Varie, 15 febbraio 2002
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Brown Trisha
• Aberdeen (Stati Uniti) 25 novembre 1936. Ballerina. Coreografa • «La signora che ha inventato la danza post modern - in senso proprio, mettendo in discussione i fondamenti stessi dell’arte sua, che nella modern dance ancora reggevano, vedi Martha Graham & C. - ha l’aspetto di una miss Moneypenny (vi ricordate la segretaria un po’ stagionata di M che ha un debole per James Bond?) invecchiata con garbo, capelli grigi composti, figura allampanata. Il massimo della normalità britannica - è americana, sì, ma indagando si scopre che ha tutta una serie di antenati inglesi - e dunque capace di ogni trovata e bizzarria, com’è nella tradizione delle quiete signore albioniche. [...] fama monumentale tra addetti ai lavori e amanti delle arti sceniche, le sue stranezze le ha fatte a New York tra gli Anni 60 e 70, decidendo di portare i suoi danzatori - ma performer sembrerebbe la parola più adatta - a esibirsi sulle facciate delle case o volando di tetto in tetto. Case e tetti della parte bassa di Manhattan - Village, SoHo e dintorni - dove in quegli anni la pop art stava prendendo il posto protagonistico occupato prima dall’espressionismo astratto e la danza la musica il teatro la letteratura si mescolavano, “tutte le forme artistiche riverberavano l’una sull’altra” [...] Trisha Brown - che collaborerà poi con due dei massimi innovatori, il pittore Robert Rauschenberg e il musicista John Cage - parte con una radicalità innovativa assoluta: elimina la coreografia e elimina anche la danza. Be’, insomma, non proprio. Sentiamo come la mette lei: “Volevo fare una danza molto chiara. Nella mia mente c’era un piccolo disegno. Volevo fare un gesto semplice, diretto”. Forse si potrebbe dire che voleva spogliare la danza della “danzosità”, renderla astratta, essenziale come una figura geometrica, “minimalizzarla”. In più Trisha Brown voleva eliminare lo spazio scenico tradizionale e e voleva togliere di mezzo la musica. Non basta: Trisha voleva eliminare la gravità: “Fin da piccola volevo volare. Dove sono cresciuta (nello stato di Washington, al confine col Canada, ndr) è pieno di alberi, ce n’erano di altissimi tutto attorno a casa mia. Ero sempre lassù. Quand’era ora di mangiare mia sorella gridava: ‘Scendi, è pronto’. Ma invece saliva anche lei e poi, insieme, ci lanciavamo giù, in volo. I rami più bassi erano così folti che ci accoglievano impedendoci di cadere”. Volare lungo le facciate delle case di Manhattan non si può, senza farsi male. Ma Trisha fa passare fra le gambe dei suoi performer- kamikaze una corda tesa che scorre, dietro, nell’anello di una piccola imbracatura e li fa scendere diritti, corpo perpendicolare al muro, lenti e precisissimi, musica d’accompagnamento il brusio stupito dei passanti, teste alzate a guardare lo sconcertante happening. “Dovevo sempre salire in cima a edifici pericolanti per chiedere a chi abitava sotto il tetto se potevo installarci le mie carrucole. Oppure se consentivano che danzassimo sulle grondaie... Quella era un’altra cosa bellissima. C’erano dei momenti in cui non ne potevi più di taxi driver, poliziotti, clacson... Allora andavi a ballare sui tetti e nessuno sapeva che eri lì e stavi ballando”. Splendido, ma un giorno succede l’imprevisto: “Sono in quest’appartamento e chiedo a una ragazza - la conoscevo, fra l’altro - se possiamo danzare sul suo tetto e lei mi fa: ‘Bisognerebbe prima fare un’assicurazione, non credi?’. Allora mi sono detta: ‘Addio SoHo, questa è la fine’”. Era l’inizio, in verità. Via dai tetti e dalle facciate, Trisha Brown fonda la sua compagnia e s’accosta anche concretamente, fattivamente, agli artisti con cui fin’allora ha discusso, s’è misurata (la collaborazione con Rauscheberg e Cage è la prima apertura a un dialogo che la porterà, in anni più recenti, fino a Bach, fino all’opera lirica). Allestisce i suoi lavori sul palcoscenico, anche se lo spazio lo sfrutta in modo assolutamente non tradizionale, ricreandolo, ri-significandolo con coreografie che concepiscono il movimento sempre come un’obbedienza/sfida alla gravità (Unstable Molecular Structures, Strutture molecolari instabili è il titolo generale dei suoi primi lavori degli anni Settanta [...]). Ma se le chiedi: come mai ha rinunciato alla strada per tornare al chiuso del teatro?, La risposta è secca: “Perché così fan tutti. Fuori non si può durare”. Dura il rimpianto, però» (Maria Giulia Minetti, “La Stampa” 27/10/2009).