizioni, fu il segno del prevalere di una nuova cultura, orientata alla moda e a Hollywood, sul vecchio establishment letterario della East Coast. Talk, fondata da una casa di produzione con l’idea di alimentare idee per possibili nuovi film, portò l’unione tra Madison Avenue e Hollywood al suo estremo logico. Iniziato all’apice del boom economico americano, il suo declino, sulla scia del crollo delle “dot.com”, sembra marcare la fine di un’era. [...] “Nella mia anima si è introdotto il gene imprenditoriale, forse sono diventata più americana di quanto mi rendessi conto. Pensavo, come tutti all’epoca, non dimenticatelo, che fosse il momento di ’un’America punto com’. Tutti si mettevano in proprio e anch’io volevo fare quell’esperienza”. [...] Al giornalista del “Times” che le chiedeva “come ci si sente a cadere dalle vette della popolarità”, ha risposto: “Ci sono abituata, negli ultimi tre anni ho nuotato in un oceano di invidiosa ostilità”. La storia della sua rapida ascesa e dell’altrettanto rapida rovina ha lo stesso fascino dei romanzi di Fitzgerald, il Grande Gatsby e L’età del jazz. Figlia di un produttore cinematografico inglese, laureata ad Oxford, divenne direttrice a soli 26 anni della rivista britannica “The Tatler”, cui impresse uno stile vivace. E’ del 1981 l’incontro, sfociato nel matrimonio, con Harry Evans, direttore del “Times” di Londra. L’affascinante coppia conquista i media di tutto il mondo. Nel 1984 S.I. Newhouse, proprietario del gruppo editoriale Conde Nast, corteggia la Brown perché assuma la direzione di “Vanity Fair”, allora in cattive acque. La Brown non ebbe timore di dare alla rivista una nuova coraggiosa linea editoriale, che accostava alle foto patinate e ai servizi sui vip un buon numero di articoli di un certo spessore. Accanto ad un servizio su “Tutte le donne che sono andate a letto con i Rolling Stones” potevi trovare un reportage sui narcotrafficanti colombiani. Forse l’emblema del suo stile è stata la foto di copertina dell’attrice Demi Moore nuda e incinta, un’immagine che provocò l’ira dei critici ma incrementò le vendite. Visti i suoi precedenti, in molti rimasero di stucco quando Newhouse chiese alla Brown di prendere in mano il “New Yorker”, nel 1993. Fu come se i visigoti avessero appena violato le mura di Roma. Al “New Yorker” chiesero alla Brown di cambiare una delle testate più venerabili e legate alla tradizione. Fondato negli anni Venti, il giornale aveva stabilito uno standard superiore, elevando il giornalismo a livello di letteratura, con la pubblicazione delle opere di James Thurber e A.J. Liebling, Hiroshima di John Hersey, Eichman a Gerusalemme di Hannah Arendt e innumerevoli altri scritti che improntavano il dibattito del tempo. La rivista sdegnava le tradizionali scelte mercantili. Non aveva scadenze. Il direttore, William Shawn, mise insieme un gruppo di autori assai apprezzati e li incoraggiò a seguire i loro interessi. Caratterizzato da grandi profitti fino agli anni Settanta, il “New Yorker” iniziò ad andare in perdita negli anni Ottanta. Con l’arrivo della Brown era chiaro che il “New Yorker” sarebbe cambiato. Subito molti redattori se ne andarono, altri furono licenziati. La Brown ridusse la lunghezza degli articoli e li rese più attuali. Assunse Richard Avedon come fotografo della testata. Pur mantenendo molte delle tradizioni letterarie della rivista, diede incarico alle migliori penne di scrivere pezzi sui più recenti delitti ispirati a culti satanici. Il suo aggettivo preferito era “scottante”. Mentre Shawn, da sempre noto come il Signor Shawn, disdegnava il marketing, sotto la direzione Brown il “New Yorker” cercò di ridisegnare la rivista per un pubblico più giovane, più moderno, che faceva gola ai pubblicitari. Per molti versi riuscì nel suo intento. La tiratura passò da 600.000 a 900.000 copie, ma il processo le costò una fortuna. La Brown probabilmente avrebbe potuto restare come direttrice allo scadere del contratto, ma a quanto sembra desiderava un maggior controllo dal punto di vista imprenditoriale. Era stufa di essere criticata per le perdite della rivista. Mentre era in trattative con Newhouse, il capo della Miramax, Harvey Weinstein, le propose una nuova avventura: dar vita ad una nuova rivista, “Talk”, che doveva servire da “incubatrice” per la casa di produzione, creando storie e idee interessanti. Il boom di Internet era all’apice. Se nel fallimento della Brown è facile vedere la giusta punizione per aver voluto strafare, i suoi critici dovrebbero astenersi dal cantar vittoria. Nella carriera della Brown c’è una morale più vasta, che va al di là dell’ambizione personale. E’ la storia della crisi delle riviste di interesse generale, non solo di “Talk”. […] Anche se alcune scelte della Brown al “New Yorker” possono essere state di dubbio gusto, rappresentavano il tentativo di ribaltare le sorti di una rivista in cattive acque, che tuttora tutti dicono in perdita. “Vanity Fair”, senza la Brown ma utilizzando la sua formula di giornalismo vip, è uno delle poche testate generiche a incassare. La crisi dipende dal mercato, e non dalla personalità del direttore» (Alexander Stille, “la Repubblica” 23/1/2002) • «È diventata direttrice della rivista britannica “The Tatler” a soli 26 anni. Ha sposato Harry Evans, ex direttore del “Times” di Londra e uno dei giornalisti inglesi più leggendari. E se non bastasse ha salvato “Vanity Fair” e reinventato il “New Yorker”. Ma alla fine Tina Brown non è riuscita ad impedire la morte precoce di “Talk”, il mensile da lei fondato nel ’99 insieme a Harvey Weinstein della Miramax, filiale del colosso Disney. “La recessione dei media, qui in America, era iniziata già prima dell’11 settembre - spiega - ma gli attacchi terroristici ci hanno dato il colpo di grazia. Arginare la defezione degli inserzionisti era impossibile e non è un caso che tutta l’editoria americana sia stata penalizzata dal crollo delle Torri […] Il cammino della mia rivista è stato tutto in salita fin dall’inizio. Eravamo ancora sulla linea di partenza che i nostri rivali facevano già il tifo per vederci cadere. “Talk” era una testata indipendente e solitaria in un mondo di corporation proprietarie di innumerevoli giornali e riviste. I ’big guys’ non mi hanno mai vista di buon occhio […] In fondo ho vinto io perché sono riuscita a fare proprio il mensile che desideravo e di cui continuo ad essere fiera. ’Talk’ verrà ricordato dai posteri come un ottimo prodotto che ha fortemente segnato il nostro tempo. Il mio successo ha scatenato invidie e gelosie da parte dell’establishment maschile, scettico anche perché sono una donna […] Mio marito se n’è andato dal ’Times’ di Londra dopo un furibondo litigio col proprietario Murdoch. Molti hanno speculato per anni su una possibile vendetta trasversale contro di me. La cosa francamente non mi tocca. Le critiche, anche feroci e ingiuste, non mi fanno né caldo né freddo […] La crisi riguarda il lusso in generale: dalle crociere da mille e una notte alla moda, ristoranti e negozi per miliardari. In tempi di recessione la gente non ha soldi da buttare via. Chi ne ha pochi non desidera spiare le stravaganze di chi ne ha più di lui”» (Alessandra Farkas, “Corriere della Sera” 6/2/2002).